Mi è capitata sotto gli occhi, nei giorni scorsi, la sintesi delle dichiarazioni rilasciate dal ministro Valditara sui programmi del Governo per la scuola. C’è un po’ di tutto: dall’inserimento del latino facoltativo alle medie all’approfondimento della storia italiana, dalla epica classica a quella nordica, dalla lettura della Bibbia (nell’ottica dell’approfondimento delle mitologie, immagino) all’apprendimento delle poesie a memoria. Parlerò poi delle idee ministeriali, prima mi permetto una divagazione, a proposito di poesia.
Curiosamente, quando ho letto quell’articolo stavo pensando al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ora, non è che io pensi al Leopardi spesso, lo ammetto, e probabilmente quella suggestione mi era stata inconsciamente suscitata da un rimando social alla nuova miniserie Rai sul recanatese. Fatto sta che la coincidenza l’ho trovata interessante. Immagino che gli attuali governanti ascriverebbero i Canti alla storia patriottica, però dubito che l’autore lo fosse, nel loro stesso senso almeno; egli era intento a capire il singolo e i suoi sentimenti, non a santificare i popoli con le annesse storie e tradizioni. Certo, All’Italia, d’accordo: parliamo pur sempre di un componimento dei suoi vent’anni, scritto a poca distanza dal Congresso di Vienna e reso famoso più per l’impegno dei suoi lettori liberali che per quel che diceva, tralasciando il fatto che anche lì si possono leggere, nella situazione della patria, altri temi che il poeta spesso userà per descrivere la vita dei singoli, dalla felicità delle origini contrapposta alle difficoltà del presente (l’età fiorita del garzoncello scherzoso che è solo il sabato che annuncia la festa d’un giorno soltanto), fino alla storia che quasi agisce coi popoli come la natura sugli uomini, non rendendo quel che promette.
Il Canto notturno, nella specificità del dolore e della sofferenza a cui la vita espone, porta a compimento la dimensione «cosmica» della sua visione sulle sorti degli uomini, di tutti gli uomini, e lo fa partendo proprio dalla loro individualità, singolarmente considerata. È quel pastore che gli interessa, e da quella singolarità trae indicazioni generali. Non una storia di popoli, quindi, ma il destino dei singoli, di tutti i singoli, come tale condiviso e, appunto, universale.
L’aspetto su cui riflettevo era però un altro. Per dar senso a quella universalità di sentimenti, Leopardi sceglie il suo protagonista trovandolo in un pastore nomade, presumibilmente incolto, duro, al limite primitivo, comunque lontano anni luce da ciò che era il poeta. Il dolore del vivere cantato lì smette di essere appannaggio degli uomini istruiti e formatisi nella modernità, ma si scopre arcaico e familiare all’insieme dei viventi.
Tutto questo si regge su un assunto che il poeta, nel testo, non dimostra: davvero un pecoraio lontano dagli stessi suoi studi può ritenere «funesto a chi nasce il dì natale»? Non è forse questa una riflessione solo sua e di quelli come lui, gente che «ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo», per dirla con Guccini, lontana dal sentire di quanti hanno a che fare con le cose pratiche di ogni giorno? E allora mi sono ricordato di altro.
Ernesto De Martino, in una sua trasmissione radiofonica del 1953, raccontava una parte di quello che aveva conosciuto nella sua «spedizione», la definiva proprio in questo modo, in Lucania di qualche tempo prima e poneva l’accento su un tema chiave in molti racconti, nenie, ninne nanne: quello della nascita sventurata, della venuta al mondo di quanti sono scritti nel libro degli spersi (ora si trova raccolta, con altre, nel volume Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, curato da Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi, ed. Bollati Boringhieri, 2002).
Raccontava l’antropologo partenopeo (op. cit., pp. 91-92): «Fu un bracciante di Irsina, che per la prima volta ci cantò la nascita dell’uomo come nodo di assurdità e come maligna inversione della norma:
Quando io nacqui
Mia madre non c’era
Era andata a lavare le fasce
La culla che mi doveva cullare
Era di ferro e non si dondolava
Il prete che doveva battezzarmi
Sapeva leggere e non sapeva scrivere
Avemmo occasione una volta di incontrare a Savoia di Lucania una quasi centenaria, Caterina Guglia. Essa non ricordava esattamente l’anno della sua nascita, ma solo di essere nata l’anno del terremoto; ricordava però, con pronta memoria, i versi della nascita come catastrofe:
Quando io nacqui
Mia madre morì
Morì mio padre il giorno dopo
E anche la levatrice morì
Mi andai a battezzare
Nessuno attorno
[…] Altre volte, il tema della nascita sventurata si accende di immagini che parlano di una vera catastrofe cosmica che accompagna la nascita:
Quando io nacqui
Il mare più profondo si asciugò
E per quell’anno
Non ci fu al mondo primavera
Quando io nacqui
Si oscurarono le stelle
E il sole cessò di risplendere
oppure:
Le fasce in cui fui infasciato
Erano tessute di melanconia
e infine il disperato lamento che spiega la profonda motivazione esistenziale di tutta questa tematica della nascita sventurata:
Sto a questo mondo come non ci stessi
Mi hanno messo nel libro degli spersi».
Questi canti raccoglieva agli inizi degli anni Cinquanta De Martino, e almeno una dei suoi testimoni aveva quasi cent’anni, cioè era nata una ventina d’anni dopo che Leopardi aveva scritto il Canto notturno; l’assonanza suggerisce che l’assunto del letterato poggiasse sui fondamenti solidi del pensiero del filosofo ch’egli stesso era andava elaborando.
Ah già, dovevo parlare di Valditara; vabbè, col poeta dei Canti: «il tempo manca».