Di quel canto d’un pastore errante

Mi è capitata sotto gli occhi, nei giorni scorsi, la sintesi delle dichiarazioni rilasciate dal ministro Valditara sui programmi del Governo per la scuola. C’è un po’ di tutto: dall’inserimento del latino facoltativo alle medie all’approfondimento della storia italiana, dalla epica classica a quella nordica, dalla lettura della Bibbia (nell’ottica dell’approfondimento delle mitologie, immagino) all’apprendimento delle poesie a memoria. Parlerò poi delle idee ministeriali, prima mi permetto una divagazione, a proposito di poesia.

Curiosamente, quando ho letto quell’articolo stavo pensando al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ora, non è che io pensi al Leopardi spesso, lo ammetto, e probabilmente quella suggestione mi era stata inconsciamente suscitata da un rimando social alla nuova miniserie Rai sul recanatese. Fatto sta che la coincidenza l’ho trovata interessante. Immagino che gli attuali governanti ascriverebbero i Canti alla storia patriottica, però dubito che l’autore lo fosse, nel loro stesso senso almeno; egli era intento a capire il singolo e i suoi sentimenti, non a santificare i popoli con le annesse storie e tradizioni. Certo, All’Italia, d’accordo: parliamo pur sempre di un componimento dei suoi vent’anni, scritto a poca distanza dal Congresso di Vienna e reso famoso più per l’impegno dei suoi lettori liberali che per quel che diceva, tralasciando il fatto che anche lì si possono leggere, nella situazione della patria, altri temi che il poeta spesso userà per descrivere la vita dei singoli, dalla felicità delle origini contrapposta alle difficoltà del presente (l’età fiorita del garzoncello scherzoso che è solo il sabato che annuncia la festa d’un giorno soltanto), fino alla storia che quasi agisce coi popoli come la natura sugli uomini, non rendendo quel che promette.

Il Canto notturno, nella specificità del dolore e della sofferenza a cui la vita espone, porta a compimento la dimensione «cosmica» della sua visione sulle sorti degli uomini, di tutti gli uomini, e lo fa partendo proprio dalla loro individualità, singolarmente considerata. È quel pastore che gli interessa, e da quella singolarità trae indicazioni generali. Non una storia di popoli, quindi, ma il destino dei singoli, di tutti i singoli, come tale condiviso e, appunto, universale.

L’aspetto su cui riflettevo era però un altro. Per dar senso a quella universalità di sentimenti, Leopardi sceglie il suo protagonista trovandolo in un pastore nomade, presumibilmente incolto, duro, al limite primitivo, comunque lontano anni luce da ciò che era il poeta. Il dolore del vivere cantato lì smette di essere appannaggio degli uomini istruiti e formatisi nella modernità, ma si scopre arcaico e familiare all’insieme dei viventi.

Tutto questo si regge su un assunto che il poeta, nel testo, non dimostra: davvero un pecoraio lontano dagli stessi suoi studi può ritenere «funesto a chi nasce il dì natale»? Non è forse questa una riflessione solo sua e di quelli come lui, gente che «ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo», per dirla con Guccini, lontana dal sentire di quanti hanno a che fare con le cose pratiche di ogni giorno? E allora mi sono ricordato di altro.

Ernesto De Martino, in una sua trasmissione radiofonica del 1953, raccontava una parte di quello che aveva conosciuto nella sua «spedizione», la definiva proprio in questo modo, in Lucania di qualche tempo prima e poneva l’accento su un tema chiave in molti racconti, nenie, ninne nanne: quello della nascita sventurata, della venuta al mondo di quanti sono scritti nel libro degli spersi (ora si trova raccolta, con altre, nel volume Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, curato da Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi, ed. Bollati Boringhieri, 2002).

Raccontava l’antropologo partenopeo (op. cit., pp. 91-92): «Fu un bracciante di Irsina, che per la prima volta ci cantò la nascita dell’uomo come nodo di assurdità e come maligna inversione della norma:

Quando io nacqui

Mia madre non c’era

Era andata a lavare le fasce

La culla che mi doveva cullare

Era di ferro e non si dondolava

Il prete che doveva battezzarmi

Sapeva leggere e non sapeva scrivere

Avemmo occasione una volta di incontrare a Savoia di Lucania una quasi centenaria, Caterina Guglia. Essa non ricordava esattamente l’anno della sua nascita, ma solo di essere nata l’anno del terremoto; ricordava però, con pronta memoria, i versi della nascita come catastrofe:

Quando io nacqui

Mia madre morì

Morì mio padre il giorno dopo

E anche la levatrice morì

Mi andai a battezzare

Nessuno attorno

[…] Altre volte, il tema della nascita sventurata si accende di immagini che parlano di una vera catastrofe cosmica che accompagna la nascita:

Quando io nacqui

Il mare più profondo si asciugò

E per quell’anno

Non ci fu al mondo primavera

Quando io nacqui

Si oscurarono le stelle

E il sole cessò di risplendere

oppure:

Le fasce in cui fui infasciato

Erano tessute di melanconia

e infine il disperato lamento che spiega la profonda motivazione esistenziale di tutta questa tematica della nascita sventurata:

Sto a questo mondo come non ci stessi

Mi hanno messo nel libro degli spersi».

Questi canti raccoglieva agli inizi degli anni Cinquanta De Martino, e almeno una dei suoi testimoni aveva quasi cent’anni, cioè era nata una ventina d’anni dopo che Leopardi aveva scritto il Canto notturno; l’assonanza suggerisce che l’assunto del letterato poggiasse sui fondamenti solidi del pensiero del filosofo ch’egli stesso era andava elaborando.

Ah già, dovevo parlare di Valditara; vabbè, col poeta dei Canti: «il tempo manca».   

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Sperando che il Moro di Treviri avesse ragione

«Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Con queste parole Karl Marx fa iniziare Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, 2006, p. 43), riflessione in presa diretta sul colpo di stato messo in atto dal nipote di Napoleone che diventa occasione per approfondire le proprie analisi sociali e teorie storiche.

Resa autonoma dal contesto, quella frase spesso l’abbiamo sentita ripetere. E nel leggere le notizie sull’incarico conferito dal presidente federale austriaco Alexander Van der Bellen a Herbert Kickl per costituire il nuovo governo che dovrà succedere a quello guidato da Karl Nehammer, ho sperato (e spero ancora) che sia perfettamente corrispondente al vero. Questo per l’ottimismo della volontà; per quanto concerne il pessimismo della ragione, la sera stessa ho ripreso in mano Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo di Stefen Zweig (Mondadori, 2017). Ritornando all’Austria, ciò che sta accadendo ricorda molto da vicino (pur se immagino il sentimento di quel galantuomo di Van der Bellen molto distante da quello dell’allora omologo tedesco Paul von Hindenburg) le sorti di un altro austriaco, per quanto in Germania, in un altro gennaio, quello del 1933: le trattative nel post elezioni tra le varie forze politiche vanno in stallo, il leader del partito di estrema destra riceve il mandato a costituire un esecutivo puntando sull’appoggio del partito popolare, questi ultimi temono le urne perché immaginano che i primi avanzino ancora, il contesto di contorno si divide tra i quelli che sottovalutano i rischi, quanti pensano di poterne trarre vantaggio, chi immagina che non durerà e i tanti che credono bastino le regole, il diritto e la legge a fermarne le potenziali derive peggiori. Vedremo.

Intanto, stiamo già osservando alcune cose, e tra queste il fatto che, al di là della denuncia della comunità di sentimenti tra alcuni ambienti d’estrema destra e altri d’estrema sinistra, il cosiddetto “rossobrunismo”, la realtà istituzionale ci pone davanti, in Italia, in Francia e ora in Austria, l’alleanza effettiva tra il centro, il centro-destra, soi-disant, “moderato” e la destra-destra, addirittura estrema in molte delle sue posizioni.

E poi la manifestazione di una realtà di fondo che possiamo negare, ma che bussa con forza alle porte delle nostre riflessioni: continuiamo ad evidenziare nelle approfondite analisi (e con indubbie ragioni) i limiti e gli errori delle élites politiche, soprattutto di sinistra, nel determinare le situazioni da cui nascono alcuni risultati elettorali; però dobbiamo anche dirci che quei voti arrivano pure perché la gente, liberamente, li dà.

Herbert Kickl ha fatto una campagna elettorale in cui non ha evitato di parlare di alcuni argomenti che, in politica e negli stati democratici d’Occidente, dovrebbero essere banditi. Il programma elettorale del partito che guida, l’Fpö (“Freiheitliche” credo che qui stia come “sozialistische” nei loro antenati d’ispirazione), è intitolato “Fortezza Austria” (e quel Festung rimanda proprio a quell’altro) e chiede, senza girarci intorno, la “remigrazione” degli stranieri non invitati – nei fatti, la loro deportazione –, la restrizione del diritto d’asilo e un rigido ed ermetico controllo delle frontiere. Il tutto, al fine di ottenere una società più omogenea.

Se un brivido ha percorso le vostre spalle, sono in buona compagnia. Eppure, dicendo l’indicibile, il “Partito della libertà d’Austria” è risultato essere il più votato nello scorso autunno, con quasi il 30% dei consensi. Uno su tre ha votato per loro. E io credo che sia arrivato il momento di cominciarci a chiedere seriamente quanti di questi lo abbiano fatto nonostante quei discorsi orribili e quanti, invece, proprio per quelli.

Se non altro per non dover scoprire troppo tardi quello che tristemente toccò in sorte a Zweig (op. cit., pag. 167) e ad altri nel suo tempo: «Avevo ormai vissuto dieci anni del nuovo secolo, avevo veduto l’India, una parte dell’America e dell’Africa, cominciavo a guardare la nostra Europa con nuova e feconda gioia. Mai ho tanto amata la nostra vecchia terra come in quegli ultimi anni prima della guerra, mai ho tanto sperato nell’Europa, mai ho tanto creduto nel suo futuro come in quegli anni in cui ci sembrava di assistere a una nuova aurora. Era invece già l’igneo riflesso dell’enorme incendio che s’avvicinava».

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Eppure costruiscono

La Guida, il settimanale cattolico cuneese, nell’ultimo giorno dell’anno appena trascorso, scriveva sulla sua edizione online che i residenti in città «sono 55.903, ben 223 cittadini in meno rispetto a un anno fa, quando erano 56.126. […] Anche le famiglie diminuiscono, sono ben 172 in meno […]. La media di componenti per famiglia è appena di 2,06 componenti». Eppure, posso assicurare perché lo vedo tutti i giorni con i miei occhi, in città e nel territorio circostante, si continua a costruire nuovi appartamenti, case, villette. Per chi?

Quando parliamo di consumo di suolo, non di rado ci si sente accusati di esser contrari alla crescita e intrisi di visioni ecologiste senza nessun contatto con la realtà. Però, al di là di ogni ideologia sviluppista, le case servono per la gente che deve abitarle; se questa non aumenta di numero, o addirittura diminuisce, quelle, che siano le vecchie o le nuove, rimarranno vuote. Non c’entrano le dinamiche di mercato o le leggi dell’economia: c’entra l’aritmetica. Il resto – la crisi dell’edilizia, la stasi nel mercato immobiliare, la riduzione dei valori di quegli stessi immobili – è conseguenza. E la contrazione della popolazione non è un’esclusiva di Cuneo, ma è tutta l’Italia a segnare un meno davanti all’andamento del numero dei residenti (vedremo i dati aggiornati al 2024, seppure il trend è chiaro da alcuni anni).

Lo scandalo, in tutto questo, è poi nella considerazione delle difficoltà di accesso alla casa di molte fasce di popolazione. Cioè, in un Paese che si avvia ad aver decisamente più case che persone (ed è già così in molte aree interne), non si riesce ad assicurare il diritto all’abitazione; anche qui, la matematica urla vendetta al cielo. La crisi degli alloggi a Milano o in altre (poche) realtà ancora dinamiche e con crescenti valori degli immobili, se non giustificabile sul piano etico, è almeno spiegabile nelle leggi del mercato. Quel che accade in tutto il resto delle situazioni ha dell’inverosimile.

Però, accade.

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Il difetto di competenza

A dirla tutta, bastava farsi un giro sui social. Non tanto per scoprirne la posizione in classifica, ovvio, per la quale sarebbero potuti mancare i risconti e i raffronti. Ma per capire lo stato delle cose probabilmente sì. Sto parlando dei risultati del Survey of Adult Skills, il monitoraggio Ocse sulle competenze degli adulti nel leggere, scrivere e far di conto, come si sarebbe detto un tempo, delle popolazioni dei Paesi aderenti. Dei trentuno Stati analizzati, l’Italia si ritrova complessivamente al quartultimo posto per quanto riguarda le competenze letterarie, matematiche e di problem solving, lontanissima dalla media dei risultati analizzati, per tacere della distanza da Finlandia, Giappone, Olanda, Norvegia e Svezia.

Per quanto riguarda le capacità letterarie, il 35% per cento degli italiani tra i 16 e i 65 anni ha raggiunto un punteggio pari o inferiore al primo livello di quella rilevazione, rientrando così nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”. Cioè, un terzo degli adulti di questo Paese sa sì leggere e scrivere, ma ha difficoltà, in molti casi gravissime, a comprendere o utilizzare le informazioni che legge. Può capire frasi brevi o testi semplici, si perde invece davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Insomma, a scuola ci siamo andati perché ci dovevamo andare, però con poco impegno e ancor meno profitto, a giudicare da questi risultati e da tanti altri indicatori che potremmo prendere in esame (dal numero di libri letti per abitante alla conoscenza di una lingua straniera, dei concetti scientifici di base, dei rudimenti dell’economia).

Dicevo che sarebbe bastato un giro sui social perché a volte si leggono o ascoltano cose (quando si riescono a capire, per come sono state scritte e dette), che davvero fanno impressione. Per non parlare delle conoscenze culturali in generale. Quell’indagine, infatti, prende in esame parametri paragonabili tra i diversi sistemi e le differenti scelte scolastiche dei singoli; provando ad allargare la visuale, quali sarebbero i risultati sugli argomenti di storia o geografia? Gli stessi che, appunto, fra un post e un commento, si possono leggere su Internet: vicende immaginarie, confini improbabili, personaggi leggendari scambiati per condottieri storicamente esistiti, patrie inventate ed evidenze negate.

Non andrebbe meglio, quella ricerca, se si confrontasse con materie dal portato, per così dire, più identitario. Prendete la religione: la confusione sulla lettera di quelle fedi, per tacere della dottrina, è tanto più dirompente quanto maggiore è la professione che di questa si fa. Si sventolano crocifissi e rosari al pari di vessilli di parte, ma si ignorano completamente le parole che quegli stessi simboli hanno fondato e riempito di significato.

E in questi giorni di festività solenni, tale aspetto è forse ancora più evidente.

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E se fossero troppe?

In questi giorni, capita un po’ a tutti di leggere articoli e riflessioni sulla crisi dell’auto. I dati sono veramente allarmanti: in Europa, il calo delle immatricolazioni nell’ultimo mese utile per le rilevazioni, novembre 2024, segna un complessivo -2%. Nel dettaglio dei singoli Stati, come riporta Giuliana Ferraino sul Corriere di venerdì scorso, i numeri sono ancora più impressionanti: tra i mercati maggiori per il settore, l’Italia si attesta a -10,8%, la Francia addirittura -12,7%, con la Germania che tiene appena sotto la linea di galleggiamento, -0,5%. Alla crisi di vendite non fa argine l’elettrico, che, nello stesso periodo, si contrae mediamente del 9,5%, con cali del 24,4% in Francia e del 21,8% in Germania.

Colpa delle produzioni in arrivo da altri Paesi? Direi di no, perché calano proprio le immatricolazioni tutte, che siano di auto tedesche, italiane, giapponesi o coreane. Nel riflettere sulle possibili cause, sempre sul Corriere, Luca Angelini si chiedeva se il motivo non fosse da ricercare nei prezzi troppo alti. Ed è sicuramente un tema vero, soprattutto in Italia, visto che quei prezzi salgono e i salari ristagnano. Però, crollano gli acquisti persino in Germania, e lì gli stipendi sono decisamente più generosi. Il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, leggeva in quella contrazione di mercato anche il risultato di questioni ideologiche, dall’ambientalismo a un diverso stile di vita delle nuove generazioni.  E pur stando lontano dal tono quasi accusatorio verso chi non vede nell’automobile l’architrave della propria esistenza, va detto che una qualche ragione c’è: se un prodotto è meno attraente sul piano simbolico, meno ricercato, il mercato ne risente. Però, un dubbio mi rimane, e mi chiedo: e se fossero semplicemente troppe?

Ho provato anche qui a cercare i dati, per sostenere l’impressione empirica: in Italia (rilevazione al 2023, fonte Istat), ci sono 694 autovetture ogni mille abitanti, contro una medie UE di 571. Sette macchine ogni dieci esseri umani, due per ciascuna famiglia di tre persone. Quante ne dobbiamo avere, per sostenere quel settore produttivo. L’automotive è stato il comparto simbolo dell’industria novecentesca, prima e (in Italia soprattutto) dopo il secondo conflitto mondiale. Ma allora c’erano Paesi interi da “motorizzare”, oggi non è più così. Certo, le macchine invecchiano e vanno cambiate, però quel ritmo di sostituzione non può essere frenetico come servirebbe, semplicemente perché un’auto, dopo averla comprata, la si usa; e le occasioni sono sempre di meno, proprio per gli stili di vita che cambiano, e le alternative, fortunatamente, sempre di più.

Poi, per carità, se dobbiamo portare quel rapporto a una macchina per ogni persona, bambini compresi, o ancora più in alto, fate voi. Solo che, come dire, non credo che sia la strada giusta. E lo so che adesso penserete che non mi stia preoccupando di quanti in quel settore lavorano, ma non è così. Dovremmo pensare a una riconversione generale, di fabbriche, reti di vendita e officine per la manutenzione, e allo stesso tempo della mobilità collettiva e individuale e degli strumenti per garantirla e attuarla.

In alternativa, possiamo fare come quanti girano le sagre per cercar voti, spiegando, tra un panino e un comizio, che la colpa è dell’Europa, dei cinesi, di Tavares, delle Ztl, delle auto elettriche (Tesla no, per carità, ché gli amici non si toccano), eccetera, eccetera, eccetera. Magari, si vincono pure le elezioni, non sapendo il giorno dopo cosa fare per risolvere i problemi che si denunciavano, se non tornare nelle stesse piazze e ricominciare il medesimo salmodiare, in un circolo vizioso i cui risultati sono quelli che contiamo e scontiamo.

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Di una società chiamata solitudine

«Negli ultimi sei mesi di vita, l’assicurazione ha deciso di smettere di pagare insulina, medicinali, garze, batterie, tutto quello che le serviva per le terapie – ha raccontato Jacob -. Solo quando è morta, nemmeno il giorno dopo ma la mattina dopo, ho trovato un pacco davanti a casa con tutto quello che avrebbe dovuto ricevere. Era troppo tardi». È una delle testimonianze, delle storie drammatiche di cure negate dal sistema assicurativo americano raccolte nell’articolo di Nadia Ferrigo, qualche giorno fa per la Stampa, partendo dai commenti social (spesso non edificanti), all’uccisione del Ceo della Unite Healthcare, Brian Thompson. Il presunto colpevole dell’omicidio, già arrestato, è il ventiseienne Luigi Mangione. Della giustizia si occuperanno i tribunali, della cronaca i giornali più attenti e puntuali di quanto possa essere questo spazio.

Sono i giudizi espressi nel pulviscolo delle connessioni in rete a esser qui fonte di riflessione. Non rendono giustizia dell’accaduto, e molti di questi sono censurabili, se non proprio esecrabili. Le storie che in alcuni di questi sono contenute, i drammi umani e personali, una qualche idea su quel che succede dovrebbero spingere a maturarla. Uccidere una persona a sangue freddo è un crimine che rimane tale. Eppure, dai primi minuti dopo la diffusione della notizia, il killer, allora senza nemmeno un volto, da imputato è immediatamente assurto, nel rumoreggiare di migliaia di account d’Oltreoceano, al rango di eroe popolare. Circostanza che dice due cose, a parer mio, sullo stato di quella società: che il modello bassato sulla sanità sostenuta quasi esclusivamente dalle polizze, e per profitto, mostra la corda ormai da decenni (con rancori sempre crescenti, vista la sensibilità dell’argomento), e che l’atomizzazione individualistica americana, dove si è celebrati unici nel trionfo e lasciati soli nella caduta, immagina più facilmente la reazione individuale contro i colpevoli che non la risposta collettiva per la soluzione di un problema.

Tutte e due aspetti che dovremmo cominciare a vedere con preoccupazione pure da questa parte di quell’oceano d’Occidente. La progressiva riduzione delle risorse per il sistema sanitario – che potrebbe crescere, se davvero si perseguisse fino alla pratica l’idea di incrementare gli stanziamenti in armi dei Paesi europei – spinge verso il sistema assicurativo. Ma le assicurazioni, per costituzione, non sono opere pie, e la ricerca del guadagno sarà sempre un aspetto prioritario del loro agire. E se un giorno può sembrarci interessante e di poco danno, integrare le capacità della sanità pubblica con un’alternativa tradotta in premio da qualche istituto, il successivo potremmo scoprire che quest’ultima via è l’unica rimasta, e non è detto che si abbia ancora la capacità finanziaria personale per imboccarla.

Il secondo aspetto, come accennavo, riguarda le nostre società. Lo scivolamento progressivo in una sorta di egoismo individualista dato dall’indisponibilità a lottare con e per un vicino che non ci piace (con le più diverse motivazioni del giudizio), smontano progressivamente la capacità di agire insieme per un obiettivo condiviso, come può essere appunto l’incremento dei fondi destinati al sistema sanitario nazionale.

A quel punto, non rimane che la rabbia solitaria per la propria condizione e la ricerca disperata di un volto da dare alla sete di responsabilità per il vissuto malessere.

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Per questo le democrazie sono differenti. E sempre preferibili

«President Yoon Suk Yeol declared emergency martial law Tuesday, accusing the nation’s opposition of paralyzing the government with “anti-state activities plotting rebellion”. “The martial law is aimed at eradicating pro-North Korean forces and to protect the constitutional order of freedom”, Yoon said in the televised address. This decision came after the opposition Democratic Party of Korea (DPK) railroaded a downsized budget bill in the parliamentary budget committee, and submitted impeachment motions against a state auditor and the chief prosecutor. Yoon said the decision to declare martial law was aimed at “rebuilding and safeguarding” the nation, which he described as facing significant challenges».

Per ragioni di cuore, quello che accade a Seoul m’interessa particolarmente. Così, quando nel pomeriggio di martedì scorso, le undici di sera in Corea, in una distratta occhiata ai social mi è comparsa la breaking news del Korea Times su quanto lì stava accadendo, la mente è andata con spavento ai momenti bui di quel Paese nel secolo scorso, alle pagine più dure di Atti umani di Han Kang, per stare alle testimonianze letterarie dei tempi. Ma la Seoul di oggi non è la Gwangju del 1980, e l’ora tarda e le temperature sotto zero non hanno impedito alla folla di radunarsi davanti al parlamento che Yoon voleva chiudere, né alla stessa assemblea di convocarsi in emergenza per respingere, all’unanimità di quelli riusciti ad arrivare, tra cui quasi tutti i deputati del suo partito, la legge marziale emanata dal presidente, costringendolo a ritirarla. Non un colpo è stato esploso e sebbene (in uno stato che ancora è formalmente in guerra col suo vicino fratello) i tempi di reazione delle forze armate siano pari a zero e subito le truppe erano in strada e nei luoghi del potere, l’esercito non ha usato la forza contro i manifestanti, né contro il personale dell’assemblea che, coraggiosamente, ha fatto muro, bloccando le porte del palazzo sull’isola di Yeouido.

Yoon, diventato presidente nel 2022 per poche migliaia di voti, nel frattempo scivolato in basso lungo i gradini della popolarità e ormai di fatto delegittimato, è scampato a un primo impeachment perché il suo partito ha disertato l’aula, chiedendone però le dimissioni per gestire la transizione e (immagino però con poca fortuna) allontanare la sua immagine dal resto del sodalizio. L’opposizione ha già in programma un nuovo voto per metterlo in stato di accusa, il ministro della difesa già dimessosi è stato arrestato e lo stesso Yoon rischia le l’incriminazione per lato tradimento (e anche per altre questioni aperte tra lui e la giustizia). Ma non è la sua sorte quello di cui m’interessa parlare; ciò che è rilevante e che emerge da questa notte d’inverno a Seoul è la differenza sostanziale tra una democrazia in cui poteri e contropoteri funzionano e tutte le altre forme di governo che gli uomini storicamente si sono dati e ancora si danno. Lo abbiamo visto mercoledì sulle sponde del fiume Han, lo avevamo visto nel gennaio del 2021 a Capitol Hill: una democrazia compiuta e funzionante non è la garanzia che la follia al potere non possa esistere, ma la consapevolezza che ad essa si sia in grado rispondere con la fermezza e gli strumenti necessari. Che appunto per questo motivo sono quelli che più di tutti gli altri devono essere tutelati.  

Nei fatti, Yoon contestava all’opposizione di fare il suo mestiere democratico, di impedirgli di approvare le sue manovre economiche in parlamento. Per questo, ha provato a forzare il banco, chiudendo, nei suoi intenti, l’assemblea nazionale e andando avanti da solo. Curiosamente, accusava l’opposizione di improbabili connessioni con il regime di Pyongyang, mentre era lui, col suo gesto, a rischiare di avvicinare la Corea del Sud al modello di governo al di là del 38° parallelo. Il parlamento e il Paese, con tutte le sue forze, dai sindacati in sciopero alle manifestazioni di piazza, però, ha reagito subito, e se non fosse stato possibile e presente quel potere d’interdizione dell’assemblea, oggi staremmo raccontando un’altra storia, decisamente più truce e buia.

Pensiamoci, quando sentiamo qualche leader impettito e insofferente verso i principi del check and balance.

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Augurandoci che la strada sia lunga

Sul New Yorker del 21 ottobre scorso, prima delle elezioni americane, Adam Gopnik (in un articolo dall’evocativo titolo As bad as all that. Donald Trump and the unmaking of America) scriveva: «In one respect, the space of politics in 2024 is transoceanic. The forms of Trumpism are mirrored in other countries. […]. What all these currents have in common is an obsessive fear of immigration. Fear of the other still seems to be the primary mover of collective emotion. Even when it is utterly self-destructive […] the apprehension that “we” are being flooded by frightening foreigners works its malign magic. It’s an old but persistent delusion that far-right nationalism is not rooted in the emotional needs of far-right nationalists but arises, instead, from the injustices of neoliberalism. And so many on the left insist that all those Trump voters are really Bernie Sanders voters who just haven’t had their consciousness raised yet. In fact, a similar constellation of populist figures has emerged, sharing platforms, plans, and ideologies, in countries where neoliberalism made little impact, and where a strong system of social welfare remains in place. If a broadened welfare state […] would cure the plague in the U.S., one would expect that countries with resilient welfare states would be immune from it. They are not».

Tentando di sintetizzare al massimo, per la firma del magazine newyorkese c’è una sorta di spazio politico transoceanico, di cui il trumpismo è una delle forme, ma che si ritrova in diversi movimenti anche in Europa. La cosa che sembra accomunare gli elettori di tutti questi movimenti, di qua e di là dell’Atlantico, è un’ossessiva paura dell’immigrazione, dell’altro, delle schiere di stranieri che mettono a repentaglio il senso stesso del “noi”. E aggiunge che il nazionalismo di estrema destra fa parte dei caratteri propri del pensiero dei nazionalisti di estrema destra, e non può essere derubricato a reazione contro le ingiustizie del sistema capitalistico. Non è, scrive con felice immagine, che gli elettori di Trump sarebbero in realtà elettori di Sanders senza coscienza di sé, ma sono elettori di Trump perché in lui credono e lui, e le sue idee, vogliono sostenere e votare. Non basterebbe, quindi, per convincerli aumentare i livelli di welfare state. A dimostrazione di ciò, spiega Gopnik, sta il fatto che fenomeni come quello trumpiano emergono anche in contesti dove l’assistenza sanitaria nazionale, i sindacati forti, i salari minimi e ogni altra articolazione dello stato sociale esistono e sono ben funzionanti. Se così è, però, le cifre elettorali spaventano ancora di più, e il lavoro da fare è davvero tanto, per convincere tutti gli altri che il loro impegno e la loro presenza è fondamentale.

Ed è tanto, quel lavoro, perché se domani Trump o gli altri come lui dovessero sparire, non sparirebbero di certo tutti quelli che li hanno votati credendo che, per dirla ancora con le parole di Gopnik, «if we haven’t fully enjoyed our birthright of plenty and prosperity, a nameable villain is at fault». E questi cercheranno ancora chi potrà indicargli un colpevole per la propria rabbia, qualcuno verso cui rivolgere lo schioppo del proprio rancore, come nelle più doloranti pagine del Furore di Steinbeck, «un nemico nominabile», appunto, per una vita immaginata ricca e opulenta e che si credeva a portata di mano per diritto di nascita.

La realtà è che nel mondo le risorse sono limitate, e che è possibile goderne tutti solo dividendole meglio, togliendone ai ricchi quando ne hanno troppe (e troppo spesso troppe ne hanno, come i Trump e i Musk che pur si votano), non impedendo ai più poveri fra i poveri di tentare la via per accedervi. E ci tocca tanto lavoro perché dobbiamo imparare e insegnare di nuovo a tutti quelli che hanno ancora orecchie per il progresso dell’umanità, per ricordare le parole di Don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi, «che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia» (Suola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1990).

Per questo, riprendendo e adattando alla prima persona plurale le parole di Itaca di Konstantinos Kavafis, dobbiamo augurarci che la strada sia lunga

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Sì, il patriarcato esiste ancora

Ricorda a tutti noi Arianna, la protagonista del bel romanzo di Katia Tenti, a proposito dei due processi celebrati, nel 1506 e nel 1510, nelle sale del maestoso Schloss Prösels di Völs am Schlern, e in cui furono condannate a morte per rogo donne innocenti accusate di stregoneria, che: «allo Sciliar era accaduto qualcosa di grosso, e di brutto. Qualcosa da cui il mondo non era ancora al sicuro. Allo Sciliar le idee sciagurate di pochi fanatici si erano trasformate, diffondendosi in una popolazione impoverita, terrorizzata e incattivita, in una bufera di odio e paranoia che aveva spazzato via la parte più indifesa della comunità: le donne che, per un motivo o per l’altro, non si erano integrate nel tessuto sociale dell’epoca. Succedeva ancora nel nostro mondo, nei nostri paesi civilizzatissimi. Non solo alle donne, anche se alle donne di più. E magari non finiva con un rogo, ma la sofferenza, l’umiliazione e la violenza rimanevano» (K. Tenti, E ti chiameranno strega, Neri Pozza, 2024, pag. 190).

Oggi quel massiccio, per i casi della Storia, si trova all’interno dei confini italiani, ed è un’amena località turistica. La valle che verso est gli si apre al di sotto, dà di sé un’immagine di opulenza; nulla rimanda alla misera vita di cinquecento anni fa. Eppure, fu così allora. Però l’Arianna di Katia Tenti ci dice ancora di più: è così anche adesso. Certo, non con il fuoco purificatore del tempo, ma è figlia della stessa mitopoiesi patriarcale l’idea che molti uomini hanno dei ruoli e delle colpe da attribuire ai sessi. Nel caso delle streghe dell’epoca, quel best seller ante litteram che fu il Malleus Maleficarum dei frati domenicani Kramer e Sprenger formulava i precetti e le prassi per schiacciare le malefiche, e si lasciava intendere, senza neanche nasconderlo poi così tanto, che esse tali lo fossero principalmente e proprio perché donne. Certo, si colpivano solo le minoranze più deboli ed emarginate; ma quando mai, una persecuzione, non è iniziata in quel modo? Nel tempo che viviamo, alle donne molti, troppi uomini spiegano come devono stare nel posto che essi, e solo loro, si sentono in diritto di assegnare.

Un ministro di questa Repubblica ha detto qualche giorno fa, per giunta intervenendo alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, che la lotta «contro il patriarcato» è figlia di «una visione ideologica» della realtà, e che l’aumento di fenomeni di violenza contro le donne «è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale». Sul tema del rapporto tra migrazione e violenza di genere usato in chiave elettorale (a parte la smentita nei dati), al titolato ha risposto come meglio non si poteva, e col dolore che le immagino nello scrivere, la sorella di Giulia, Elena, ricordando che proprio quella Fondazione «porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”». E inoltre, proprio quell’idea sottesa alle parole del ministro, ripresa da un po’ tutta la destra di governo, altro non è che un ulteriore aspetto del patriarcato, che vede le donne elementi deboli da proteggere, quasi cose al pari della roba o della patria, dagli elementi esterni alla comunità, al branco, mai dal branco stesso; e così, l’emigrazione letta come pericolo per l’incolumità della donna, facendo il verso alle peggiori brutture del periodo fascista, si pareggia con le uscite del Commander in chief dei maschi al potere dall’altro lato dell’Atlantico, sulle donne da proteggere «che lo vogliano o no».

È a una vittima della violenza maschile che è intitolata la Fondazione alla cui inaugurazione interveniva il ministro, definendo «ideologica» la lotta contro il precariato. E cos’altro è la volontà di dominio che emerge in tutti i casi di femminicidio, se non il frutto più amaro e velenoso di una visione del mondo in cui siano gli uomini, in via primaria se non esclusiva, a detenere diritto e potere su ogni aspetto della vita familiare e sociale, e su tutti coloro che ne fanno parte?

Il patriarcato e la mentalità a esso legata esistono tutt’ora. Nelle espressioni più violente che portano a conseguenze drammatiche, e nelle uscite che a volta ci paiono più leggere, innocue, addirittura muovendoci al riso. Non si erano ancora posate le parole del titolare del dicastero dell’Istruzione (perché poi di formazione parliamo), che un esponente del centrodestra umbro, commentando la vittoria della candidata di centrosinistra Eugenia Proietti, ha pensato bene di chiosare con un “battuta”, spiegando come, con lui candidato, lei «sarebbe a casa a lavare i piatti». No, non fa ridere perché non c’è nulla di divertente, ma solo l’espressione di un’antica pulsione patriarcale, appunto, che vuole le donne “al proprio posto”, senza disturbare e senza possibilità di cambiare l’ordine delle cose che ai maschi fa più comodo.

Ancora dal libro di Katia Tenti, con le parole che un altro protagonista, Martin, usa a cesello di alcune spiegazioni di Arianna sul come il Malleus Maleficarum trattasse più di una certa idea delle donne in genere che del demonio: «“Quindi è colpa vostra, sempre” rideva lui. “Conosco gente che una roba del genere se la tatuerebbe sul braccio”». Già, purtroppo credo che gente così la conosciamo tutti, e molti stanno persino in posti ben in vista e di comando, da cui possono influenzare e corrompere gli altri con le loro idee.

Per questo, checché ne dicano ministri e amministrati, è necessario continuare quella lotta.   

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Sulla lettura e su cosa rischiamo

Vent’anni fa, Tullio De Mauro pubblicò un agile saggio in forma di intervista (La cultura degli italiani, Ed. Laterza, a cura di Francesco Erbani, 2004) per spiegare dal suo colto punto di vista, tra le altre cose, in quale buco oscuro di conoscenza stavamo finendo. Qualche anno dopo, il compianto linguista, insieme al curatore di quel testo, ritornò sui temi trattati, ribadendo come, nel tempo, fosse «mancata una politica pubblica per un’adeguata istruzione secondaria e universitaria, per un sistema di apprendimento durante tutta la vita, per biblioteche e promozione della lettura» (Op. cit., edizione ampliata 2010, p. 266). È mancata, e manca ancora.

Quest’estate, Eurostat ha pubblicato i dati sulla lettura (ad esclusione di quanto relegato agli ambiti scolasti e lavorativi) derivanti dalle rilevazioni su un significativo campione di cittadini europei sopra i 16 anni di età, e aggiornati alla fine del 2022. A svettare, nell’Unione, sono i lussemburghesi, con il 75% degli intervistati che ha dichiarato di aver letto almeno un libro nell’anno. A seguire, danesi (72%), estoni (71%), svedesi e finlandesi (70%). E gli italiani? Al terz’ultimo posto, con uno striminzito il 35% di cittadini che ha letto appena un libro nell’anno, seguiti solamente dai ciprioti (33%) e dai rumeni (29%). In pratica, nel Belpaese che si vanta d’esser faro per la cultura mondiale, due cittadini su tre non leggono neanche un libro all’anno. Dovrebbe essere un’emergenza politica nazionale, smuovere menti, energie e risorse come si fece per eradicare l’analfabetismo, leggere e sentir parlare di ciò su ogni quotidiano, rivista o trasmissione televisiva in cui si affrontino temi politici e sociali. E invece, nulla: anche quest’ultimo report è passato sotto silenzio, se non per gli articoli di routine a commento del dato puramente statistico.  

Nei mesi scorsi, il Ministero della Cultura ha fatto parlare di sé, non si può negarlo; sui motivi, beh, lasciamo perdere. Forse per la mia mancanza di attenzione, però non ho letto notizie su programmi per provare a invertire quel trend. Che li abbia lanciati il Ministero dell’Istruzione? Pure qui, ammetto disattenzioni, ma ne dubito. D’altronde, quando a guidare un Paese c’è una classe dirigente che non ha idea della rotta o degli approdi in cui vuol portare il bastimento che conduce, non può che vedere come sabbia negli occhi chi prova a capirne di più; stimolando la lettura, proprio il numero di questi ultimi potrebbe aumentare.

E poi, insomma, è tutta la cultura in quanto tale a non andar bene ai manovratori del vapore (già, manovratori; perché si crederanno pur padroni, ma non lo sono, come i loro amici miliardari gli ricordano a ogni tweet, a cui possono soltanto “ripostare” le photo-opportunity che li vogliono insieme). E non va loro bene per il semplice motivo che non si piega alle narrazioni di rito. Al massimo possono tenerla in considerazione quale fronzolo con cui vendere altri prodotti, e quando si parla della sua promozione, la si intende sempre legata all’applicazione economica sul breve periodo, tipo la Venere del Botticelli assunta a influencer gastronomica, per dire.

Il problema rimane, continentale e incombente come le dimensioni che emergono dai dati in esame. E coinvolge tutti quelli che, in un modo o nell’altro, si occupano – o dovrebbero farlo – dell’argomento: politici a tutti i livelli, certo, ma anche insegnanti, formatori, operatori culturali e persino semplici appassionati di lettura e animatori di circoli letterari o di associazioni; per non rischiare di cadere nell’autoreferenzialità, come ammoniva lo stesso De Mauro nel libro citato, di una società dei letterati, tanto autorevole sul piano del prestigio sociale, quanto distante e distaccata dal paese reale.

Con i risultati che stiamo vedendo spiegarsi al meglio nel discorso pubblico (per tacere del dibattito politico, ovviamente).

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