Una piazza contraddittoria; ma è davvero un male?

La piazza di sabato, o meglio le piazze, visto che le manifestazione per l’Europa si sono tenute in molte località, sono state tante tante cose. Diverse, sicuramente in sé stesse. Opposte, nella visione dei critici. Di certo contraddittorie, nella loro precisa impostazione. Ma è poi davvero un male, questa loro apparente e manifesta incoerenza interna?

Insomma, se quelle manifestazioni le avessimo analizzate secondo le categorie che usavamo fino a qualche decennio fa, almeno nella loro genesi le avremmo definite iniziative della “società civile”. Ne abbiamo viste altre, negli anni passati, con ambizioni più o meno elevate di quella presente, comunque con incongruenze accentuate o solo accennate, presenti in ogni caso. Dopotutto, per quanto civile, è pur sempre una società quella che li immagina. Manca una piattaforma condivisa fin nei particolari? Sì. C’è confusione fra le strategie per arrivare all’obiettivo comune? Forse. Però, quest’ultimo è definito – la richiesta di un rafforzamento dell’Unione Europea, in chiave federalista, fino all’idea degli Stati Uniti d’Europa –, al di là delle differenti strategie e delle piattaforme politiche. Ingenua, magari, e sostenuta da un discorso non sempre coerente, nelle componenti che lo animano; «Ma chi, chi ha mai detto che una spinta nuova può nascere già tutta compiuta, quasi in bella copia? […] solo i pedanti possono stupirsi se ci sono tutt’ora delle lacune, delle improvvisazioni, delle sgrammaticature» (Pietro Ingrao, 4 marzo 1983, XVI congresso del Pci).

Civile o meno che la si voglia, una società ha poi in sé una diversità di posizioni e idee su come raggiungere gli obiettivi finali, persino quando questi sono identificati all’interno di un orizzonte di consenso condiviso. Pur cercando di star qui lontani dalla dicotomia “Gemeinschaft vs Gesellschaft”, va detto che un programma politico più concreto e coerente lo si trova in una comunità politica, ma che non è e non era questo quella che è scesa in piazza sabato.

Era ed è una società, con tutte le contraddizioni che in essa ci possono essere. Per questo facilmente attaccabile dai detrattori e in ciò probabilmente più debole nel veicolare il messaggio, laddove una comune voce unisona e un tetragono impianto ideologico comune nelle parole di tutti i partecipanti fin nel minimo dettaglio avrebbe ottenuto risultati più immediati e d’impatto. «Ma è male fermarsi, difficile contentarsi di un solo modo di vedere, privarsi della contraddizione, che è forse la più sottile delle forze dello spirito» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, 2000, p. 258).

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Per non cedere alla “sindrome di Fermor”

Oscar Wilde traccia un personaggio particolarissimo, nel suo Dorian Gray, in appena un paio di pagine. Si tratta di Lord George Fermor, zio del ben più presente Lord Henry Wotton, del quale accenna, curiosamente, anche alle sue idee politiche. Di queste scrive: «In politics he was a Tory, except when the Tories were in office, during which period he roundly abused them for being a pack of Radical» (O. Wilde, The picture of Dorian Gray, chapter 3).

Categoria nota, quella dei “Fermor”, ma più che ai conservatori, spesso applicabile a riformisti e progressisti. Ora però il tema che si pone è di natura diversa. Per le sfide politiche che si hanno davanti, e per gli uomini e le idee con cui tocca confrontarsi, in non pochi hanno parlato di ritorno del fascismo quale avversario. Bene: allora serve un CLN. E una cosa così, la costruisci senza fare l’analisi del sangue a tutti i possibili alleati, per cercare (e facilmente trovare) motivi di esclusione reciproca. In questo modo, quelli vincono. E se diciamo che sono fascisti, non possiamo andare in contro a questa eventualità come se nulla fosse.

Anche perché, di cosiddetti scheletri nell’armadio ne hanno tutti: chi ha votato il jobs act, quelli che han sostenuto i “decreti sicurezza”, quanti fino a ieri proprio da quella parte da cui giunge il pericolo più nero guardavano con interesse e intenzione. Il punto è che cosa facciamo oggi per il domani. Ed è un punto non evitabile attraverso formule di rito, discussioni infinite, puntualizzazione delle innumerevoli differenze e diversità.

Salvo scoprire poi che è troppo tardi per evitare il peggio.

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Donna


Sei attesa e tempesta,
silenzio che sa farsi voce.

Ti vogliono forte, ma non troppo,
libera, ma dentro confini invisibili.

Madre, figlia, sorella, compagna;
il tuo nome non è tra ruoli imposti.

Porti il peso di sguardi antichi,
eppure continui a camminare.

Ogni passo è un seme
che rompe l’asfalto.

Non chiedi il permesso,
sei già il domani.


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E dopo, cosa c’è?

«I know the history intimately — and have spent more time than probably anyone in this room with people who survived the Holocaust. Here’s what I’ve learned – the root that tears apart your house’s foundation begins as a seed – a seed of distrust and hate and blame. The seed that grew into a dictatorship in Europe a lifetime ago didn’t arrive overnight. It started with everyday Germans mad about inflation and looking for someone to blame. I’m watching with a foreboding dread what is happening in our country right now. A president who watches a plane go down in the Potomac – and suggests — without facts or findings — that a diversity hire is responsible for the crash. Or the Missouri Attorney General who just sued Starbucks – arguing that consumers pay higher prices for their coffee because the baristas are too “female” and “nonwhite.” The authoritarian playbook is laid bare here: They point to a group of people who don’t look like you and tell you to blame them for your problems. I just have one question: What comes next? After we’ve discriminated against, deported or disparaged all the immigrants and the gay and lesbian and transgender people, the developmentally disabled, the women and the minorities – once we’ve ostracized our neighbors and betrayed our friends – After that, when the problems we started with are still there staring us in the face – what comes next. All the atrocities of human history lurk in the answer to that question. And if we don’t want to repeat history – then for God’s sake in this moment we better be strong enough to learn from it».

Così il Governatore dell’Illinois Jay Robert Pritzker, nato in una famiglia ebrea, pertanto, come ricorda, avvezzo alla memoria degli anni più bui della storia d’Europa, pochi giorni fa nel suo discorso d’indirizzo e sulla situazione dello Stato che guida. Cosa c’è, dopo? Dopo che avremo incolpato tutte le minoranze per i problemi che quotidianamente viviamo, e anche per quelli che immaginiamo? Dopo che li avremo discriminati ed emarginati, e i problemi denunciati saranno ancora tutti lì, cosa accadrà? Cosa faremo? «Tutte le atrocità della storia umana si nascondono nella risposta a questa domanda. E se non vogliamo ripetere la storia, allora per l’amor di Dio in questo momento è meglio essere abbastanza forti da imparare da essa». Lo siamo, lo saremo?

Gli echi della storia di cui parla Pritzker si sentono minacciosi, e la cosa non può far stare sereni. E sinceramente, i molti potrebbero non essere abbastanza forti per ciò a cui egli chiama, o semplicemente non sentirne l’esigenza. Soprattutto, si vedono al governo degli Stati soggetti politici e persone poco avvezzi alla riflessione in tal senso, per nulla inclini a sostenere il peso di quella necessità storica che chiama all’attenzione, alla vigilanza. Tutti gli altri, fossero anche i pochi, sono però chiamati al ruolo a cui il Governatore pensava.

Con le parole di Nicola Chiaromonte: «è ai pochi, capaci di riflessione, in fin dei conti, che è affidato non già il potere, ma la responsabilità dell’esistenza civile».

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Il rischio del nazionalismo

Scriveva Simone Weil, in un articolo apparso su L’École émancipée il 5 febbraio del 1933: «il partito comunista tedesco è giunto a mettersi al rimorchio del movimento hitleriano sul terreno della propaganda nazionalista. Esso ha accordato ampio spazio, e talvolta, particolarmente in periodo elettorale, il primo posto, alle rivendicazioni nazionaliste, alla lotta contro il sistema di Versailles, alla parola d’ordine “liberazione nazionale”. In occasione delle elezioni del 31 luglio, ha accusato i social-democratici di tradimento, non solo verso la classe operaia, ma verso il paese (Landesverräter). Di più, ha pubblicato come opuscolo di propaganda, e senza commento, la raccolta di lettere in cui l’ufficiale Scheringer spiega di aver abbandonato il nazionalsocialismo per il comunismo, perché il comunismo, grazie alle prospettive di alleanza militare con la Russia che comporta, è più adatto a servire gli interessi nazionali della Germania […]. Che pensare di un partito rivoluzionario il cui Comitato Centrale ha detto in un appello lanciato in vista delle elezioni del 6 novembre: “Le catene di Versailles gravano sempre più pesantemente sugli operai tedeschi”? Sono dunque le catene di Versailles che il proletariato tedesco dovrebbe spezzare e non quelle del capitalismo? Il Comitato Centrale può poi anche aggiungere che solo una Germania socialista è in grado di spezzare le catene di Versailles, nondimeno la sua formula rappresenta un prezioso aiuto per i demagoghi hitleriani, i quali cercano innanzitutto di persuadere gli operai che la loro miseria è dovuta al trattato di Versailles, e non al fatto che tutta la produzione è subordinata al profitto capitalista. In generale, la borghesia di ogni paese si sforza sempre, nei momenti di crisi, di volgere il malcontento delle masse operaie e contadine contro i paesi stranieri, evitando così di doverne rispondere essa stessa. In Germania, il partito comunista si è associato pubblicamente a questa manovra a dispetto della grande sentenza di Liebknecht: “Il nemico principale è in casa nostra”». (L’articolo fa parte di una serie di dieci in cui la filosofa e attivista descriveva la situazione politica in Germania alla vigilia della piena presa di poteri da parte di Hitler, ripubblicati come unico saggio all’interno nelle opere complete dell’autrice dall’editore Gallimard nel 1988 – t. II, vol. 1, pp.141-191 –, qui da S. Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, 1990, pp. 113-115).

Leggere quelle parole e provare a sostituire Bruxelles con Versailles, rischia di chiudere lo stomaco per il parallelo che si disegna quasi in automatico fra tutto quello di cui la Weil fu testimone nel suo soggiorno berlinese e gli anni che, immediatamente dopo, spinsero l’Europa nell’abisso più nero in cui poter cadere. I paragoni immediati tra il passato e il presente hanno sempre il vizio della superficialità, ma dobbiamo tuttavia porci la domanda più difficile: è tanto diverso quel che accadde da quanto vediamo? Non è forse anche nelle dichiarazioni dell’attualità che si sente, pure da sinistra, l’attribuzione di colpe oltre confine (o alle minoranze escluse dalla cittadinanza; e qui, il paragone col tempo in cui scriveva la pensatrice francese, fa ancor più rabbrividire) per situazioni interne che han responsabili ben più vicini? Non cade ancora oggi in quel tranello, chi parte per difendere gli interessi degli sfruttati dal sistema e finisce per consegnarli alla versione più comoda per le classi dominanti?

Sembrano parole del secolo che fu, lo so; ma ne sento altre arrivare dalle stesse pagine che credevamo definitivamente consegnate alla storia, e mi chiedo se non si debbano ripercorrere le analisi più lucide e attente, come quelle della Weil, appunto, per evitare di ripercorrere atrocemente gli stessi passi. Sui quali si inizia a camminare nuovamente, non appena al conflitto tra interessi di parti distinte in una società si sovrascrive quello fra queste immaginate coincidenti nell’unico alveo della “nazione” e altre, con le stesse dinamiche e contrasti interni, ma situate al di fuori di questa e, per ciò stesso, concorrenti e avverse, nemiche.

Ancor più visti gli scenari elettorali e post che davanti ci si parano.

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C’era una volta una scuola…

Avevo accennato in un post precedente alle parole del ministro Valditara sui programmi governativi per la riforma della scuola (l’ennesima). E come sempre, in quelle uscite c’è un po’ di tutto. A balzare all’onore delle cronache sono state alcune idee: il latino facoltativamente inseribile fin dalle medie, le poesie a memoria, la Bibbia e l’epica, sia classica che nordica (credo che pensino più a Tolkien che a Snorri, ma questa è forse una mia malignità; probabilmente hanno in mente Harry Potter e Atreju).

Nemmeno questa volta voglio entrare nel merito delle singole proposte (anche perché, finché non c’è un testo di legge vero e proprio, non si capisce di cosa si stia parlando). M’interessa, quello sì, il tono della questione. Nei fatti, nelle dichiarazioni del ministro, si legge in controluce quello che spesso si ritrova nelle uscite di tanti che han finito le scuole da tanto: «un tempo sì che la scuola insegnava qualcosa, non come ora…», eccetera, eccetera, a seconda delle personali inclinazioni. La scuola di allora; un mito. E come tale, una favola, appunto. Un terzo degli italiani adulti, ci dice l’Ocse, rientra nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”; sono sì capaci di leggere e scrivere, ma con difficoltà, in molti casi gravissime, nel comprendere o utilizzare le informazioni che leggono, capiscono frasi brevi o testi semplici, ma si perdono davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Tutti loro, a scuola ci sono andati venti, trenta o quarant’anni fa: a quella “scuola di una volta” di cui raccontano mirabilia, precisamente.

Potremmo aggiungere altri dati, a corredo di questo, ricordando come i due terzi degli adulti italiani non prendano in mano nemmeno un libro all’anno, e di questi, la stragrande maggioranza è concentrata nelle fasce di età dai trent’anni in su, o di quanto alta sia stata e sia nelle loro mani la, se non altro per questioni anagrafiche e numeriche, la responsabilità dell’aver dato al Paese la peggiore classe politica della storia repubblicana.

Eppure, agli italiani medi, piacciono le affermazioni di Valditara e di quelli come lui; perché? Beh, un’idea credo di essermela fatta: perché siamo un popolo vecchio, che nella nostra nostalgia delle cose d’un tempo riversiamo il dolore per l’ormai andata giovinezza (sì, il termine è quello giusto) e nascondiamo la paura per il mondo che è e che sarà. Non c’entrano le poesie da ricordare (provate a chiederne una che non sia il San Martino del Carducci, agli apologeti della memoria) o il latino da imparare fin dall’infanzia (“ad” più l’accusativo, regge il complemento di moto a luogo? Ad rivum eundem…), c’entra lo smarrimento che proviamo al cospetto del futuro che ci si disegna davanti.

Proprio sul latino, due interventi mi hanno colpito, a seguito delle parole di Valditara. Il primo, ammetto, più per l’ironia insita nelle sue parole e – spero – non colta dallo stesso autore. Per rispondere alle perplessità di chi vede nella lingua di Cicerone un idioma non più annoverabile tra le cose dei vivi, Andrea Balbo, il latinista coinvolto proprio dal ministro nella sua idea di riportarne lo studio alle medie, ha professoralmente asserito: «io non direi che è morta, è silente. È possibile riscontrarla anche nel nostro quotidiano: a Torino, ad esempio, sono presenti numerose lapidi». Le lapidi, che stanno appunto a ricordare ai vivi quel che è stato e non è più.

La seconda, di Paola Mastrocola – incidentalmente: sia l’uno che l’altra immaginano un percorso di insegnamento del latino pure per i migranti. Magari, aggiungo io con una dose di perfidia non insuperabile dai tempi che viviamo, per subordinarne all’apprendimento l’acquisizione della piena cittadinanza, in quella corsa a ostacoli con penalità che tutte le volte complichiamo per l’accesso degli altri ai quei diritti che invece, per noi, diamo per insindacabilmente acquisiti. La scrittrice torinese, all’intervistatore che provocatoriamente le chiede a cosa serva tradurre Catullo nell’epoca di ChatGPT, risponde: «Tradurli rappresenterà ancora il nostro antidoto, un’incredibile palestra per la mente, proprio perché ce la dovremo vedere col digitale».

Eccolo lì, il noi contro loro, con i nostri alleati in opposizione alle loro armi: carme versus algoritmo, il passato nel suo elemento più simbolicamente umano, la lingua usata, per resistere al nuovo che si vuole alieno e ostile solo perché differente da ciò che già si conosce, la sfida che non c’è (pur sempre di linguaggi parliamo, poetici o di programmazione), ma si narra sempre fatale e si desidererebbe portare sul terreno e nelle regole note per poterla vincere.

O almeno per ringiovanire nel mostrarsi pronti all’epica battaglia.

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Dell’orrendo dire

«Che aspetti allora? Delle tue parole nulla mi piace, e possa non piacermi mai; e così anche a te tutto di me riesce sgradito. Ma come avrei conseguito gloria più gloriosa, che componendo nel sepolcro il fratello mio? Tutti costoro direbbero di approvare il mio atto, se la paura non chiudesse loro la lingua. Ma la tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole». Così Antigone, rivolgendosi direttamente a Creonte minaccioso, nell’omonima tragedia di Sofocle (qui nella traduzione di Raffaele Cantarella, in Sofocle, Edipo Re – Edipo a Colono – Antigone, Mondadori, 2014, p. 291. Per chi volesse trovare nel passo altre sfumature: Τί δῆτα μέλλεις; ὡς ἐμοὶ τῶν σῶν λόγων ἀρεστὸν οὐδὲν μηδ᾽ ἀρεσθείη ποτέ, οὕτω δὲ καὶ σοὶ τἄμ᾽ ἀφανδάνοντ᾽ ἔφυ. Καίτοι πόθεν κλέος γ᾽ ἂν εὐκλεέστερον κατέσχον ἢ τὸν αὐτάδελφον ἐν τάφῳ τιθεῖσα; τούτοις τοῦτο πᾶσιν ἁνδάνειν λέγοιτ᾽ ἄν, εἰ μὴ γλῶσσαν ἐγκλῄοι φόβος. Ἀλλ᾽ ἡ τυραννὶς πολλά τ᾽ ἄλλ᾽ εὐδαιμονεῖ κἄξεστιν αὐτῇ δρᾶν λέγειν θ᾽ ἃ βούλεται).

Ritorno alle parole di un’altra donna, 25 secoli dopo l’opera sofoclea, quella Mariann Budde che esortava Trump alla pietà verso i migranti e, pochi giorni dopo, a proposito del suo sermone, spiegava ai giornali: «I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Siamo tutti noi come i tebani di allora, silenti perché spaventati? E possiamo davvero consentire ai potenti di oggi ciò che l’infelice figlia dell’infelice Edipo diceva della tirannide, che «le è lecito fare e dire quel che vuole»? O è tempo ormai di ribadire che c’è un limite al potere, e c’è un confine pure nelle cose che dai potenti possono essere dette, indipendentemente dal consenso che sulle stesse hanno o credono di avere?

Il politically correct ha avuto i suoi eccessi; negarli è inutile e dannoso, come dannosi (se non altro a giudicare dai risultati elettorali) sono stati proprio quegli eccessi. Il contrappasso che stiamo vedendo manifestarsi in questi tristi tempi è però ancora più nocivo, e mira a intossicare l’aria che noi tutti respiriamo. Il presidente di quella che si credeva la più grande democrazia del mondo non può utilizzare epiteti ed espressioni come quelli che indirizza verso alcune, ben ricercate, minoranze, senza che s’alzi intorno un coro di dissenso e riprovazione, senza che, come diceva Mariann Budde, nessuno dica qualcosa. Non può usare espressioni come «clean out», ripulire, riferendosi ai palestinesi da mandar via da Gaza, senza che urlino nelle orecchie i crimini di altre “pulizie” etnicamente intese, e che nessuno lo contesti lì, subito, sul momento.

Egli non può provocatoriamente disegnare scenari in cui un territorio venga svuotato dai suoi abitanti da decenni martoriati dalla guerra, immaginando al posto delle loro vite balocchi e attrazioni per turisti (progettare resort e stabilimenti balneari sulle macerie dove ancora caldi sono i corpi di decine di migliaia di vittime di 15 mesi di bombardamenti, somiglia sino al voltastomaco alla costruzione del loro angolo di paradiso al limitare del muro di Auschwitz di Rudolf ed Hedwig Höß, nel durissimo e perfetto La zona d’interesse di Jonathan Glazer) senza che i leader di tutte le altre democrazie lo stigmatizzino e lo sanzionino per quelle idee. Non può parlare di «deportazioni» da mettere in campo, non può chiamare «animali» o «non umani» i migranti illegali, senza che nel mondo libero tuoni contro e atterrita all’unisono la voce delle istituzioni, dei cittadini e delle forze politiche tutte. Non potrebbe; invece lo fa, e come quei timorosi sudditi di Creonte, l’Occidente dei diritti tace.

Eppure, la storia dovrebbe avercelo insegnato, che dall’orrendo dire nascono i peggiori frutti. Per questo, potremmo singolarmente far nostro l’esempio della vescova Budde, e non tacere mai, dinanzi a quello che sentiamo. E dobbiamo farlo, anche se ci può sembrare poca cosa la nostra voce contraria rispetto al coro che si leva di quanti, per convinzione o terrore, batton le mani al tempo del potente di turno.

Ancora dalle parole di Antigone, ma questa volta nella versione che della tragedia Jean Anouilh scrisse nel 1942 e portò in scena nel 1944, nella Francia occupata dalle truppe del Terzo Reich e difronte a un pubblico misto di tedeschi e francesi (J. Anouilh, Antigone, ora in Antigone. Variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio-Feltrinelli, 2000-2013, pp. 61-118, cit. p. 93): «Nient’altro che questo, lo so. Ma questo, almeno, posso. E bisogna fare quel che si può».   

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Prima vengono sempre a prendere gli irregolari

«I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Così Mariann Budde, la vescova che nel sermone dopo la cerimonia di insediamento, guardandolo negli occhi, ha esortato Trump ad avere pietà per i migranti e per le loro famiglie, perché, come ha detto dal pulpito, «our God teaches us that we are to be merciful to the stranger, for we were once strangers in this land», spiegava pochi giorni dopo al New York Times le ragioni del suo forte monito.

Il giorno dopo quell’orazione nobile, il padrone delle ferriere elettrificate, commentando sul suo X, scriveva: «She got the woke mind virus real bad». Ora, sarebbe inutile spiegare a Musk che non era vittima di nessun virus della modernità da quelli come lui osteggiata, ma citava semplicemente le scritture, quella stessa Bibbia su cui il suo socio aveva da poco giurato: «Quando uno straniero risiede con voi nel vostro paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, il vostro Dio» (Levitico, 19: 33-34). Tanto superfluo che i fatti si sono incaricati subito di disvelare il vero carattere della nuova amministrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, attraverso quella tremenda foto esibita per il ringhio festante della folla sostenitrice, con i migranti in catene fatti salire su un aereo militare. Allora, la domanda di Mariann Budde suona ancora più forte: qualcuno dirà qualcosa sulla svolta del Paese?

Qualcosa l’ha detta lo stesso commander-in-chief. Sempre dal Nyt, parlando della sua idea per risolvere i problemi di Gaza: «You’re talking about probably a million and a half people, and we just clean out that whole thing». «Clean out», ripulire. Etnicamente. Mandare via i palestinesi, verso altri luoghi. Deportarli in massa, un milione e mezzo di persone, uomini, donne, bambini. E ha continuato a dire, prendendo di mira tutti gli stranieri che hanno partecipato a manifestazione pro-GazaTo all the resident aliens who joined in the pro-jihadist protests, we put you on notice: come 2025, we will find you, and we will deport you», perché loro sono quelli del free speech), ancora i migranti illegali, minacciando di spedirli a GuantanamoWe have 30,000 beds in Guantanamo to detain the worst criminal illegal aliens threatening the American people»), quanti non rientrano nelle categorie in cui quelli come lui dividono e ordinano il mondo, quei due generi che certa tradizione vorrebbe divinamente stabiliti, i dipendenti federali sospettati di poco “allineamento” alle politiche perseguite dalla Casa Bianca (comprese quelle più persecutorie) e i programmi di inclusione per le persone con disabilità (squallidamente sfruttando un disastro aereo).

In un tempo e in un mondo dove anche l’altro muro tedesco è sembrato in procinto di cadere – quello antifascista, che separa gli estremisti di destra che tanto piacciono all’amico di Trump dalle sfere del potere istituzionale –, non possono non risuonare quali sveglia per tutti, riadattate allo zeitgeist attuale, le parole chiare, e che alludono al complice silenzio che sempre accompagna l’inizio dell’oscurità, in quella poesia di Niemöller ripresa da Brecht: prima vennero a prendere gli irregolari…

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La memoria di quanto tutto fu il seguito delle scelte dei singoli

«L’occasione del 27 gennaio, il Giorno della Memoria, viene molto spesso utilizzata per ricordare non solo la tragedia degli ebrei d’Europa, ma anche e soprattutto per riaffermare uno dei tanti luoghi comuni così diffusi nell’opinione pubblica italiana, e cioè che dietro ogni ebreo strappato alla deportazione e alla morte vi era una rete di italiani non ebrei che misero in pericolo la propria vita per porre al riparo le vittime. Puntualmente, ogni 27 gennaio le televisioni ritrasmettono film e fiction che esaltano gli eroi italiani, personaggi che sfidando ogni sorta di pericolo hanno salvato decine, a volte centinaia di ebrei. Ogni 27 gennaio viene quindi riaffermato e ribadito il mito degli “italiani brava gente”, una delle leggende più radicate nella memoria collettiva del nostro Paese. Eppure una analisi più approfondita dei fatti dimostra una storia molto più complessa e molto meno consolatoria di quella raccontata nei film. […] Per quanto efficienti, i comandi della polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi costretti ad appoggiarsi agli italiani. Tra il 13 e il 30 novembre (del 1943, n.d.r.) la Rsi, inoltre, proclamò tutti gli ebrei “stranieri” e “nemici”, e ne ordinò l’immediata incarcerazione in campi di concentramento costruiti ad hoc. Ma non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di “italiani comuni”, di normali cittadini, fu fondamentale per l’arresto di migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire dell’epoca».

Scriveva così, nel 2016, Amedeo Osti Guerrazzi sulla Stampa. Sull’edizione torinese della Repubblica, il 21 ottobre del 2018, Francesca Bollino, a proposito di una mostra organizzata dal Comune sugli orrori delle leggi razziali, ricordava come ci fu «uno zelo tutto torinese nell’applicare la direttiva sulla razza. L’immagine – o il mito – della Torino antifascista, città tradizionalmente fredda nei confronti del duce, resta piuttosto scalfita». «Già ad agosto», continuava l’articolo di Bollino sui fatti di quel nero 1938, «e quindi ben prima dell’entrata in vigore delle leggi sulla razza, l’amministrazione aveva fatto richiesta a tutte le scuole di inviare gli elenchi degli alunni per i quali le famiglie avevano chiesto l’esenzione dell’insegnamento della religione cattolica, con la presunzione che si trattasse di ebrei. Lo stesso vale per gli insegnanti. E tutte le scuole rispondono, con tragica prontezza». E c’è un passaggio, nella ricostruzione della giornalista, che fa davvero riflettere su quanto possa essere realmente «banale» il male, quasi fosse un lavoro fra gli altri. Da Roma chiedevano con insistenza i dati a tutto il Regno, autorizzando anche i comuni ad assumere personale o a pagare gli straordinari. A Torino si erano portati avanti, con una delibera del Comune del 3 ottobre, oltre un mese prima dell’emanazione delle norme della vergogna, che finanziava i costi per il lavoro in più dei dipendenti impiegati nel censimento, i quali, si poteva leggere nel testo del provvedimento esposto durante la rassegna del 2018 dell’archivio storico cittadino, «hanno lavorato con enorme zelo, la sera, durante i giorni festivi, per arrivare a raccogliere quanti più dati possibili».

Entrambi gli articoli citati, nel loro titolo, utilizzano l’aggettivo «volenterosi», per indicare delatori e spioni, con un chiaro rimando all’opera di Daniel Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (Mondadori, 1997, titolo originale Hitlers Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, 1996). In quel testo, il già professore di Harvard cerca di spiegare quale società tedesca fosse quella in cui “la soluzione finale”, prima che messa in atto, poté essere detta, come mai si potette affermare che alcuni uomini fossero “subumani”, perché si riuscì a praticare esclusioni e marginalizzazioni, angherie e vessazioni prima che gli ebrei fossero portati nei campi di concentramento, quando tutti potevano vedere che a loro erano tolti diritti e possibilità che gli altri avevano garantiti. Eppure, nessuno si oppose, anzi.

«Ridevano», dice Helen Mirren nei panni di Maria Altmann in Woman in gold, bel film del 2015 diretto da Simon Curtis sulla storia vera di una ricca famiglia ebraica viennese nel dramma della Shoah. Ridevano, gli austriaci, nel vedere loro, benestanti, spogliati di tutto e trattati come “non umani”, appunto. Applaudivano all’Anschluss e all’ingresso delle truppe del Reich. Festeggiavano il diventare parte attiva del folle e criminale sogno di Hitler. Come ridevano, applaudivano e festeggiavano i tedeschi. E come ridevano, applaudivano e festeggiavano gli italiani.

Nel 1938, a Trieste, Mussolini parlava della “questione della razza” dal punto di vista fascista, in una Piazza dell’Unità d’Italia strapiena di gente estasiata e rapita da quelle parole, da quei discorsi sulla superiorità di alcuni uomini rispetto ad altri. Gli stessi argomenti da cui generò l’Olocausto, per i quali discese sull’Europa il buio dell’immane tragedia.

E non fu solo questione di “popolino ignorante”, come si potrebbe facilmente immaginare e dire per sedare le nostre coscienze. Degli oltre 1.200 professori universitari italiani di quel periodo, solo una quindicina non prestarono il giuramento di fedeltà al fascismo imposto dagli stessi che stilavano le “leggi razziali” e, in Germania come in Italia, intellettuali di primissimo piano non si opposero alla cacciata degli ebrei dalle funzioni pubbliche e dalle carriere dello Stato, dalle professioni come dalle università, dalle scuole o dagli ospedali, solo perché ebrei.

Oggi è di nuovo il 27 gennaio, e sono passati esattamente ottant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz ad opera delle truppe sovietiche. Chissà se in questo giorno ci ricorderemo che tutto quel che accadde e che accade, al di là di ciò che il tempo, i costumi e i governi stabiliscono essere la legalità, fu ed è sempre e solo una questione di scelte individuali.

No, nessuna caduta in una forma di esistenzialismo sartriano; sto parlando proprio di responsabilità morale, pratica, effettiva derivante dalle scelte di qualcuno sulla vita reale e concreta di qualcun altro. Non furono le leggi di per sé a segnalare, segregare e poi crudelmente sopprimere gli ebrei.

Furono esseri umani, singoli che nella loro assoluta libertà decisero così.

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Di quel canto d’un pastore errante

Mi è capitata sotto gli occhi, nei giorni scorsi, la sintesi delle dichiarazioni rilasciate dal ministro Valditara sui programmi del Governo per la scuola. C’è un po’ di tutto: dall’inserimento del latino facoltativo alle medie all’approfondimento della storia italiana, dalla epica classica a quella nordica, dalla lettura della Bibbia (nell’ottica dell’approfondimento delle mitologie, immagino) all’apprendimento delle poesie a memoria. Parlerò poi delle idee ministeriali, prima mi permetto una divagazione, a proposito di poesia.

Curiosamente, quando ho letto quell’articolo stavo pensando al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ora, non è che io pensi al Leopardi spesso, lo ammetto, e probabilmente quella suggestione mi era stata inconsciamente suscitata da un rimando social alla nuova miniserie Rai sul recanatese. Fatto sta che la coincidenza l’ho trovata interessante. Immagino che gli attuali governanti ascriverebbero i Canti alla storia patriottica, però dubito che l’autore lo fosse, nel loro stesso senso almeno; egli era intento a capire il singolo e i suoi sentimenti, non a santificare i popoli con le annesse storie e tradizioni. Certo, All’Italia, d’accordo: parliamo pur sempre di un componimento dei suoi vent’anni, scritto a poca distanza dal Congresso di Vienna e reso famoso più per l’impegno dei suoi lettori liberali che per quel che diceva, tralasciando il fatto che anche lì si possono leggere, nella situazione della patria, altri temi che il poeta spesso userà per descrivere la vita dei singoli, dalla felicità delle origini contrapposta alle difficoltà del presente (l’età fiorita del garzoncello scherzoso che è solo il sabato che annuncia la festa d’un giorno soltanto), fino alla storia che quasi agisce coi popoli come la natura sugli uomini, non rendendo quel che promette.

Il Canto notturno, nella specificità del dolore e della sofferenza a cui la vita espone, porta a compimento la dimensione «cosmica» della sua visione sulle sorti degli uomini, di tutti gli uomini, e lo fa partendo proprio dalla loro individualità, singolarmente considerata. È quel pastore che gli interessa, e da quella singolarità trae indicazioni generali. Non una storia di popoli, quindi, ma il destino dei singoli, di tutti i singoli, come tale condiviso e, appunto, universale.

L’aspetto su cui riflettevo era però un altro. Per dar senso a quella universalità di sentimenti, Leopardi sceglie il suo protagonista trovandolo in un pastore nomade, presumibilmente incolto, duro, al limite primitivo, comunque lontano anni luce da ciò che era il poeta. Il dolore del vivere cantato lì smette di essere appannaggio degli uomini istruiti e formatisi nella modernità, ma si scopre arcaico e familiare all’insieme dei viventi.

Tutto questo si regge su un assunto che il poeta, nel testo, non dimostra: davvero un pecoraio lontano dagli stessi suoi studi può ritenere «funesto a chi nasce il dì natale»? Non è forse questa una riflessione solo sua e di quelli come lui, gente che «ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo», per dirla con Guccini, lontana dal sentire di quanti hanno a che fare con le cose pratiche di ogni giorno? E allora mi sono ricordato di altro.

Ernesto De Martino, in una sua trasmissione radiofonica del 1953, raccontava una parte di quello che aveva conosciuto nella sua «spedizione», la definiva proprio in questo modo, in Lucania di qualche tempo prima e poneva l’accento su un tema chiave in molti racconti, nenie, ninne nanne: quello della nascita sventurata, della venuta al mondo di quanti sono scritti nel libro degli spersi (ora si trova raccolta, con altre, nel volume Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, curato da Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi, ed. Bollati Boringhieri, 2002).

Raccontava l’antropologo partenopeo (op. cit., pp. 91-92): «Fu un bracciante di Irsina, che per la prima volta ci cantò la nascita dell’uomo come nodo di assurdità e come maligna inversione della norma:

Quando io nacqui

Mia madre non c’era

Era andata a lavare le fasce

La culla che mi doveva cullare

Era di ferro e non si dondolava

Il prete che doveva battezzarmi

Sapeva leggere e non sapeva scrivere

Avemmo occasione una volta di incontrare a Savoia di Lucania una quasi centenaria, Caterina Guglia. Essa non ricordava esattamente l’anno della sua nascita, ma solo di essere nata l’anno del terremoto; ricordava però, con pronta memoria, i versi della nascita come catastrofe:

Quando io nacqui

Mia madre morì

Morì mio padre il giorno dopo

E anche la levatrice morì

Mi andai a battezzare

Nessuno attorno

[…] Altre volte, il tema della nascita sventurata si accende di immagini che parlano di una vera catastrofe cosmica che accompagna la nascita:

Quando io nacqui

Il mare più profondo si asciugò

E per quell’anno

Non ci fu al mondo primavera

Quando io nacqui

Si oscurarono le stelle

E il sole cessò di risplendere

oppure:

Le fasce in cui fui infasciato

Erano tessute di melanconia

e infine il disperato lamento che spiega la profonda motivazione esistenziale di tutta questa tematica della nascita sventurata:

Sto a questo mondo come non ci stessi

Mi hanno messo nel libro degli spersi».

Questi canti raccoglieva agli inizi degli anni Cinquanta De Martino, e almeno una dei suoi testimoni aveva quasi cent’anni, cioè era nata una ventina d’anni dopo che Leopardi aveva scritto il Canto notturno; l’assonanza suggerisce che l’assunto del letterato poggiasse sui fondamenti solidi del pensiero del filosofo ch’egli stesso era andava elaborando.

Ah già, dovevo parlare di Valditara; vabbè, col poeta dei Canti: «il tempo manca».   

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