«Lo scorso anno, la spesa per consumi delle famiglie in Italia è rimasta stabile, ma una famiglia su tre ha limitato la spesa alimentare. È quanto rileva l’Istat, precisando che nel 2024 la spesa media mensile per consumi delle famiglie in valori correnti è pari a 2.755 euro, sostanzialmente stabile rispetto ai 2.738 euro del 2023. Ma circa un terzo delle famiglie dichiara di aver limitato in quantità o in qualità, rispetto a un anno prima, la spesa per cibo e per bevande». Così La Stampa martedì scorso, a proposito dell’indagine dell’istituto di statistica sulla spesa degli italiani.
In sostanza, i soldi che si spendono sono grosso modo sempre gli stessi, ma un terzo delle famiglie italiane mangia meno e peggio. È l’effetto combinato della stagnazione dei redditi mediani unita al costante aumento dei prezzi: se ho sempre mille, millecinquecento euro al mese, però il costo del pane o della carne aumenta, non potrò far altro che comprarne di meno o di minore qualità. In particolare se appartengo a quella fascia di popolazione che il superfluo non solo lo ha tagliato, ma da tempo non prova nemmeno a permetterselo. Ed è curioso che, su dati così allarmanti, nelle stanze da cui si decide il destino del Paese, si discuta poco e si agisca ancor meno. Tranne dando la colpa a chi al Governo s’oppone, cercando, in ogni modo, di limitarne azione e parola.
L’angoscia in chi scrive nasce però anche da un’ulteriore considerazione: quella per cui, di tali problemi, si discute poco persino nei bar o nelle piazze dei mercati. È più facile, lì, sentir parlar contro chi si ammazza di fatica (e non è un’iperbole) per raccogliere le derrate che con sempre maggior difficoltà portiamo sulle nostre tavole, che non dell’inerzia ciarliera di quanti, dai palchi delle feste nazionali dei propri partiti, sostengono d’aver la chiave per risolvere i problemi, salvo poi scordarsela all’evidenza della chiamata al potere. A questi si applaude, semplicemente perché urlano di mandar via i concittadini nati altrove; gli altri si accusano d’ogni male, per quanto lontani dalla gestione delle cose siano da tempo.
Nei giorni scorsi, per Ossigeno ho scritto un articolo a metà tra la provocazione e lo stimolo, in parte incentrato su questo fenomeno collettivo di rimozione delle responsabilità, quando a governare è la destra. Tra i tanti commenti che mi è capitato di leggere nei rilanci social del pezzo, non pochi erano all’incirca di questo tenore: «la colpa è di quelli di prima» (ma la destra è al governo da tre anni, più della somma di Monti e Draghi, per dire e non che gli stessi fossero di sinistra), «meno male che Giorgia c’è» (l’avrete già sentita, vero?), «abbiamo la peggiore opposizione di sempre» (può essere, per carità; ma rimane il fatto che a decidere cosa fare, adesso, sono quelli, non questi). E poi, il messaggio di un caro e intelligente amico: «D’accordo; è vero. Ma hai guardato al di là delle Alpi? La Francia, la Germania, persino il Regno Unito, per spingerci più lontano, non è che stiano meglio. Non si possono dare le colpe a un governo singolo, per una congiuntura negativa così ampia». Concesso. Con un paio di però.
Il Regno Unito, al massimo, confermerebbe la mia tesi, nella lettura di alcuni suoi detrattori: il Labour è al governo da un anno, dopo che per oltre tre lustri a Downing Street c’è stato un rappresentante dei conservatori; se proprio dobbiamo ripartire le responsabilità in proporzione, fate voi.
Inoltre, a me piace molto guardare quel che accade al di fuori di qui. Solo che misuro lo stato degli Stati su cosa e quanto i relativi cittadini esprimono voting whit their feet. Nel triennio 2022-2024 (e siamo già nel governo Meloni), mezzo milione di italiani sono emigrati all’estero. E tra le mete di questa emigrazione, le citate Francia, Germania e Regno Unito continuano a essere le preferite. Il contrario, non accade.
Con buona pace dei molti che raccontano quanto qui si stia meglio che altrove.