Leggere la realtà lungo i passi di chi la vive

«Lo scorso anno, la spesa per consumi delle famiglie in Italia è rimasta stabile, ma una famiglia su tre ha limitato la spesa alimentare. È quanto rileva l’Istat, precisando che nel 2024 la spesa media mensile per consumi delle famiglie in valori correnti è pari a 2.755 euro, sostanzialmente stabile rispetto ai 2.738 euro del 2023. Ma circa un terzo delle famiglie dichiara di aver limitato in quantità o in qualità, rispetto a un anno prima, la spesa per cibo e per bevande». Così La Stampa martedì scorso, a proposito dell’indagine dell’istituto di statistica sulla spesa degli italiani.

In sostanza, i soldi che si spendono sono grosso modo sempre gli stessi, ma un terzo delle famiglie italiane mangia meno e peggio. È l’effetto combinato della stagnazione dei redditi mediani unita al costante aumento dei prezzi: se ho sempre mille, millecinquecento euro al mese, però il costo del pane o della carne aumenta, non potrò far altro che comprarne di meno o di minore qualità. In particolare se appartengo a quella fascia di popolazione che il superfluo non solo lo ha tagliato, ma da tempo non prova nemmeno a permetterselo. Ed è curioso che, su dati così allarmanti, nelle stanze da cui si decide il destino del Paese, si discuta poco e si agisca ancor meno. Tranne dando la colpa a chi al Governo s’oppone, cercando, in ogni modo, di limitarne azione e parola.

L’angoscia in chi scrive nasce però anche da un’ulteriore considerazione: quella per cui, di tali problemi, si discute poco persino nei bar o nelle piazze dei mercati. È più facile, lì, sentir parlar contro chi si ammazza di fatica (e non è un’iperbole) per raccogliere le derrate che con sempre maggior difficoltà portiamo sulle nostre tavole, che non dell’inerzia ciarliera di quanti, dai palchi delle feste nazionali dei propri partiti, sostengono d’aver la chiave per risolvere i problemi, salvo poi scordarsela all’evidenza della chiamata al potere. A questi si applaude, semplicemente perché urlano di mandar via i concittadini nati altrove; gli altri si accusano d’ogni male, per quanto lontani dalla gestione delle cose siano da tempo.

Nei giorni scorsi, per Ossigeno ho scritto un articolo a metà tra la provocazione e lo stimolo, in parte incentrato su questo fenomeno collettivo di rimozione delle responsabilità, quando a governare è la destra. Tra i tanti commenti che mi è capitato di leggere nei rilanci social del pezzo, non pochi erano all’incirca di questo tenore: «la colpa è di quelli di prima» (ma la destra è al governo da tre anni, più della somma di Monti e Draghi, per dire e non che gli stessi fossero di sinistra), «meno male che Giorgia c’è» (l’avrete già sentita, vero?), «abbiamo la peggiore opposizione di sempre» (può essere, per carità; ma rimane il fatto che a decidere cosa fare, adesso, sono quelli, non questi). E poi, il messaggio di un caro e intelligente amico: «D’accordo; è vero. Ma hai guardato al di là delle Alpi? La Francia, la Germania, persino il Regno Unito, per spingerci più lontano, non è che stiano meglio. Non si possono dare le colpe a un governo singolo, per una congiuntura negativa così ampia». Concesso. Con un paio di però.

Il Regno Unito, al massimo, confermerebbe la mia tesi, nella lettura di alcuni suoi detrattori: il Labour è al governo da un anno, dopo che per oltre tre lustri a Downing Street c’è stato un rappresentante dei conservatori; se proprio dobbiamo ripartire le responsabilità in proporzione, fate voi.

Inoltre, a me piace molto guardare quel che accade al di fuori di qui. Solo che misuro lo stato degli Stati su cosa e quanto i relativi cittadini esprimono voting whit their feet. Nel triennio 2022-2024 (e siamo già nel governo Meloni), mezzo milione di italiani sono emigrati all’estero. E tra le mete di questa emigrazione, le citate Francia, Germania e Regno Unito continuano a essere le preferite. Il contrario, non accade.

Con buona pace dei molti che raccontano quanto qui si stia meglio che altrove.

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Se alla metà degli elettori non interessano le elezioni

Nelle Marche, il presidente uscente Francesco Acquaroli, destra, è stato riconfermato con il 52 per cento delle preferenze. Il candidato del centro sinistra, Matteo Ricci, ha riscosso il 44 per cento dei voti espressi. Il resto, è andato tra liste minori, bianche e nulle. Tutto ciò, per la metà dei cittadini di quella regione che hanno deciso di recarsi alle urne; l’altra, semplicemente, è stata a casa.

Il dato marchigiano non è un caso isolato: sempre più spesso, i livelli di partecipazione al voto si avvicinano a quelle percentuali, se non addirittura al di sotto del cinquanta per cento degli aventi diritto. E inizia a essere un fenomeno ormai stabile, in alcuni contesti da molto tempo. Mi chiedo a questo punto, provocatoriamente, ma non tanto, quanto senso abbia, per gli altri, commentare o leggere i risultati di elezioni che, alla metà o più delle persone che dagli stessi saranno direttamente coinvolti, non interessa nulla, tanto da disertare le urne.

Ripeto, è una domanda che può essere letta in modo provocatorio, però rimane sul tavolo. L’astensionismo ha raggiunto dimensioni tali che è difficile immaginarlo, positivamente, come reazione all’impotenza di determinare le sorti e gli andamenti politici. Gli astenuti marchigiani, per fare solo l’ultimo esempio in termini temporali, sono stati praticamente il doppio di quelli che hanno scelto di votare per il presidente eletto: c’erano numeri, spazi e potenzialità per agire diversamente. Eppure, non è accaduto.

Ora io non ho risposte o strategie per cambiare lo stato delle cose, sempre che lo si voglia cambiare, s’intende. Però quegli spazi sono davvero imponenti, e definiscono, comunque li si voglia leggere, una quota importante di popolazione. Ciò che immagino non si possa fare, è dare una spiegazione unica per tutte quelle rinunce, cullandosi nel sogno che esista quindi una sola soluzione per invertire il fenomeno, e fondare, sugli ex-astenuti, la propria riscossa elettorale.

Sarebbe un’illusione da politica fatta col pallottoliere, tutto il contrario di un’azione fondata (rifondata?) sulle idee e sulle visioni, che è, a parer mio, quello di cui in fondo abbiamo bisogno e che spinge alcuni – non so quanti, ma probabilmente non pochi – tra quei potenziali cittadini attivi a scegliere la rinuncia al periodico rito nelle cabine, non riuscendo a trovare ragioni per l’impegno quotidiano nel vissuto di ognuno.

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La classe dirigente che ci meritiamo

«Non è semplicemente che chi firma gli assegni non ami la scienza. È che vengono eletti da persone che non amano la scienza. Su di loro riferiscono giornali fatti da eserciti di persone di cultura media preparate a leggere aneddoti sui dinosauri. Devi imparare a credere che i giornali che riportano le loro decisioni pubblicano ogni giorno un oroscopo, che né gli editori del giornale né i suoi lettori considerano interamente privo di fondamento. […] Quello che devi capire è semplicemente che non ti puoi permettere di agire come se tu avessi a che fare con degli adulti. Non hai a che fare con persone interessate a capire come una cosa effettivamente funziona. Hai a che fare con persone che vorrebbero che tu riaccendessi in loro una specie di meraviglia infantile. Con persone che vorrebbero tu eliminassi tutti gli aspetti faticosi e matematici».

Così un personaggio del bellissimo romanzo L’ultimo samurai, di Helen DeWitt (ed. Einaudi, 2025, cit. pag. 209), parla al bambino protagonista, Ludo, in quel momento credendolo suo figlio. Alcuni giorni dopo aver letto il libro, mi sono trovato, riprese sui social, alcune dichiarazioni di esponenti politici della maggioranza sulla questione dell’obbligo vaccinale e su chi debba valutarne i vari aspetti normativi e organizzativi. Senza voler entrare nel merito delle osservazioni dei vari Borghi e Lollobrigida (e non vedo perché dovremmo farlo, se questa non fosse la sorte che ci è toccata), è proprio l’aspetto generale della situazione a destare preoccupazione. Quelli citati e gli altri pari, sono precisamente, con l’immagine del libro di sopra, «chi firma gli assegni», avendo in mano, pro tempore, i cordoni della borsa pubblica, potendo nominare o revocare i responsabili degli enti di controllo e i centri di ricerca statali, sostenendo o ostacolando quelli privati e indipendenti. Lo stato delle cose è di tutto ciò conseguenza.

Ora sarebbe facile dirci che questa classe dirigente è tale perché, qui e ora, i politici nelle posizioni di vertice li scelgono i partiti, sottraendo, attraverso le leggi elettorali, in tutto o in parte questo potere agli elettori. Perché poi, in fondo, son sempre gli elettori che scelgono a quali partiti affidare la maggioranza, e le liste, per quanto bloccate, son pubbliche e pubblicate, e perché anche dove così non è, i risultati non sono diversi o migliori, anzi.

Prendiamo il caso statunitense. Lì, le primarie non servono a sapere solo chi dovrà correre per la Casa Bianca, ma anche quali dovranno essere i vari candidati nei singoli collegi, persino nelle amministrazioni statali e locali più importanti. E non per buona regola dei partiti, ma proprio perché lo prevede la legge. Ecco, per stare alla questione del nostro esempio, sui vaccini decide Robert Kennedy jr., appunto. E sul resto? Di Trump son piene le cronache e le pagine della storia recente, il suo vice (anch’egli eletto dal popolo, perché lì è così) è uno che pretende di spiegare al Papa come si debba leggere il Vangelo, il segretario di Stato ritiene che le politiche per arginare gli effetti del cambiamento climatico siano una perdita di tempo e che si debba sostenere l’insegnamento del creazionismo nelle scuole, il capo del Pentagono invia i piani di guerra su chat a caso.  

Continuare potrebbe essere divertente, ma il punto rimarrebbe lo stesso: in Italia, come negli Stati Uniti e come in molti altri luoghi (ricordiamo che nella culla della democrazia parlamentare, il consenso di buona parte dell’elettorato negli ultimi anni ondeggia tra Johnson e Farage), quelli che detengono il potere e rappresentano le istituzioni per espressa e suggellata volontà popolare, non di rado, sono soggetti che non fingeremmo di prendere sul serio nemmeno in una farsa.

La sintesi voglio lasciarla a una brillante vignetta di Ellekappa di qualche tempo fa, in cui una delle due figure si lamenta di quanto sarebbe necessario avere «una classe dirigente più colta, preparata e tollerante, e l’altra che lapidaria risponde, tra il sarcasmo e lo sconforto, «per rappresentare chi?».

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Haters, a chi?

Speculando sulle tragedie come spesso capita di sentir fare da quelle parti, prima che il sibilo del proiettile che aveva tragicamente ucciso Charlie Kirk si calmasse, l’internazionale di destra aveva già scorto i mandanti morali: la sinistra e tutti i suoi cattivi maestri. Ça va sans dire. La loro colpa, a dir degli altri? Ovviamente quella di essere degli incorreggibili haters e di spargere un linguaggio intriso d’odio contro gli avversari politici che poi, alla fine, conduce dove ha condotto.

La parte nostrana di quell’internazionale si è profusa subito a incolpare tutto l’universo progressista al primo post in cui non meglio precisati utenti, ma sicuramente radical chic, è evidente nella consecutio temporum, hanno ricordato le parole della vittima sul possesso delle armi e su come, a suo dire, qualche morte innocente fosse un prezzo tutto sommato accettabile per quella libertà. Apriti cielo: «eccoli, gli odiatori comunisti!». Bene, proviamo a parlare di odio portato in politica. «Rivendico a gran voce […] il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare», ha scritto Vannacci. «La signora meriterebbe di piangere per il resto dei suoi giorni. […] Io sono un pacifista e un non violento, ma quando mi dicono “Fornero” m’incazzo come una bestia e mi prudono le mani, quindi fortuna che non è in casa oggi», diceva Salvini, arringando la folla sotto casa dei genitori dell’ex ministra del governo Monti. E a proposito dei maître à penser di quella parte politica, dei titoli di Libero quando a dirigerlo c’era Vittorio Feltri, oggi consigliere regionale lombardo in quota Fratelli d’Italia, ne vogliamo parlare? Odio riversato a palate contro gay, migranti, avversari politici; dopo aver indossato, letteralmente, i panni della barbarie, si travestono oggi da Indira Ghandi, mentre spiegano le insegne del loro credo “remigrazionista”, cioè della volontà di cacciare delle persone dai posti in cui vivono solo perché non corrispondono al proprio ideale di società omogenea, come si leggeva nelle più oscure pagine di secoli che credevamo passati.

Volgendo lo sguardo oltre i confini italiani, dato che d’internazionale appunto si parla, e senza voler tornare troppo indietro nel tempo, dopo le parole emergono i fatti: troviamo deputati uccisi, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, labour e dem, parlamenti assaltati, tentati golpe, pogrom contro gli stranieri. Tutte cose che arrivano da un solo lato degli schieramenti politici. Lo stesso da cui giungono ora le accuse agli altri di essere «fomentatori di violenza».

Su queste pagine si crede fortemente nella libertà di parola e nella tolleranza, così come mai si metteranno in dubbio le conversioni, persino le più repentine e acrobatiche. Ciò detto, si continua a pensare che Popper avesse ragione nel mettere in guardia contro l’eccessiva tolleranza verso gli intolleranti, e si crede che una trasformazione d’animo possa sincera solo nella misura in cui, nei fatti, si apre a un agire differente; se si continua a vedere il nemico ovunque, nel diverso, nelle minoranze, nei dissidenti, indicandoli a oggetto della rabbia altrui, è difficile credere alla bontà dello spirito ecumenico professato.

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Come quando si stava peggio

Il 37% degli italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni possiedono competenze di comprensione e scrittura di testi (literacy) a livello elementare o inferiore (“Livello 1” su una scala da zero a cinque, quello che va sotto il nome di “analfabetismo funzionale”, per intenderci), contro la media Ocse del 27%. Vale a dire che quattro cittadini su dieci sono in grado di comprendere solamente testi semplici. Lo si legge nel rapporto Education at a Glance 2025: OECD Indicators, sui risultati della ricerca che gli analisti dell’organizzazione internazionale conducono annualmente negli Stati membri; l’Italia è tra gli ultimi in classifica tra le nazioni europee, ma siccome non è un girone qualificatorio a qualche torneo di pallone, in pochi ne parlano.

Il mondo di oggi è sempre più complesso, si stente dire quasi ogni giorno. Bene: l’italica risposta è capirne sempre meno. Studiare poco (siamo pure agli ultimi posti nel numero di laureati, per esempio), tanto «un meccanico guadagna più d’un ingegnere» (è il tema costante di tanti post con molti like sui social), e non sforzarsi di approfondire le questioni. Aprire un libro? Per carità! «Ho conosciuto analfabeti che ne sapevano più di cento professori»; vi sarà capito di sentire frasi del genere, no? Ecco, appunto: forse è per quello che l’Italia svetta in Europa, rovesciando la classifica degli indici di lettura, con appena un terzo dei suoi abitanti che legge almeno un testo all’anno (dati Eurostat aggiornati al 2022). Il resto, è conseguenza.

A pensarci meglio, in un Paese in cui i retro-utopici sono classe dominante, non è da escludere che quei dati siano graditi. Non si dice spesso che «si stava maglio quando si stava si stava peggio»? Magari è un percorso per ritornare a quei tempi, quando «c’era ordine, rispetto dei valori tradizionali e ognuno aveva un posto nel mondo» (anche se quello dei miei avi era il gradino dei cafoni al limite, se non oltre, la fame, mentre i galantuomini mai si davano pena di cercare il modo per migliorar la vita degli altri; vorremo mica farne una questione personale? Sia mai!).

Dal primo censimento postunitario, emergeva che i tre quarti della popolazione italiana erano analfabeti. Certo, era quello un analfabetismo totale, nel senso proprio dell’incapacità di riconoscere o riprodurre lettere e parole, che si traduceva nell’estromissione di quelle genti da ogni possibilità offerta dalla società del tempo, per mancanza di potenzialità di accesso, e dalla limitazione, per esse, di potersi fare attori di un miglioramento attivo delle proprie considerazioni e di quelle dei loro pari.

Ma cos’è ciò che chiamiamo “analfabetismo funzionale”? Dal 1984, l’Unesco usa tale definizione per descrivere lo stato in cui si trova «una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Di contro, il Glossary of Statistical Terms, pubblicato dall’Ocse nel 2008, definisce funzionalmente alfabetizzata una persona che «can engage in all those activities in which literacy is required for effective functioning of his group and community and also for enabling him to continue to use reading, writing and calculation for his own and the community’s development».

È una situazione davvero tanto diversa da quella di allora?

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Il lavoro delle parole

«Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre». Parlava di Francesca Serio, Carlo Levi, la madre di Salvatore Carnevale, giovane sindacalista e socialista siciliano, ucciso dai mafiosi, arrestato dalle guardie, odiato dai padroni della terra, eroe per i contadini (cfr. C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Einaudi, 2016). Pietre, perché su queste si può costruire, e Francesca Serio, con quelle, costruiva il suo sentimento di giustizia. Ma sono pietre anche se le si usa per distruggere, per colpire. Per ferire.

Fa quasi impressione dover valutare come tasselli dello stesso strumento espressivo, il linguaggio, appunto, quelle massime e quelle minime, insulse, volgari. Eppure è così: son parole le une e le altre. Tutto sta a sceglierle per il meglio, a dare loro i significati migliori. Per questo sono importanti; dietro di esse, dietro l’uso che se ne fa, vive il pensiero che le muove. E da lì descendono le azioni che si avviano. La madre di cui parla Levi fa nascere dal suo parlare la ricerca di rettitudine. Cosa può mai derivare dalle quelle trovate a commento di foto rubate sui siti sessisti di cui le cronache si sono occupate nei giorni scorsi?

Sono importanti i termini, dicevo, e lo è il senso che a questi si dà. Recitando un monologo scritto da Stefano Bartezzaghi durante la cerimonia di premiazione dei David di Donatello del 2018, Paola Cortellesi fa alcuni esempi su come una lingua piegata a una cultura patriarcale ribalti l’esito di parole identiche al semplice cambiare di genere: «Un uomo di strada: un uomo del popolo; una donna di strada: una mignotta. Un uomo disponibile: un uomo gentile e premuroso; una donna disponibile: una mignotta. Un uomo allegro: un buontempone; una donna allegra: una mignotta». L’elenco continua, il risultato è sempre lo stesso.

Da quelle definizioni diverse, poi si passa ad altro. Dallo stesso monologo, su frasi più offensive e scriteriate: «“Brava, sei una donna con le palle”; “Chissà che ha fatto quella per lavorare”; “Anche lei però, se va in giro vestita così”; “Dovresti essere contenta che ti guardino”; “Lascia stare, sono cose da maschi”; “Te la sei cercata”». Pure qui l’elenco continua, gli esiti peggiorano. Fanno già male i suoni; e dopo di questi?

Alcuni giorni fa, a una studentessa universitaria che stava camminando per strada, a Bari, due ragazzini in monopattino, passandole accanto, le hanno toccato il sedere. Vogliamo continuare l’elenco? «E che sarà mai!»; «Per una manata sul culo non è mai morta nessuna»; «Ma sì, una piccola molestia! Vorrai mica denunciare e rovinare due ragazzi per questo?». Molestia; pure alcuni giornali la raccontano così. Molestia è però quando non ti toccano, altrimenti è violenza. Doveva forse tenersela e stare zitta, tanto «son cose che capitano»? Dalle parole alla mano sul culo. E dopo? Quali frasi hanno ascoltato, quei ragazzi, per arrivare a sentirsi in diritto di poterlo fare? Quali quelle che son mancate?

Sono cresciuto e vivo nella stessa società e nel medesimo tempo che ha generato e genera quei comportamenti, e non sono perfetto: non penso di non sbagliare, mi sforzo per evitarlo, per cercare le parole giuste, quelle che non offendono, quelle che non colpiscono, quelle sui cui si può costruire insieme. Quelle che evitano di degenere nei comportamenti che purtroppo conosciamo, e che arrivano agli esiti estremi o comunque intollerabili, dopo esser state per troppo tempo ignorate, tollerate, quando non direttamente e del tutto accettate.  

Non è immediato, perché appunto di mediazione continua ha bisogno, ma si può fare.

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Non doveva diventare il paradiso?

Pensate alla Scozia, ora; cosa vi viene in mente? Incantevoli paesaggi brulli e illuminati da un sole basso, quasi artico, scorci di strade lastricate in pietra tra edifici usciti da un film di Harry Potter, un pub caldo dove farsi asciugare la bruma nelle ossa sorseggiando due dita d’un ottimo Scotch o una pinta di robusta Ale, un placido lago sotto cui immaginare mostri acquatici, i kilt, il bianco e l’azzurro, le cornamuse… Insomma, tante cose, ma non certamente il posto principale in cui emigrare per trovar lavoro.

E infatti, le percentuali immigratorie nella nazione a nord del Vallo di Adriano non sono di certo paragonabili a quelle della City, 400 miglia più a sud della capitale scozzese. Eppure, lunedì scorso, 25 agosto, il quotidiano di Edimburgo The Scotsman è andato in edicola con un titolo a cinque colonne che lasciava poco spazio al dubbio: «Immigration surges as top priority for Scottish voters». Il servizio della corrispondente politica Rachel Amery dava conto dei risultati di un sondaggio, l’Understanding Scotland Economy Tracker, condotto dal David Hume Institute in collaborazione con Diffley Partnership, che ha rilevato quanto siano cambiate le priorità politiche degli scozzesi, con il 21% per cento che ora indica l’immigrazione come questione principale che il Paese deve affrontare, superata solamente dal costo della vita (37%) e dall’assistenza sanitaria (48%) — erano ovviamente possibili più risposte; con le elezioni per il rinnovo del parlamento locale all’orizzonte, non certamente un bel viatico. Ma è davvero così forte la pressione migratoria, per giustificare un simile spostamento d’opinione? A leggere i dati raccolti nel sondaggio e non lasciandosi fuorviare dalle manifestazioni sobillate dall’estrema destra, parrebbe che i motivi siano altri.

Scrive infatti Amery, leggendo dal report, che: «71% Scots expect the economy to worsen in the next year, and 67 per cent say conditions have already deteriorated over the past 12 months. A further 53 per cent have reduced all but essential spending, and 51 per cent have had to cut back on leisure activities. […] A total of 55 per cent said they were cutting back on takea-ways and dining out, 49 per cent were shopping based on price rather than health, 26 per cent were reducing their fresh fruit and vegetable intake, and 25 per cent were eating more processed foods. […] 35 per cent of respondents could not save because their income only covered essentials. Only 14 per cent were saving without trying as they earn more than they need day-to-day, the poll indicated».

«Into this atmosphere, immigration becomes a lightning rod», dice nel suo commento, riportato dallo stesso Scotsman, Susan Murray, direttrice del David Hume Institute. E aggiunge: «Economic history shows us that spikes in concern about immigration rarely happen in times of prosperity. They occur when households feel squeezed, when savings are out of reach, and when insecurity is rising. Today’s Scotland fits that pattern. Seven in ten expect the economy to worsen in the year ahead. One in three say they cannot save at all. In that context, it is little surprise that immigration is rising up the political agenda, even if the evidence shows that migrants make a net positive contribution to the economy and public services […]. The risk is that immigration becomes a scapegoat for much deeper structural problems: low productivity, a broken housing market, and years of wage stagnation. If we reduce this debate to “us versus them”, we miss the bigger truth that Scots of all backgrounds are living with the consequences of austerity, global shocks, and underinvestment in the essentials of a good society». E, aggiungerei io, della menzogna che con l’uscita dall’Ue tutto sarebbe stato migliore, per i sudditi di Her Majesty dalla Manica alle Ebridi.

Certo, la stessa Murray mette in guardia dal liquidare le preoccupazioni emerse dal sondaggio come fuori luogo, perché ricorda, e a ragione, che «Politics is about perception as much as fact», ma rimane il dato che vede un peggioramento delle condizioni materiali degli abitanti della parte già più povera del Regno Unito. La sfida (lì come ad altre latitudini) è proprio agire sui livelli di qualità e sicurezza concreti nella vita delle persone.

Il resto, sono chiacchiere vuote. Sia, e va da sé, quelle di chi addita l’altro e l’altrove come causa unica e soli responsabili di ogni male, che sono gli stessi che indicavano Bruxelles quale matrigna, salvo scoprire che, nelle tasche di gli ha creduto allora, oggi va peggio di ieri, sia chi, purtroppo, ignora o sottovaluta il malessere reale solo per il suo indirizzarsi, sovente spinto e incanalato da pericolosi pifferai, verso obiettivi sbagliati, dimenticando di analizzare le ragioni e le motivazioni che lo fanno emergere a livelli così elevati.

Con la drammatica differenza che ai primi non mancherà la brace su cui soffiare.

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Non li salverà il turismo

«Tu dimentichi le possibilità offerte da un rilancio dei territori interni in chiave turistica, fuori dalle grandi rotte, ma proprio per questo in grado di poter offrire una prospettiva economica sufficiente a generare reddito per chi ci vive, puntando sulla diversità e l’originalità che in molti ricercano. Esistono già esempi in tal senso, alcuni anche nelle zone in cui vivi tutto l’anno. Perché non potrebbe funzionare pure qui?».

Quello riportato è il testo (con lievi modifiche) di un messaggio WhatsApp inviatomi da un caro amico a commento del mio articolo della scorsa settimana. Però io non dimentico affatto quelle possibilità: è che non credo serviranno a salvare tutti i comuni colpiti dallo spopolamento. Persino dove quelle potenzialità sono state messe a frutto, agli effetti di una drammatica demografia non si è posto argine. Ne parlavo alcuni mesi fa, citando il caso di Marmora, nell’alta Val Maira, dove già da una ventina d’anni, come si legge nel saggio La montagna con altri occhi (cfr. primo volume della collana L’AltraMontagna, scritto da Antonio De Rossi e Laura Mascino, edito da People, 2025), si è riusciti a mettere insieme «contesti ambientali di pregio, valorizzazione delle risor­se culturali e storiche, accoglienza e dimensione turistico-sportiva a basso impatto», generando un modello che, sotto quel profilo, ha funzionato e sta funzionando benissimo. Eppure, oggi, a Marmora, un comune che al primo censimento postunitario contava più di mille abitanti, ci sono sì ventidue strutture ricettive per un totale di oltre ventimila presenze l’anno, ma appena cinquantacinque residenti e una sola bambina in età scolare; quantomeno arduo parlare di rinascita del paese grazie al turismo. E quella è la Val Maira, un territorio davvero «di pregio», sotto il profilo ambientale e paesaggistico. I centri condannati allo spopolamento dall’Alpi a Sicilia sono tantissimi; li immaginiamo tutti belli e con panorami mozzafiato, in grado di attirare un sufficiente numero di visitatori?

Lo so, potreste rispondermi, come ha già fatto l’amico dal cui messaggio partivo nella piccola conversazione che poi da lì s’è sviluppata, che si possono migliorare alcuni aspetti, intervenire persino sul tessuto urbanistico e sull’ambiente circostante, per renderlo più gradevole e accogliente, così come si possono creare eventi e contesti per sostenere quella crescita. Ma anche ammettendo che tutto ciò sia sempre possibile e funzioni, ritorneremmo alla domanda che sorge dal “caso Marmora”: vive un paese, tutto un paese, solo di quello?

Infine, che vivere sarebbe, quello di trasformarsi in un villaggio per vacanzieri? Potremmo dirlo “riscatto”, per un territorio e per chi lo abita? Su quali basi solide fonderebbe la propria economia? Su un fenomeno tanto aleatorio: oggi son di moda i “borghi”, e allora tutto bene, domani lo saranno le vacanze all’estero, e quindi getteremo a mare investimenti, sogni e speranze?

Forse disilluso, certo, ma penso che le possibilità di rivitalizzazione concreta di un piccolo centro delle aree interne senza alcuna, reale e solida, “eccellenza” o particolarità unica, siano pari o quasi a quelle di riportarlo alla vita attraverso il rientro di giovani professionisti in smart-working: se n’è parlato come qualcosa di ineluttabile e già incombente, nei giorni della pandemia o subito dopo, mentre oggi, a pochi anni da allora, le case lì continuano a rimanere vuote, con i cartelli “vendesi” a ingiallirsi alle ringhiere, mentre di tutt’altra effervescenza vive il mercato immobiliare delle metropoli che si davan per condannate.   

No, non saranno salvati dal turismo, quei luoghi e chi li anima. E credo che una “turistizzazione” imposta non rederebbe loro giustizia, realizzando appieno le pur giuste idee di riscatto e aspirazioni di crescita e affermazione, come non lo fa il solo pensare che l’unica via di affrancamento, per gli uni e per gli altri, risieda nel trasformarsi, absit iniuria verbis, in comunità serventi di ricchi altrove.

Scrivendo quest’ultima frase, mi sono tornate in mente le pagine del libro di Hans Rosling Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo (scritto con Ola Rosling e Anna Rosling Rönnlung, nella traduzione italiana di Roberta Zuppet, Rizzoli, 2018, cit. pagg. 200-201), alle quali lascio la chiusura dell’articolo:

Il 12 maggio 2013 ebbi il grande privilegio di parlare a 500 leader donna di tutto il Continente durante una conferenza dell’Unione africana dal titolo «Il rinascimento africano e il programma per il 2063». Che enorme onore, che emozione. Era la conferenza della mia vita. Durante il mio intervento di trenta minuti nella sala plenaria della bellissima sede dell’organizzazione a Addis Abeba, sintetizzai decenni di ricerche sulle agricoltrici di piccola scala e spiegai a quelle potenti decision maker come sarebbe stato possibile mettere fine alla povertà estrema in Africa nell’arco di vent’anni.
Nkosazana Dlamini-Zuma, la presidentessa dell’Unione africana, sedeva proprio davanti a me e sembrava ascoltare attentamente. Dopo, si avvicinò e mi ringraziò, e le chiesi cosa ne pensasse della presentazione. La risposta mi raggelò.
«Be’,» disse «i grafici erano interessanti e lei è un bravo oratore, ma non è per niente lungimirante.» Il tono gentile rese le parole ancora più scioccanti.
«Cosa?! Pensa che non sia lungimirante?» domandai, offeso e incredulo. «Ma ho detto che la povertà estrema in Africa potrebbe risolversi nel giro di vent’anni.»
Replicò a voce bassa, senza emozioni né gesti. «Oh sì, ha parlato di sradicare la povertà estrema, il che è già un inizio, ma si è fermato lì. Pensa che gli africani si accontenteranno di sbarazzarsi della povertà estrema e di vivere in quella ordinaria?» Mi mise una mano energica sul braccio e mi guardò senza rabbia, ma anche senza sorridere. Vidi una forte volontà di farmi capire i miei errori. «Spera, ha detto alla fine, che i suoi nipoti vengano in Africa come turisti e che viaggino sui nuovi treni ad alta velocità che progettiamo di costruire. Che razza di ragionamento è questo? È sempre la stessa vecchia concezione europea.» Mi guardò dritto negli occhi. «Saranno i
miei nipoti a viaggiare sui vostri treni ad alta velocità e a visitare quel curioso hotel di ghiaccio che avete nella Svezia settentrionale. Ci vorrà molto tempo, lo sappiamo. Ci vorranno molte decisioni sagge e grossi investimenti. Ma secondo me, tra cinquant’anni, gli africani saranno turisti graditi in Europa e non profughi indesiderati.» Infine fece un gran sorriso caloroso. «Ma i grafici erano davvero interessanti. Ora andiamo a bere un caffè.»

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Persino un orologio rotto…

«Un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita».

Il linguaggio del Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (nel terribile acronimo PSNAI), pubblicato a marzo scorso dal Governo, nel descrivere le tipologie di obiettivi da perseguire «nella prospettiva di rafforzare le condizioni delle Aree Interne, in funzione delle condizioni di partenza delle realtà locali» (pag. 44-46), al punto 4, non usa giri di parole e, nelle poche righe sopra riportate, decreta l’irreversibilità dello spopolamento per molti di quei già piccoli paesi. Chi segue questo blog sa che la mia opinione sull’attuale esecutivo non potrebbe essere peggiore. Eppure mi chiedo: hanno così torto, in ciò che scrivono in quel documento?

Ne parlavamo alcuni giorni fa con due amici, davanti a un bar del nostro sempre più piccolo «natio borgo selvaggio». Quelle linee guida ministeriali sono una traccia scritta da funzionari e tecnici, spesso slegati dalla politica che, in un senso o nell’altro, cerca di interpretarli, e servono per disegnare un quadro della realtà per come essi stessi la leggono dai dati. E i dati, quelli sono. Immagino che la maggioranza politica dei “girasagre” e della retorica delle radici e delle patrie, grandi e minime, come unica misura dell’esistenza, avrebbe potuto trovare molto più elettoralmente interessante un’eloquenza contraria, fatta di rilanci sensazionalistici di storie di successo, rese possibili dall’impegno e dalla competenza dei politici della propria parte. Così, in quelle pagine, non è: lì si certifica quel che c’è. E come si dice, persino un orologio rotto…

Il senso ultimo delle ricordate pagine del PSNAI, a mio parare, è un avviso ai governanti: in quelle aree compromesse, per favore, non investite in progetti senza senso pratico per la poca popolazione rimasta, ma in interventi che per quelle, e solo per quelle, finché ci saranno, possano essere utili. Che senso ha realizzare un campetto da padel con fondi pubblici, in un comune di 500 abitanti e con una popolazione all’80% ultrasettantenne? Non sarebbe meglio finanziare una società di noleggio con conducente per poter arrivare nel centro medico più vicino o una cooperativa di servizi per l’assistenza e la cura agli anziani? Per chi costruiamo il parco giochi, in paesi dove l’ultimo bambino è nato vent’anni fa?

Fa male, certo, vedere le case che si sono conosciute piene inesorabilmente svuotarsi. Ancor più triste è non volerlo vedere, illudersi che il rilancio possa passare dall’istituzionalizzazione di manifestazioni ed eventi in fotocopia, nelle rievocazioni storiche tutte uguali, nella fantasia che il proprio sia il borgo più bello, e perciò stesso in grado di attirare visitatori, che pur quando vengono, rimangono appena il tempo d’un pranzo a base di quegli stessi prodotti tipici che è sempre più difficile produrre, quando a mancare sono i numeri per farne tasselli di un’economia solida.

Sognare non costa nulla, si sa; è l’amaro in bocca al risveglio che può far star male.

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Un’altra via non la conosco

Io sono il sogno del loro giorno eterno,
il sogno sognato in miniere senza luce;
io sono il loro buio e il loro raggio supremo,
il loro silenzio e la lor voce: parlo e scrivo
perché loro sognarono ch’io scrivessi e parlassi
della lor morte in nessun registro notata.

I versi che leggete sopra sono di Joseph Tusiani, da Carme bisecolare (nella raccolta Gente mia e altre poesie, edizioni Gruppo Cittadella Est, 1978, qui in M. Avagliano, M. Palmieri, Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti, Il Mulino, 2024, pag. 455). Ci ho pensato l’altro giorno, quando, sviluppando una conversazione con un amico a proposito del tema del mio post del 28 luglio scorso, con non poche ragioni lo stesso mi ha fatto notare che può apparire spocchia, quella del ceto medio intellettuale, il definirsi tale solo per la cultura, in una società e in un tempo che non considera più quella una via di riscatto. Forse ha ragione; e però, io, un’altra strada, non la conosco.

Provando a spiegare meglio quel che intendo, aiutandomi con le parole e le immagini di altri, in un episodio di Appena sbarcati, vecchia fiction Rai sulle condizioni degli emigrati italiani nel Nuovo Mondo (le sequenze che lo contengono, sono ora visibili su RaiPlay, Storie di Migranti – L’arrivo in America, breve quanto completo documentario su quegli anni di fine Ottocento, inizio Novecento), si vede un traduttore aggregato alla commissione di valutazione delle domande per ottenere il diritto alla permanenza negli Stati Uniti chiedere a tre migranti italiani di raccontare tutta la loro storia e le vicissitudini occorse loro nei mesi trascorsi in America e anche prima, a cominciare dal viaggio intrapreso per attraversare l’Atlantico. Qui il breve dialogo:

Traduttore/commissario: «Intanto […], come ti sei pagato il viaggio?».
Migrante: «Me lo pagò Nicola Salicini, l’agente di immigrazione che venne al mio paese, a Corleone».
Traduttore/commissario: «E ti ha fatto firmare una carta?».
Migrante: «Sissignore, mia moglie e io, insieme. Sulla casa, il terreno, la vigna; tutto. Per 250 franchi».
Traduttore/commissario: «Ti ha fatto pagare il viaggio 250 franchi? Ma se ne costa appena 115. Ma si può sapere perché vi fate truffare in questa maniera?».
Migrante: «Eh, eh, perché. Perché, chi ha studiato, le cose prima le sa, e poi le fa. Noialtri, invece, poveri ignoranti, prima le facciamo, e poi le capiamo».

Credo sia esattamente il senso di tutto quello che, pure in forza di esperienze non diverse da quella lì raccontata, da un certo punto in poi, alla mia schiatta è stato insegnato. Capitò così che i figli e i nipoti dei contadini analfabeti delle tante Gagliano divennero insegnanti, avvocati, ingegneri, dottori, anche solo diplomati alla scuola dell’obbligo: imparando a sapere le cose, prima di farle. Almeno per evitare i raggiri di qualche agente di immigrazione capitato per lucro in paese, o di altri figuri e signori della sua forza e motivazione.

Potrei dire, parafrasando il Manzoni, che in quelle poche parole ritrovate per caso in un film a episodi di tanto tempo fa, sta il sugo della mia storia. Anzi, a proposito dei Promessi sposi, nelle pagine dell’opera magistrale del Manzoni c’era già quel messaggio, e proprio nei paragrafi in cui lo stesso autore propone «il sugo», il senso di tutte le vicende narrate.     

Il XXXVIII capitolo del romanzo, infatti, si chiude con Renzo che ripercorre in controluce le sue vicende, cercando in esse un significato più profondo e morale, raccontando poi di quello che da queste aveva imparato. Nel presentarne i ragionamenti, l’autore ci racconta pure che: «Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese, affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro».

Appunto: per non soccombere a quella e alle altre birberie del mondo degli uomini.

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