Domenica scorsa ho letto l’ultimo libro di Paolo Cognetti, Giù nella valle; bello. Apprezzamento a parte, però, devo ammettere che quella lettura non era nei miei programmi. A farmi prendere il volume in libreria sono state le polemiche contro l’autore rilanciate, tra gli altri, dai vertici locali e nazionali dell’Uncem, l’unione dei comuni e degli enti montani, che devo quindi ringraziare per avermi spinto alla piacevole scoperta.
Ora, il libro di Cognetti scorre velocemente, con un ritmo che potrei dire “americano” (aiutato dalla brevità del testo, va detto), e lo stesso autore, nella sua nota, non nasconde i rimandi alla letteratura, e alla musica, statunitense. Sullo sfondo, la Valsesia, ma per come si svolge la storia, avrebbe potuto essere molti altri luoghi, e davvero forse anche la valle del North Platte o le Badlands, in Nebraska. Le polemiche di residenti e amministratori, sinceramente, non le ho capite: «Il suo romanzo ci offende, non siamo ubriaconi», si legge negli articoli che ne danno conto. E dov’è, in quel centinaio di pagine che lo compongono, che Cognetti dà dei beoni a tutti i valligiani? Ci sono i due fratelli protagonisti che hanno e hanno avuto problemi con l’alcol (come il loro padre, oltre a vissuti a volte difficili e duri), ma che c’entrano con la popolazione reale dell’intera valle? Sono personaggi di un romanzo che, per temi e storia, all’autore serviva che fossero così. «Chi ama la montagna, i territori, le comunità, chi vuole vivere e abitare la montagna, prima di tutto la rispetta, la apprezza, la ama appunto. Tutta la montagna. Non fa distinzioni, non giudica, non racconta quello che non crede, non scrive e non descrive quello che non vorrebbe vedere o sentire. Servono coerenza e serietà nei ragionamenti. Chi ama la montagna, tutta, sta in silenzio di fronte alle incertezze, alle difficoltà, alle solitudini», è scritto in una nota dell’Uncem a commento delle parole – sia nelle interviste rilasciate, sia quelle usate nel libro – di Cognetti. (Piccola parentesi personale: conoscendo almeno uno dei due firmatari di quella nota, spero fortemente che sia un errore dovuto all’enfasi del momento; leggere che si ama un territorio solo se non si racconta ciò che non si vorrebbe vedere o sentire, e si tace difronte alle difficoltà, non mi ha fatto proprio bene, diciamo. E prima di prendermi del “cognettiano” inesperto del vivere in montagna, invito tutti a immaginare che effetto farebbero, le stesse parole, se lette a proposito di altre altitudini, o latitudini, se preferite). In silenzio sulle solitudini, sulle incertezze? Magari zitti, dinanzi alle brutture che pure in territorio di fondovalle ci sono, alle miserie e alle cattiverie che, lì come altrove, incupiscono il vivere degli uomini? È un romanzo, quello che ha scritto Cognetti, non l’opuscolo della pro loco.
Lo stesso Cognetti, il giorno dopo le polemiche, ha provato a rispondere alle accuse, con una lettera aperta sull’edizione piemontese di Repubblica, (di cui riporto qui ampi stralci): «Dopo anni di onorata carriera, in un attimo da migliore amico sono diventato il peggior nemico della montagna. Cos’è successo? Che dopo quattro libri in cui ho raccontato di libertà, amicizia, gentilezza, boschi, torrenti e cieli stellati, ho deciso di chiudere il ciclo sulla montagna raccontandone il volto sporco e cattivo. Ho scelto […] la Valsesia, ma poteva essere qualsiasi altra. Mi serviva un fondovalle buio e rovinato dall’industria, lontano dai bei pascoli e dai rifugi sui ghiacciai, quasi una periferia urbana. […] E volevo raccontare un’umanità altrettanto rovinata, sradicata, persa. Due fratelli che passano le notti al bar. […] Ho usato il noir, con le sue tinte cupe e i suoi cliché (piove sempre), come spesso fanno gli scrittori quando cercano di raccontare il male dell’uomo. Ieri mattina alcuni sindaci della Valsesia – senza aver letto il libro ma solo ascoltandomi in radio – si sono offesi e hanno protestato. Ho insultato la loro valle, dicono. […] In serata però la protesta si è estesa, è entrata in gioco l’Uncem […]. Chiaramente, altra gente che non ha letto il mio libro. […] Raccontare quel che vedo è il mio mestiere. Mi pare che il punto della protesta, che arriva da tutto l’arco alpino e appenninico, sia proprio qui: ma perché ti sei messo a scrivere questa storia? Non potevi startene zitto? Badate che l’alcolismo e l’alienazione economica non sono mica peculiarità della montagna. […] Se scrivo un noir ambientato alla Bovisa, dove ho abitato per tanto tempo, e la definisco una periferia rovinata, credo che nessuno protesterà. […] In montagna invece non devo, queste cose si affrontano tra noi. Se davvero amo la montagna, certe storie me le tengo per me. Se la definisco sporca e piovosa la offendo, perché non torno a cantare le sue meraviglie?».
E ha già detto molto, l’autore, ed è curioso che debba difendersi lui dall’accusa di aver offeso un’intera valle per avervi ambientato lì una storia inventata, e non quanti, amministratori e imprenditori, per anni han fatto sì che quello o altri territori soffrano oggi per quei problemi che, a denunciarli in un romanzo, si rischia di passare per il peggior nemico (se dei territori o degli amministratori e imprenditori, fate voi).
Vorrei solo aggiungere un’impressione condivisa in questi giorni parlando con alcuni amici: sembra quasi che qualsiasi opinione dissenziente rispetto al quadro che, in maggioranza, vogliamo raccontarci rischi sempre un’accusa di tradimento. Se ami la montagna, non la giudichi, taci dinanzi alle difficoltà. Davvero? Se ami un luogo, non parli dei suoi problemi. Siamo sicuri? Guai a criticare il posto in cui vivi, a denunciarne limiti e brutture; è il tuo posto, e devi vederlo e raccontarlo, sempre e comunque, come il migliore dei posti possibili. Silenzio: solo così, lo stato presente delle cose può continuare ad andare avanti, eternarsi così com’è, senza cambiamenti, fermo e sclerotico, immutabile nella ripetizione di sé, nei secoli dei secoli.
Il rischio – e non c’entra col romanzo di Cognetti, o forse sì – è che, non raccontando quello che non si «vorrebbe vedere o sentire», rimanendo «in silenzio di fronte alle incertezze, alle difficoltà, alle solitudini», come vorrebbero si facesse gli autori di quella nota dell’Uncem, si contribuisca di più al perpetuarsi all’infinito soprattutto dei problemi esistenti. Magari ciò potrà perfino rassicurare, chi per abitudine vuol star quieto con quel che ha, pure quando è poco o dannoso, mentre può far male provare a guardare sé stessi e ciò che ci sta intorno con occhi diversi.
«Piange ciò che muta, anche per farsi migliore». E questo no, non è Cognetti.