Abbiamo pensato abbastanza, a quelli che oggi scopriamo distanti?

Ne parlavo con più di un amico nei giorni scorsi: è curioso (per non dire sconfortante in alcuni, non secondari, aspetti) scoprire che i partiti che erano contrari a tutte le misure che hanno permesso, comunque si voglia intendere la gestione della pandemia da Covid-19, un alto numero di vite, siano i più premiati dal consenso popolare. E non si parlava solamente del nostro Paese, ma anche di altri, come l’Inghilterra, dove la gestione è stata a tratti scandalosa, e dove, di questo, non si parla affatto, degli Usa, in cui Trump e i più agguerriti conservatori, visceralmente contro qualsiasi restrizione, persino quella più di buon senso, sono dati in vantaggio alle prossime elezioni di mid-term, o addirittura il Brasile, in cui Bolsonaro che negava l’evidenza, non attuando quelle minime precauzioni che avrebbero potuto determinare un diverso effetto nella conta delle vittime, non è più presidente, certo e finalmente, ma sostanzialmente ha pareggiato, nello scontro elettorale con Lula.

E quindi, mi chiedo: quanti voti sono andati a chi criticava aspramente chiusure e limitazioni, proprio per l’atteggiamento eccessivamente intransigente (e come tale esibito) nell’approvazione – non di rado acritica e indisponibile al dubbio – verso queste stesse misure? Quanti sono stati allontanati o convinti a non avvicinarsi dal tifo per il drone a caccia dei patiti della tintarella, per le forze dell’ordine lanciate all’inseguimento di runner solitari, per gli elicotteri alla ricerca degli impuniti della grigliata sui tetti pasquali, per i controlli stringenti e i controllori strillanti, per i sindaci che si autocelebravano sui social nella denuncia degli indomiti del tressette, per i presidenti di Regione vittime del proprio personaggio che inveivano in monologhi rauchi contro gli habitué della passeggiata un po’ in sovrappeso e in là con gli anni, per ministri e questurini che invocavano, non tanto velatamente, la segnalazione all’autorità costituita da parte dei vicini e dei cittadini per bene verso chi invitava un parente in più a casa o quanti si fossero intrattenuti in più d’uno in strada (il colore, nel racconto, l’ho messo; i fatti, quelli no, non li ho inventati, e nell’internet potete facilmente ritrovarli), e ancora stigmatizzando chi, a nostro parere, non fosse ligio a tutte le misure che gli scienziati proponevano e i governanti recepivano? E tutto ciò, mentre per grosse parti della popolazione, per quelle stesse decisioni assunte, il reddito calava e le difficoltà si acuivano.

Qui, in questo post, non si discute della bontà sanitaria e per il contenimento del contagio delle scelte prese, ma dell’approccio che verso queste si è troppo spesso avuto “da sinistra”. Chiudere le scuole, per esempio, ha danneggiato maggiormente i più deboli; lo abbiamo detto abbastanza, noi che proprio a quei deboli avremmo dovuto guardare? Le meraviglie dello smart working hanno favorito persino la gestione famigliare, per i ceti medi riflessivi; e per tutti gli altri, l’alternativa alla chiusura e al calo delle entrate economiche, in che forme e in quali tempi si è avuta?

Ricordo uno striscione in spagnolo, appeso a un balcone nei primi mesi della pandemia: «La romantización de la cuarentena es un privilegio de clase». Abbiamo riflettuto abbastanza, su tutto quello che queste parole potevano significare, ne abbiamo discusso con gli interessati, abbiamo provato, senza pregiudizi, ad ascoltarli, o abbiamo dato del fiancheggiatore del negazionismo – come pure a chi scrive è capitato d’esser accusato, sebben non è di quel che è accaduto a me che voglia parlare – a chiunque provasse a suggerirci di tentar di far nostro per qualche istante un diverso e altro punto di vista?

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Domande così, per dire

«E che vuo’ fa’? Domani è la vigilia, oggi ci dobbiamo mantenere leggeri, perché poi vengono tutti questi giorni di festa, si deve mangiare assai. Conce’, fai nu poco di brodo vegetale, che tu lo fai così bene, con tutte quelle verdure, la radica gialla, o’ sedan, la cipolla; ché a me m’ piac’. Eh, un poco di brodo vegetale, e c’ min trecento grammi ‘e tubett», dice Luca Cupiello a Concetta. «A me, i tubetti non mi piacciono», s’intromette il figlio Tommasino. «Tu te ne devi andare. Abbiamo deciso che te ne devi andare? Sono tubetti che non ti riguardano», lo zittisce immediatamente il padre.

​Ora, anch’io, me ne sono andato, e quindi, per citare la commedia di Eduardo, quello che accade nel Pd non sono più tubetti che mi riguardino. Detto questo, in linea di massima, mi sembra logica e sensata l’idea di una rifondazione del partito, espressa da autorevoli suoi esponenti di oggi o di ieri e da intellettuali e commentatori, come si dice, d’area. Però, seriamente, mi chiedo come si possa fare quella rifondazione, col gruppo dirigente che c’è ed è, allo stato dei fatti, ineludibile, al di là delle suggestioni naïf di cui si legge sui giornali. 

Non si può avere un partito slegato da chi lo rappresenta, e da ciò che questi rappresentano, nella storia recente e per le scelte fatte e sostenute. Quindi, siccome i dirigenti che ci sono, sono tutti (e quasi solo questi) in Parlamento, da quelli e con quelli si dovrà credibilmente ripartire. E dato sono gli stessi che hanno guidato sino a oggi, la rifondazione col timone, e le risorse e le decisioni istituzionali, saldamente nelle loro mani, la vedo difficile. 

Per esempio, come si riprendono quelli che sono andati via, se i volti e i nomi in rappresentanza del partito sono sempre quelli degli Orfini, Madia, Serracchiani, Orlando, Ascani, Guerini, Lorenzin,  Franceschini…? E come si avvicina chi dovrebbe arrivare, con le stesse persone ad accoglierli, di cui si conoscono, già e bene, pensieri, parole, opere e omissioni?

Domande così, ecco. Per il resto, a me, i tubetti, piacciono più con i legumi, per dire.

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Però siamo furbi, eh

Lo confesso: ho letto il pezzo di cui sto per parlarvi tre volte. E ho dovuto rileggerlo, anche questo mi tocca confessare, per un mio personale pregiudizio. No, non è scritto in modo contorto, difficile, astrusamente articolato. Al contrario, è lineare, preciso, chiaro. A farmi dubitare della prima, della seconda e persino della mia terza lettura, lo ammetto e con ciò manifesto la mia colpevolezza, era il cognome dell’autore, il saperne il padre e le di lui opinioni, in merito ai temi di cui lo stesso articolo trattava. Degli errori si chiede scusa, e della mia prevenzione faccio altrettanto: Mattia Feltri ha scritto ieri il corsivo che avrei mille volte voluto scrivere io. Nel fare ammenda, cito un pezzo del suo Buongiorno, sulla Stampa di Torino.

Parla di Admir Masic, Mattia Feltri, della sua fuga dalla Bosnia in guerra, dell’arrivo in Italia, dell’Università, con lode, superata a Torino. E delle sue vicende dopo la laurea, con una conclusione per lui felice, per noi amara. «Lancia una start-up ma, siccome non è un lavoro dipendente, niente permesso di soggiorno: Admir viene espulso. Lo accolgono in Germania, lì fa ricerca, dopo qualche anno lo vuole tutto il mondo, e lui sceglie il Mit, Boston, l’America. Ora torna a Torino da vincente, e senza rancore: sono bosniaco, ho il cuore italiano, il passaporto tedesco, la testa americana – dice. Avremo anche un gran cuore, come sostiene Admir, ma di cervello poco. Produciamo leggi sceme che applichiamo in modo scemo e così, a proposito di cervelli, i nostri di solito fuggono e quelli degli altri li mettiamo in fuga. Però siamo furbi, eh. Basta immigrati! Prima gli italiani! E resteremo qui noi quattro vecchiarelli rimbambiti».

Perché il tema è quello, pure se nel pezzo di Feltri lo si incrocia nel misurare le eccellenze. Che poi, queste sono tali solo quando così le si scoprono, e non le scopri se prima non hai tutti gli altri da far crescere. Nel frattempo, invece, rincorriamo quella del «blocco navale» o l’altro del «prima i nostri». E se così parlando e agendo seminiamo in giro sofferenze e dolori per alcuni, di certo non miglioriamo in nulla e in niente il nostro stato delle cose, in un Paese che si spopola e s’impoverisce di esseri umani, più che di risorse e danari. E come dice Feltri, «resteremo qui noi quattro vecchiarelli rimbambiti».

Chissà se suo padre l’ha letto.

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Le cose accadute e quelle che potevano essere

«I problemi attuali sono figli dell’allargamento a Est della Ue da lei voluto?», chiede Stefano Cappellini a Romano Prodi, per l’edizione di Repubblica in edicola ieri. La risposta del professore, per niente scontata, mi ha dato da riflettere: «Si immagina se oggi la Polonia si trovasse nella situazione dell’Ucraina? Se l’Ue non avesse voce su ciò che accade in Ungheria?». Giusto, effettivamente: ve lo immaginate?

Ci siamo abituati a una certa narrazione che vuole l’allargamento ad Est dell’Ue un errore. C’è chi lo dice perché l’Europa unita la vede come un problema, a prescindere, e quindi, sempre meglio più piccola che più grande. Ci sono quelli attenti a molti temi, e che quindi vedono in quell’aspetto i problemi dovuti a un compromesso al ribasso sui diritti e i livelli di democrazia reale. L’immancabile complottista, che vuole in ciò solo la Wille zur Macht dei soliti tedeschi, intenzionati ad avere nel giardino di casa manodopera a basso costo e condizioni favorevoli per la loro manifattura. I “complessisti”, pronti a dimostrare come quel passaggio fu spinto dagli inglesi per diluire, indebolendola, l’Unione, per poi, alla fine andarsene loro stessi. Ma Prodi, che c’era e quel processo l’ha visto e in qualche modo guidato dai piani alti di Palazzo Berlaymont, ci fa una domanda diversa: alla luce dei fatti, immaginare che quell’allargamento non si fosse avuto, potrebbe significare che (assunta in quel caso l’Ucraina da tempo nel pieno dominio russo, ché altre sponde difficilmente le si sarebbero offerte), al suo posto potrebbe trovarsi la Polonia, con la guerra sulla sponda orientale dell’Oder. Né, in quell’ottica, sarebbe stato possibile dir nulla (o meglio, non con la forza economica, o semplicemente sanzionatoria, con cui lo si può dire ora) sulle compressioni dei diritti e delle libertà democratiche in quegli Stati, come l’Ungheria e non solo, che ancora scontano le scorie di un passato non proprio liberale.

Ora, non so se sarebbe andata proprio così, come si potrebbe immaginare dagli scenari evocati appena sopra. So però che spesso si dimentica di ricordare la situazione che si viveva nel momento in cui alcune cose sono state decise, né ci si sforza di provare a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se quella decisione fosse stata un’altra o l’opposto. E non si fa un buon servizio alla Storia, dimenticandolo, tantomeno alla cronaca e alla comprensione dei fatti dell’oggi, ignorandolo o, peggio, nascondendolo.

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Quanto tempo ha, l’oggi, per l’arte, la cultura, il libero pensiero?

«Nella folla di quasi centinaia di personaggi che racconto […] dell’epoca fascista, ho scelto sistematicamente di trascurare le figure di intellettuali. […] Perché alla fine credo che, in quegli anni, il ruolo degli intellettuali sia stato poi sopravvalutato in seguito da altri intellettuali. Uno degli aspetti della brutalità fascista è che alla fine gli intellettuali […] tutto sommato contarono poco e niente. E questa potrebbe essere una misura della vivacità dello stato di salute di una democrazia: quando l’indispensabile, ma superfluo, dell’arte, della cultura, del libero pensiero conta poco, lo stato di salute della democrazia è basso». Così Antonio Scurati, intervistato da Maremosso, il magazine della Feltrinelli.

Ho preso M. Gli ultimi giorni dell’Europa solamente ieri sera (e ovviamente non l’ho già letto, ma ho potuto apprezzarne l’attacco, ripreso dalle parole del Bianchi Bandinelli), pertanto non è di quello che voglio parlare. Tuttavia, le parole del suo autore in quel colloquio sono per certi versi il senso di molte cose che, da tempo, nel mio piccolo vado pensando anch’io. In sostanza, la democrazia sta bene quando molto ascolto e attenzione si dà pure alle voci del mondo della cultura, agli, per riassumere in una categoria, “intellettuali”. Viceversa, ignorandoli, stigmatizzandoli o addirittura tacitandoli, ci si incammina verso punti bassi del modo di organizzare gli Stati, fino alla fine di quella stessa idea di democrazia, con tutti i diritti e gli spazi di discussione e confronto connessi. Sembra banale, e in effetti lo è, nelle sue forme estreme, nel bianco e nel nero. Vivendo noi, però, nelle mille sfumature del grigio, è proprio fra quella sterminata gradazione di stati intermedi che dobbiamo cercare di capire il punto in cui ci troviamo. E non dico che sia agevole riuscirci.

Eppure, qualcosa da considerare, a riguardo, ci sarebbe in tutte le epoche, nella nostra come in quelle che l’hanno preceduta e che le seguiranno. Quanto tempo c’è, per ascoltare la voce di chi di prova a parlare di orizzonti più lunghi, di spazi più vasti? Quanto se ne dedica, al pensiero di questi? Quanto a quell’«indispensabile, ma superfluo, dell’arte, della cultura, del libero pensiero», per usare le stesse parole di Scurati, ne riserviamo noi, oggi?

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La tristezza è nel misurare la propria felicità sul dolore altrui

«La maggior parte delle persone non cerca verità che si possono dimostrare. La verità, in molti casi, come ha detto lei, comporta sofferenza. E quasi nessuno vuole soffrire. Quello di cui le persone hanno bisogno è una storia bella e piacevole, che renda la loro esistenza almeno un po’ più significativa. È proprio per questo che nascono le religioni. […] Se una dottrina A fa apparire più significativa l’esistenza di qualcuno, per quel qualcuno diventerà verità. Mentre se una dottrina B lo fa sentire più debole e piccolo, verrà etichettata come una falsità. È molto chiaro. Se qualcuno sosterrà che è la dottrina B a essere vera, probabilmente le persone lo odieranno, oppure lo ignoreranno, e in alcuni casi lo attaccheranno. Che tale dottrina sia logica e dimostrabile, non conta nulla. Le persone proteggono il proprio equilibrio mentale negando e rifiutando tutte le immagini che le raffigurano come creature deboli e insignificanti» (Murakami Haruki, 1Q84, Einaudi, 2021, pp. 559-560).

Certo, l’eco nelle parole dello scrittore giapponese l’avrete già avvertita, ritrovando nella memoria il capitolo sul Grande Inquisitore dell’opera dostoevskiana, nella sconsolata considerazione dell’Uomo folle di Nietzsche sul suo venire troppo in anticipo sui tempi, e forse persino con la parola cristiana sulle perle da non dare ai porci, come insegna il Vangelo di Matteo. E però credo che sia una percezione così diffusa, tra culture, tradizioni e ambienti per altri aspetti estremamente differenti, probabilmente proprio per un suo fondo di universalità. Guardiamo al tempo attuale, alle conoscenze e ai mezzi che scienza e tecnica ci mettono a disposizione, alla considerazione sul fatto compiuto di alcuni cambiamenti nel mondo, all’evidenza di processi da sempre presenti e contro i quali non è solo inutile, quanto addirittura innaturale lottare; qual è la reazione che vediamo spesso opporvisi? Il richiamo a un credo tranquillizzante. Se il mondo accelera e mi coinvolge con tutta la sua immensità, io lo riduco alle mie dimensioni, ne faccio porzioni, disegno una scacchiera in cui so posizionarmi, dove posso indicare o può essermi indicata la postazione che mi dà identità, ruolo, senso. E che non sia vero, che sia un disegno arbitrario, come lo sono i confini, le nazioni istituzionalizzate, i Paesi e gli Stati, non importa: rassicura, e tanto basta a sopravvivere tranquilli.

Sì, sopravvivere, perché vivere è un concetto diverso, e magari nemmeno così interessante per tutti. E guardate che non sto censurando, né criticando o sminuendo quell’atteggiamento; sono millenni che gli uomini sopravvivono, cercando così una loro dimensione di felicità, considerandosi come parte di un gruppo, trovando in quello il significato del proprio stare nel tempo e nello spazio. Però, nel cercare l’uomo, come il Diogene che quel folle della Gaia scienza ha per modello, non posso non immaginare che la vera natura di questo sia nel considerarsi potenzialmente felice solo se possono esserlo anche gli altri, solo se a tutti si dà il modo, l’occasione, pure solamente la libertà di tentare di vivere come, dove e nella maniera in cui più gli aggradi, lasciando contemporaneamente ai prossimi e ai lontani l’agio di fare altrettanto.

Viceversa, non riesco a non provare tristezza per quelle identità che sanno darsi sostanza e misura solamente nel contrasto con altre, che non possono o riescono ad ammettere alcuna altra via da percorrere per ricercare la felicità che non passi attraverso il dolore di qualcuno, la privazione del prossimo, perché non può darsi quella particolare felicità se non nella logica della supremazia, del trionfo. Ancor più ne sento quando quella stessa logica è applicata alla dimensione del gruppo, che su di altri o contro di questi vuol esser sovrano, sospinto da tutti i suoi appartenenti, quanto ad evidente e solo vantaggi di alcuni suoi membri, in genere quelli che più urlano ponendosene a guida.

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Se non han fatto sacrifici, è perché le vostre generazioni precedenti erano agiate

Ci sono molte immagini e ricordi che hanno, negli anni, contribuito a formare la mia complessiva considerazione dello stato del mondo e di quanti mi hanno preceduto. Riferendomi alle genti da cui discendo e son nato, alcune di quelle immagini sono decisamente personali, e non ho voglia (né aggiungerebbe qualcosa agli intenti di questo articolo) di riportarle qua adesso. Altre, invece, sono decisamente più note, e pertanto più funzionali ai propositi comunicativi.

Fra queste, c’è una foto di Franco Pinna, scattata negli anni Cinquanta, che ritrae una famiglia contadina lucana nell’interno della loro casa. Quasi nulli gli arredi, logori i vestiti, un uomo con in braccio una bambina durante il pasto (quasi sicuramente) serale, altri due piccoli di lato, uno concentrato a scaldarsi al tepore di un braciere. È ripresa anche sulla copertina dell’edizione Laterza del 2000 dell’Uva puttanella di Rocco Scotellaro, e ne parlo qui perché mi torna spesso in mente, quando sento discorsi del tipo «stiamo messi male oggi, perché le generazioni precedenti non hanno fatto sacrifici e hanno sperperato ricchezza e benessere». Ecco, in quei casi, penso alle mie, di generazioni precedenti. E ne deduco che, quelli che così parlano e se di ciò sono certi e convinti, e perché le loro, di generazioni precedenti, erano già agiate, potevano, per citarli, permettersi di sperperare una ricchezza e un benessere che, evidentemente, avevano. Le mie, quelle di quella foto, al contrario, da sperperare avevano ben poco, e di sacrifici, beh, giudicate voi dalle parole che riporto di seguito, scritte da Domenico Rea in un articolo sul Corriere della Sera del 2 marzo 1957, ricordando una sua precedente visita a Matera nel ’52.

«Stavo appunto visitando una misera stanza dove vivevano in dodici persone quando fui afferrato da una vecchia che disse: “La casa della comare è una reggia in confronto alla mia. Di che si lamenta? Ha dieci figli, dieci lupi che la proteggono. Venite a vedere la mia”. Dovetti seguirla e giunto alla sua casa mi fece entrare in una grotta a forma di parallelepipedo, che il tetto non si scorgeva e finiva in un buio indefinito. Poteva essere lunga tre metri, larga, forse, due, alta, dico a caso, per darvi un’idea, trenta metri. C’era dentro la figlia, seduta. Un bambino come un verme le stava ai piedi. Un altro, in grembo. Quello ai suoi piedi aveva un gestire e i lenti movimenti di un bruco ancora spoglio, come i vermicini che escono dai frutti marci. L’altro giocava con la mammella avvizzita della madre. E quella donna aveva vent’anni, non quaranta come io avevo stimato dalla prima occhiata. Aveva la faccia di una castagna secca e le due orecchie erano due bucce pendule. Guardava incantata me e la madre». 

Ora, fermatevi, leggetele di nuovo, e raccontatemi ancora di benessere sprecato e assenza di sacrificio. Pensate che le generazioni precedenti alla mia erano quei bambini, e le loro madri e padri. Erano i figli degli emigranti in Svizzera, nascosti in casa senza poter mai uscire e costretti al silenzio, o separati per mesi dai genitori, perché le autorità elvetiche non volevano i bambini dei lavoratori italiani per non dover un giorno fare i conti con eventuali richieste di cittadinanza. Erano i bimbi calabresi, siciliani o napoletani che vedevano il disprezzo negli occhi dei genitori dei loro coetanei e persino in quelli dei loro insegnanti, mentre con le loro famiglie condividevano spazi bui e umidi di scantinati e soffitte nelle metropoli del nord Italia che si aprivano alla modernità. Erano quelli che andavano a far la spesa con il libretto dei debiti, che non avevano il bagno in casa e l’acqua corrente, figuriamoci quella calda, che portavano vestiti sempre troppo leggeri, scarpe mai adeguate, che mangiavano poco e ogni volta lo stesso pane e quasi nulla più, e che sento vivere ancora nei ricordi dei miei genitori e dei loro amici.

Ricchezza e benessere sprecati, assenza di sacrificio; certo, come no.

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Le ragioni dell’economia e l’ipocrisia sulla guerra

L’idea per cui riempire di armi un conflitto già troppo armato fosse l’unico e il necessario modo per far finire meglio e presto un conflitto già troppo armato, non mi ha mai trovato tra i suoi strenui sostenitori, parlando per eufemismi. Tanto premesso, le sanzioni contro l’aggressore, nel caso della guerra russo-ucraina oggi e in tutti gli altri, di ieri e di domani, invece le ritengo giuste e opportune, quand’anche il minimo di civiltà che si possa esprimere nelle relazioni internazionali.

Ovviamente, quelle sanzioni hanno delle conseguenze. Si sapeva ciò fin dall’inizio. Insomma, in un sistema in cui un battito d’ali di un subprime in Oklahoma genera una tempesta finanziaria alla Borsa di Tokyo, quelle misure di limitazione di accesso ai mercati, soprattutto se applicate a uno dei maggiori produttori di materie prime, avrebbero di sicuro avuto ricadute negative sull’intero assetto economico mondiale. Compreso, va da sé, quello dei sanzionatori. E inoltre, se quello stesso Paese è tra i primi estrattori e venditori di gas, era ovvio fin dall’inizio che con quel gas, e nel momento in cui più servisse, avrebbe minacciato quanti si opponevano a quella che loro chiamano «operazione militare speciale» (ci sarebbe poi anche da considerare il fatto che gli acquirenti sono interessati a comprare del gas, da un produttore o da un altro, i venditori a dare quel gas, il solo che possiedono). Nonostante ciò, non vedo altre strade alle sanzioni economiche contro la Russia, se davvero si vuol condannare e provare a contrastare la guerra d’invasione che, a freddo, il suo governo ha pianificato e messo in atto.

Adesso, però, è curioso sentire dalle voci di quanti davano del «putinista» a tutti quelli che, per ragioni umane e umanitarie, chiedevano la fine delle ostilità anche contemplando una parziale resa degli ucraini, pur di salvare le vite che inevitabilmente l’allungarsi del conflitto avrebbe comportato, chiedere la stessa cosa, ma solo per scongiurare gli aumenti nella propria bolletta. A legger le loro parole, sembrerebbe di capire che darebbero ora, quelli che gonfiavano il petto nelle lodi al coraggio resistenziale di quel popolo, non solo mano libera a Putin in Ucraina, ma pure da altre parti, se solo questi promettesse un cospicuo sconto per il metano alla spina.  

Personalmente, davo per scontato che quelle restrizioni non sarebbero state senza conseguenze pure per chi le imponeva, ma se erano e sono giuste, come io pensavo allora e ancora credo, andavano imposte e vanno mantenute. Qualsiasi azione, in guerra, ha conseguenze per tutti, e la solidarietà verso un popolo attaccato non poteva darsi senza costi per i solidali. Tutto ciò lo penso dall’inizio; altrimenti, è solo lacrima d’un attimo per i dolori dell’altro, senza far nulla che possa minimamente intaccare i livelli di confort a cui siamo abituati.

Ed è però da ricercarsi nell’ipocrisia di chi voleva ieri la resistenza estrema del popolo attaccato e si diceva disponibile a tutto il necessario, pur di sostenerla e vederla trionfare, e adesso eccepisce per mere ragioni economiche, il motivo profondo per cui, quando sento vibrare nelle corde del discorso pubblico e collettivo i toni della retorica delle patrie, degli eroismi, delle bandiere e delle nazioni, sempre dubito e mai sono convinto.

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Al tempo delle preferenze

Quanti saranno, il prossimo 25 settembre, quelli che non si recheranno alle urne? Da ormai troppo tempo, quella percentuale sale e non accenna a diminuire. Sembra un dato consolidato, un po’ in tutte le democrazie occidentali, ma in nessuna di questa, però, pare esserci la volontà di affrontarlo, o almeno di riconoscerlo seriamente quale problema. L’Italia, in questo, non fa eccezioni, anche se qui l’incremento di quel fenomeno ha sviluppi decisamente più veloci che da altre parti (pure perché, va detto, si partiva da livelli di partecipazione decisamente alti).

Certo, a votare ci andrò, e voterò per la coalizione di centro sinistra. La questione di cui voglio parlare in questo post non è questa, ovviamente. Però, pur notando che la disaffezione coglie anche livelli di elezione differenti, dove esistono sistemi di individuazione diretta dei candidati e rapporti stretti fra questi e i territori, non si può, ad esempio, pensare che l’inserimento delle preferenze per le liste plurinominali, forse, avrebbe invogliato qualcuno di più ad andare ai seggi. Supponiamo, infatti, che io stimi tantissimo un candidato posizionato in seconda o quarta posizione in quella che, oggi, è una lista bloccata; potendo sceglierlo direttamente dall’elenco, probabilmente avrei avuto una ragione in più per votare. Così non è. E non è così, parrebbe di capire, perché quelli che c’erano in Parlamento, e che quindi erano chiamati a scegliere il sistema di voto, non hanno voluto che così fosse. E il fatto che, in maggioranza, questi siano gli stessi che adesso si ritrovano nei posti alti di quelle medesime liste, non fa che portare argomenti al ragionamento di quanti spiegano (pure) con quel sistema il loro disinteresse alla contesa elettorale.

Sic stantibus rebus, all’ultimo degli elettori potrebbe sembrare che, esprimendo il proprio consenso, più che individuare e preferire il deputato o il senatore a lui, al suo territorio, persino alle sue istanze di parte, più vicino, voti per quelli più influenti nelle rispettive segreterie di partito. In sostanza, sempre a quell’ipotetico cittadino, più che per eleggere i propri rappresentanti, potrebbe apparire di recarsi al voto per promuovere una serie di funzionari di partito, a cui offrire l’occasione per un impiego decisamente importante (e retribuito al pari di quell’importanza, com’è giusto che sia, lasciando al populismo la polemica sul soldo).

E si potrebbe chiedere, tra sé il nostro campione, se mai quel suo così preferito politico perderà mai un momento del prezioso suo tempo a ringraziare. Almeno, rischia di giungere quel ragionamento, un tempo c’era quella buona creanza che una demagogia funzionale ai nuovi assetti del potere ha poi preso a chiamare “clientelismo”.

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Se l’operaio vota a destra

Di recente, ho ritrovato la questione in un bell’articolo dell’ottimo Paolo Griseri (La Stampa, venerdì 26 agosto 2022). Una faccenda, dicevo, non nuova, come nello stesso pezzo citato veniva ricordato: quella, intendo, di una classe operaia spostata a destra, che nelle elezioni scopre una predilezione per la Lega di Salvini, prima, e prim’ancora per quella di Bossi, o per la Meloni, oggi. Che poi è quello che è successo nel Nord-Est inglese, con i collegi storicamente Labour passati a Johnson, o nella Rust Belt statunitense, scopertasi trumpiana.

La spiegazione del fenomeno sottesa in molte analisi sui fatti come quelli sopra riportati, però, non mi convince del tutto: in sostanza, la tesi di quelle è che l’operaio guardi a destra perché la sinistra lo ha abbandonato. Sarebbe semplice chiedere cosa, per quell’operaio, ha fatto la destra per meritarsi le sue attenzioni, ma non lo farò. Quello che qui cerco di domandarmi è se, in fondo, quegli atteggiamenti (che io non so quanto numerosi, ovviamente), non siano l’espressione di un conservatorismo di base, dell’idea, cioè, che votando di là si proteggano meglio i propri averi, sottoposti all’assalto della mondializzazione e dell’arrivo di competitori potenzialmente più aggressivi, perché praticamente più poveri e disperati. In quello scenario, l’immagine di una destra che chiude i confini e difende la nazione-mamma e tutti i suoi figli (di sangue?), unica via per la garanzia di benessere per il ceto medio, ha ampi spazi di azione. Certo, si potrebbe accettare la critica a una sinistra lontana, non tanto nei fatti concreti, quanto nella mancanza di capacità di spiegare che la difesa di quel benessere la organizzi meglio facendo classe con gli ultimi, non in contrapposizione a loro, ma non è questo il ragionamento delle analisi a cui mi riferivo. Lì, la colpa data alla sinistra è quella di guardare a temi differenti e interessi diversi (migranti, nuove economie, diritti civili), che non esclusivamente ai salari e alle pensioni dei “nostri”, inteso proprio come quelli del nostro stesso colore e accento. Se è così, e se quella risposta elettorale è realmente come la si immagina, dare le colpe alla sinistra è facile, ma non è corretto e non spiega tutto.

Pur con tutti i limiti di questa parte politica, infatti, rimane inevasa la domanda principale: perché si vota la destra, leghista, trumpiana o post-fascista che sia? Essere delusi da Tizio, significa non votare più per lui; ma se si vota per Caio, allora è anche il messaggio di Caio che si condivide. In sintesi, vogliono il blocco navale contro i migranti, quei potenziali elettori nelle fabbriche? Hanno sogni di autarchia, fra le presse e le verniciature? Pensano, davvero, che se non vanno più in pensione a poco più di cinquant’anni è tutta colpa della Cina, dei finanzieri amici delle Ong, del grande complotto per il great replacement e del sempre presente e oscuro sodalizio demo-pluto-giudaico-massonico?

Sì, lo so, troppo sarcasmo; ma rimane il fatto che temo di sapere il perché di quei voti.

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