Può un popolo per anni consenziente assolversi?

«Ma, dopo tutto, cos’era questo fascismo? Questa idea che avrebbe dovuto forgiare il secolo e si è invece dissolta nel giro di ventiquattro ore? Come ha potuto il re, dopo essersi professato suo unico amico, quell’ometto contorto e pavido cui lui aveva dato un impero, farlo arrestare sull’uscio di casa? Come hanno potuto i gerarchi, nullità a cui aveva dato tutto, revocargli il mandato nemmeno fosse un amministratore di condominio? Come ha potuto il popolo, che con lui si era pienamente identificato, maledire il suo nome dopo averlo venerato per vent’anni all’alba di tutte le mattine del mondo? E perché non c’è stata alcuna reazione? Fino a ieri in Italia c’erano milioni di fascisti tesserati al Partito, centinaia di migliaia di squadristi inquadrati nei ranghi della Milizia, decine di migliaia di suoi pretoriani dei battaglioni M. Eppure nessuno si è mosso. Nessuno. È uno sproposito che va oltre le leggi della fisica, un’azione violenta senza alcuna reazione – oltre ogni logica –, una civiltà che collassa senza fare rumore, si accartoccia su di sé con un gemito sordo – oltre ogni immaginazione –, una stella implosa nel silenzio siderale dei deserti cosmici. […] Un funzionario di polizia, di scorta durante la navigazione verso Ponza, glie ne ha rivelato sadicamente alcuni dettagli: Roma, la capitale che lui ha riscosso da secoli di decadenza, è imbandierata a festa; a Milano i rivenditori hanno rifiutato l’ultima edizione de Il Popolo d’Italia, che tributava un commosso saluto al Duce, poi gli operai sono saliti sul tetto della sede e, lettera dopo lettera, hanno divelto, incontrastati, la gigantesca insegna. Ovunque si strappano i galloni dalle divise della Milizia, si gettano i distintivi di Partito nelle fogne, si prendono a bastonate le statue con l’accanimento di una incolmabile sproporzione: il legno contro il bronzo, il legno contro la pietra, contro il marmo. Da ogni piazza le urla di giubilo salgono orbitali, le manifestazioni d’odio non si contano, i rancori sbracano in gesti grotteschi. Pare che ad Ancona qualcuno si sia preso la briga di trasportare un pesantissimo busto bronzeo di Benito Mussolini in un pisciatoio pubblico. […] Lui è politicamente defunto, il suo nome è bandito, i milioni di italiani che lo hanno glorificato fino a ieri, oggi lo detestano, maledicono il giorno in cui è nato. Lo odiano i vivi, i vivi e forse persino i morti».

Così Antonio Scurati, nel suo ultimo capitolo della pentalogia sul fondatore del fascismo, racconta i pensieri che assalgono Mussolini nei suoi giorni da confinato a Ponza, nel luglio del 1943, all’indomani della caduta del regime (A. Scurati, M. La fine e il principio, Bompiani, 2025, pp. 15-17). Ed è vero che, fino al giorno prima, o poco più, il consenso era granitico o quasi. Caduto il fascismo, nel ’43 e più ancora alla fine della guerra, nell’aprile del 1945, quanti dei sostenitori si scoprirono resistenti?

«Il visibile a acclarato consenso faceva aggio su tutto e tranquillizzava le coscienze. E il consenso non era semplicemente lo spettacolo delle adunate oceaniche, era anche la spontanea autocensura del giornalismo, la sempreverde, tacitiana “servitù spontanea”, la benedizione da parte della chiesa, l’ordine ristabilito e conclamato e apprezzato: a suo modo una ‘normalità’. Insomma un regime ‘rispettabile’ dotato persino di una fronda interna, di un brillantissimo conte ambasciatore d’Italia molto apprezzato dal Foreign Office (Dino Grandi), e di un para-intellettuale come Giuseppe Bottai protettore di riviste letterarie pervase ogni tanto da qualche critico frisson. E di sindacati finalmente “serî” e costruttivamente collaborativi, anzi corrivi. E di un fiorente e accorsatissimo “Dopolavoro”. E di tante altre “cose buone”, come ancora oggi molti benpensanti ripetono» (Luciano Canfora, Fermare l’odio, Laterza, 2019, p. 12).

In quelle parole, Canfora ricordava gli aspetti che piacevano tanto ai liberali, ai vari Croce, Einaudi e allo stesso Giolitti, che non disdegnavano, al principio dell’esperienza dei fasci di combattimento, di poter dare una mano per consentire al fascismo di farsi argine contro il pericolo del partito di Gramsci. E tra questi, non ultimo il consenso che il fascismo riusciva a mobilitare nelle masse e nei ceti popolari. Perché appunto il consenso c’era, e non solo negli anni migliori del regime, come spiegò, a suo tempo, un controverso De Felice. Ci fu fin da subito, e non ricordo indignazioni popolari eccessive alle notizie del farsi di un sistema che affermandosi, nelle sorti di Matteotti e di altri, si dimostrò per quel che era. Ci fu al suo apice, quando si festeggiava in piazza l’annuncio delle leggi razziali o l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. E ci fu perfino dopo quel luglio del ’43, quando la caduta era già tutta dispiegata ed evidente, se si pensa che, ancora nel dicembre del 1944, in molti tributarono onori e gloria al duce a Milano, in via Rovello. Tanti, quel giorno, come lo erano quelli che, pochi mesi dopo e a pochi metri da lì, in piazzale Loreto, dello stesso volevano ridurre in brandelli il corpo. E forse, erano pure gli stessi.

E consenso ci fu, per quanto più elegante, va detto, tra i colti e gli intellettuali, persino fra coloro che poi, come si è detto, si scoprirono antifascisti. Quanti furono i professori a non firmare il giuramento di fedeltà al fascismo? Quanti si protestarono indignati all’approvazione delle norme contro gli ebrei? Quanti devono esser stati pochi, se persino uno che mai recriminò verso chi faceva carriera mentre lui consumava la sua vita in prigione, come Vittorio Foa che ricordò (cfr. V. Foa, Passaggi, Einaudi, 2000, pp. 4-5) quanto «non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza»?

Alla fine, e a alla vigilia dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, mi chiedo se, e come, quel popolo — e questo che gli è erede, senza aver mai fatto i conti fino in fondo con le responsabilità e le colpe di storia — potette assolversi in pochi giorni o mesi dai due decenni precedenti e da quanto in quelli accadde.

Tempo perso, il mio? Probabilmente sì. Ma mi serve anche per ricordare che il consenso non basta, a far democrazia.

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Frontiere a pagamento

«Now Jonah’s Captain, shipmates, was one whose discernment detects crime in any, but whose cupidity exposes it only in the penniless. In this world, shipmates, sin that pays its way can travel freely, and without a passport; whereas Virtue, if a pauper, is stopped at all frontiers».

Nella traduzione di Cesare Pavese:

«Ora, compagni, il capitano di Giona era uno di quegli uomini sagaci che capiscono subito se uno è colpevole ma per la loro cupidigia denunciano solo i poveri. Su questa terra, compagni, il peccato che paga può andare in ogni luogo e senza passaporti, mentre la Virtù, se è povera, viene fermate a tutte le frontiere!» (H. Melville, Moby Dick, Adelphi, 1987, p. 78).

Quelle parole, Herman Melville le mette nel sermone di Padre Mapple che, la domenica prima di raggiungere Nantucket da cui salperà a bordo del Pequod, Ismaele ascolta nella Cappella del Baleniere di New Bedford. Come tanti altri classici, Moby Dick è uno spaccato sul mondo. E in quanto tale, spaccato sul mondo e classico, molte delle cose che dice sono valide al di là dei tempi e oltre i luoghi. Così, oggi come ieri, la miseria, persino se virtuoso è chi la porta, è fermata a tutte le dogane, mentre la ricchezza, anche se frutto del peccato e del delitto, ha libero accesso in ogni dove. La prova? Ieri Trump, il campione del respingimento dei poveri alle sue frontiere, indipendentemente dai loro demeriti, ha presentato la sua gold card per la residenza negli Usa: 5 milioni di euro e si ottiene il visto permanente e il percorso facilitato verso la cittadinanza. Faranno accurate indagini sull’origine delle ricchezze di chi paga? Pecunia non olet, potrebbe postare The Donald, se mai conoscesse il latino.

È il sogno americano a infrangersi sulle politiche del tycoon alla Casa Bianca, probabilmente lo stesso dei suoi nonni, tutti e quattro nati in Europa ed emigrati in America, situazione che farebbe di lui appena un immigrato di terza generazione (e forse neppure cittadino statunitense, senza quello ius soli che fece di suo padre un americano e che lui vorrebbe togliere per altri), se qualcuno avesse voglia di fargli i conti nell’albero genealogico.

D’altronde, non è una novità; negli States, gli investitori danarosi, attraverso il programma EB-5, potevano ottenere la Green card semplicemente investendo un milione di euro in alcuni fondi per lo sviluppo gestiti dal governo. A mutare è l’approccio; nel mentre si scacciano i poveri che cercano una vita dignitosa, ci si appresta ad accogliere in tripudio i ricchi, con tanto di Trump card effigiata in oro.

Sarei curioso di sapere cosa ne pensano i tanti che hanno votato per lui dicendolo «dalla parte del popolo», difronte a tutto questo e in vista di un aumento dei prezzi per effetto della sua politica di dazi che difficilmente sarà compensato da altrettante salite nei salari. Ma temo di conoscere già le possibili risposte e i loro sentimenti. Nel suo bel romanzo distopico, pubblicato nel 1935, in cui si immagina la vittoria nelle elezioni americane del ’36 di un emulo di Mussolini e Hitler, il personaggio letterario di Buzz Windrip, e l’instaurazione di una dittatura, Sinclair Lewis scriveva:

«Serpeggiava un certo malcontento fra persone che un tempo avevano posseduto automobili e stanze da bagno, e mangiato carne due volte al giorno, nel dover camminare quotidianamente quindici o trenta chilometri, fare il bagno una volta alla settimana in un lungo abbeveratoio insieme ad altri cinquanta individui, pasteggiare con carne solo due volte alla settimana – quando andava bene – e dormire in letti a castello, un centinaio per stanza. Eppure ci furono meno episodi di ribellione rispetto a ciò che un mero razionalista come Walt Trowbridge – il rivale di Windrip, sconfitto in modo ridicolo – si sarebbe aspettato, poiché ogni sera l’altoparlante recava agli operai le preziose voci di Windrip e di Sarason, del vicepresidente Beecroft, del segretario della Guerra Luthorne, del segretario dell’Istruzione e della Propaganda Macgoblin, del generale Coon, o di qualche altro genio. E questi dei dell’Olimpo, rivolgendosi ai reietti più sporchi e più stanchi come se parlassero ad amici intimi, dicevano loro che avevano l’onore di essere le pietre angolari di una Nuova Civiltà, l’avanguardia di un movimento che avrebbe conquistato il mondo intero. E quelli, come i soldati di Napoleone, ci credevano.

E comunque avevano gli ebrei e i neri da guardare con disprezzo, ogni giorno di più. A questo badavano gli MM (i “Minute Men”, il braccio armato del presidente, organizzati come le camicie brune o nere dall’altra parte dell’Atlantico, n.d.r.). Ognuno è re, finché può guardare qualcun altro dall’alto in basso» (S. Lewis, Qui non può succedere, Chiarelettere, 2024, p. 173).

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Il silenzio è complicità

Scrive Jonathan Blitzer sul New Yorker, a proposito delle disumane politiche in tema di immigrazione annunciate e lanciate dall’amministrazione Trump: «The only way to counteract such maneuvers is to call them out – something that the Democrats have yet to do. The President spoke publicly about the Guantánamo plan at a press conference where he signed the first law of his second term: the Laken Riley Act, named for a Georgia nursing student murdered by an undocumented Venezuelan immigrant last year. The law, which requires the detention of any undocumented person charged with a misdemeanor, such as shoplifting or minor theft, passed with bipartisan votes. Congressional Democrats and their staffs say privately that, on immigration issues, the voters “have spoken.” Trump’s promise to execute mass deportations may have helped him win, but it’s one thing for Americans to support a slogan and quite another for them to face up to the human consequences. If Democrats don’t look away, maybe the public won’t, either».

Permettendomi la traduzione, dice: «L’unico modo per contrastare tali manovre è denunciarle – qualcosa che i Democratici non hanno ancora fatto. Il Presidente ha parlato pubblicamente del piano su Guantánamo durante una conferenza stampa in cui ha firmato la prima legge del suo secondo mandato: il Laken Riley Act, intitolato a una studentessa di infermieristica della Georgia assassinata lo scorso anno da un immigrato venezuelano senza documenti. La legge, che impone la detenzione di qualsiasi persona senza documenti accusata di un reato minore, come taccheggio o furto di lieve entità, è stata approvata con voti bipartisan. I Democratici al Congresso e i loro staff affermano in privato che, per quanto riguarda l’immigrazione, gli elettori “hanno parlato”. La promessa di Trump di eseguire deportazioni di massa potrebbe averlo aiutato a vincere, ma una cosa è sostenere uno slogan, un’altra è affrontare le conseguenze umane. Se i Democratici non distoglieranno lo sguardo, forse nemmeno l’opinione pubblica lo farà». Era il senso del messaggio della vescova Mariann Budde, nel suo sermone dopo la cerimonia d’insediamento di Trump e come lei stessa, pochi giorni dopo, spiegava al Nyt: «I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Proprio su questa orribile piega, non si può e non si deve tacere.

A stupire, come nota Blitzer, è il silenzio dem. Trump immagina i suoi States come una fortezza assediata, i cui confini devono essere ermeticamente chiusi, perché chiunque li attraversi può essere un problema e una minaccia. Su questa visione, è vero, ha vinto le elezioni. Ma i Democratici che gli si oppongono, su questo, tacciono o, peggio, non sono propriamente contrari. Tutti, anche i più radicali nel contrastarlo sul resto.

«Our God teaches us that we are to be merciful to the stranger, for we were once strangers in this land», aveva detto la vescova Budde guardando negli occhi il Commander in Chief; e non credo che quel Dio distinguesse in base ai documenti posseduti nel momento di attraversare quella linea tracciata dagli uomini e che chiamano confine. «Give me your tired, your poor,/ Your huddled masses yearning to breathe free,/ The wretched refuse of your teeming shore./ Send these, the homeless, tempest-tost to me,/ I lift my lamp beside the golden door!», dice il Colosso di Emma Lazarus, nella poesia riportata sul basamento della Statua della Libertà.

Noi non possiamo tacere.

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Della libertà e dei suoi affanni

Scrive nel prologo del suo recente saggio Ilko-Sascha Kowalczuk: «gran parte dei tedeschi dell’Est ha subito uno “shock da libertà” allorché si è trattato di prendere controllo delle proprie azioni e di definire il cammino da percorrere. […] In effetti, la maggior parte di loro confondeva il benessere materiale con la libertà […]. Il benessere materiale rende molte cose più facili, ma non rende le persone più libere né è un prerequisito per la libertà. Lo “shock da libertà” di molti tedeschi dell’Est derivava da considerare la libertà come una conseguenza del benessere materiale, della democrazia e dello Stato di diritto. Le “idee del 1989” erano idee di libertà, idee che troppo raramente nel corso della storia sono state capaci di ottenere il consenso della maggioranza. La libertà non è qualcosa che una volta data esiste per sempre. Ogni generazione, a patto che le vengano garantite le condizioni per vivere in libertà e in democrazia, deve acquisire di nuovo una pratica con essa» (I.-S. Kowalczuk, Shock da libertà. La Germania, l’Est e l’ascesa dell’estremismo, Donzelli editore, 2025, pag. 7).

Il volume dello storico tedesco è incentrato sul fenomeno della crescita, negli ultimi anni, dei movimenti estremisti nell’ex Ddr, ma l’approccio umano al tema della libertà vale per i tedeschi dell’Est come per gli uomini in generale. E mi ha fatto tornare in mente, in quel suo passaggio sulla confusione tra libertà e benessere materiale, le parole del carbonaio che concludono la novella verghiana Libertà, ispirata ai fatti di Bronte durante la spedizione dei Mille. Spinta dalla promessa di distribuzione della terra echeggiata in quella temperie, la folla della cittadina siciliana dà l’assalto ai ricchi e alle loro proprietà. Quando, con l’arrivo di Brixio in paese, viene d’autorità ristabilito l’ordine e comminate le pene, sommarie, per gli assalti, anche al carbonaio tocca il conto con la giustizia degli uomini, e «mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…». (Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle, Mondadori, 2004, vol I, p. 25).

C’è il dato materiale, certo, sia nella confusione dell’oggi di cui parla Kowalczuk, sia nelle parole della folla di cui narra Verga. E c’è, ieri come adesso, la coscienza di quanto sia più facile non dover scegliere. Sempre Kowalczuk fa iniziare quel suo saggio con le parole di un romanzo di Hans Fallada:

«La prima giornata emozionante con il suo andirivieni, con la presentazione, la vestizione, l’assegnazione è finita, la reclusione è completata, e Kufalt siede solo sul letto della cella 207.

I soliti, familiari rumori serali riecheggiano ancora nella prigione: un letto sbatte sul pavimento, qualcuno fischietta nella sua cella e il suo vicino protesta con un ruggito, due persone parlano da una finestra all’altra al piano sottostante, il coperchio di un secchio tintinna, un cane da guardia ulula nel cortile.

Kufalt sta bene, Kufalt è soddisfatto. Ha una bella cella, il materiale è impeccabile, le spazzole sono come nuove […]. All’inizio non si può essere troppo impertinenti, con il tempo s’impara dove si può rischiare […]. Ma è meglio qui che fuori […]. Kufalt si è tirato la coperta fin sulle spalle, in gattabuia c’è un bel silenzio, dormirà benissimo.

È bello essere di nuovo a casa così, senza più preoccupazioni.

Quasi come quando tornavi a casa con tuo padre da tua madre.

Quasi?

Anche meglio, in realtà. Qui c’è pace e tranquillità. Qui nessuno ti parla. Qui non devi decidere nulla, non devi compiere alcuno sforzo.

È bello sentirsi così. Sono davvero a casa.

E Willi Kufalt si addormentò dolcemente, sorridendo sereno».

(H. Fallada, Wer einmal au dem Blechnapf frißt, Aufblau-Verlag, 1967, pp. 540-543, qui in I.-S. Kowalcczuk, op. cit., pp. 5-6)

Volendo essere meno rigidi, e quindi lontani dai possibili universi carcerari, si può usare uno spot, per capire come quei sentimenti, quella tranquillità del non dover scegliere siano ancora attuale. Dopotutto, ce lo insegnò Pasolini quanto una pubblicità può essere indicativa dello zeitgeist, allorché vide nella reclame di una marca di jeans la rinuncia della moralità cristiana all’avanzata del consumismo amorale. Nondimeno, in una pubblicità d’una nota azienda telefonica di pochi anni fa, un altrettanto noto volto televisivo spiegava perfettamente il senso ultimo di quest’epoca. Dopo aver elencato i tanti prodotti connessi all’offerta, il testimonial diceva: «Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?».

Ascoltando parole come queste, è difficile non pensare a quelle che il Grande Inquisitore di Dostoevskij rivolge al Cristo che ritorna sulla terra: «Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che essi [gli uomini, nda], nella loro semplicità e innata sregolatezza, non possono nemmeno concepire, una libertà che temono e paventano, giacché non c’è mai stato nulla di più insopportabile, per l’uomo e per la società umana, della libertà» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamzov, Garzanti, 2019, vol. I, pp. 350).

Non dover scegliere è davvero magnifico? Non credo. Però è comodo e può essere, in un contesto di sicurezza materiale, appagante, quello sì; è il dubbio a essere pesante, spesso difficile, a volte addirittura insostenibile per le spalle non abituate. La tranquilla certezza di non dover decidere rende invece felici i devoti di Ananke, la dea greca della necessità: così è perché così dev’essere, e a noi lasciateci in pace, rifocillati e tranquilli.

Dopotutto, lo sappiamo, la libertà è scomoda, e spesso la servitù è volontaria, come ci spiegò La Boétie (cfr. É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, 2015); se poi a questa si può unire qualche bonus e un po’ di garantito benessere, perché non sentirsene compiaciuti? Da tempo i più rivoluzionari hanno messo da parte le armi, quando hanno scoperto che nessuno voleva la rivoluzione, ma al massimo l’aumento salariale. La libertà, nel nostro tempo e nel nostro mondo, è tutt’al più la libera facoltà di accaparrarsi “la roba”, appunto, come quei rivoltosi “rusticani” di Verga a cui sopra si accennava.

E quella facoltà di scegliere, di disegnare da sé il proprio futuro, di definire contesti diversi? Ma chi la vuole! Qui ci bastano le cose che possiamo contare e contenere, e una tariffa all inclusive che le contabilizzi e le contenga tutte. Così, infinite possibilità si riducono a una sola rinuncia: quella libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?

Così camminando tutti noi da sempre, l’ultimo uomo adombrato dallo Zarathustra di Nietzsche, che «non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare» (F.W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, tomo I, Adeplhi, 1973, pag. 11), è sempre più vicino.

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Una piazza contraddittoria; ma è davvero un male?

La piazza di sabato, o meglio le piazze, visto che le manifestazione per l’Europa si sono tenute in molte località, sono state tante tante cose. Diverse, sicuramente in sé stesse. Opposte, nella visione dei critici. Di certo contraddittorie, nella loro precisa impostazione. Ma è poi davvero un male, questa loro apparente e manifesta incoerenza interna?

Insomma, se quelle manifestazioni le avessimo analizzate secondo le categorie che usavamo fino a qualche decennio fa, almeno nella loro genesi le avremmo definite iniziative della “società civile”. Ne abbiamo viste altre, negli anni passati, con ambizioni più o meno elevate di quella presente, comunque con incongruenze accentuate o solo accennate, presenti in ogni caso. Dopotutto, per quanto civile, è pur sempre una società quella che li immagina. Manca una piattaforma condivisa fin nei particolari? Sì. C’è confusione fra le strategie per arrivare all’obiettivo comune? Forse. Però, quest’ultimo è definito – la richiesta di un rafforzamento dell’Unione Europea, in chiave federalista, fino all’idea degli Stati Uniti d’Europa –, al di là delle differenti strategie e delle piattaforme politiche. Ingenua, magari, e sostenuta da un discorso non sempre coerente, nelle componenti che lo animano; «Ma chi, chi ha mai detto che una spinta nuova può nascere già tutta compiuta, quasi in bella copia? […] solo i pedanti possono stupirsi se ci sono tutt’ora delle lacune, delle improvvisazioni, delle sgrammaticature» (Pietro Ingrao, 4 marzo 1983, XVI congresso del Pci).

Civile o meno che la si voglia, una società ha poi in sé una diversità di posizioni e idee su come raggiungere gli obiettivi finali, persino quando questi sono identificati all’interno di un orizzonte di consenso condiviso. Pur cercando di star qui lontani dalla dicotomia “Gemeinschaft vs Gesellschaft”, va detto che un programma politico più concreto e coerente lo si trova in una comunità politica, ma che non è e non era questo quella che è scesa in piazza sabato.

Era ed è una società, con tutte le contraddizioni che in essa ci possono essere. Per questo facilmente attaccabile dai detrattori e in ciò probabilmente più debole nel veicolare il messaggio, laddove una comune voce unisona e un tetragono impianto ideologico comune nelle parole di tutti i partecipanti fin nel minimo dettaglio avrebbe ottenuto risultati più immediati e d’impatto. «Ma è male fermarsi, difficile contentarsi di un solo modo di vedere, privarsi della contraddizione, che è forse la più sottile delle forze dello spirito» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, 2000, p. 258).

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Per non cedere alla “sindrome di Fermor”

Oscar Wilde traccia un personaggio particolarissimo, nel suo Dorian Gray, in appena un paio di pagine. Si tratta di Lord George Fermor, zio del ben più presente Lord Henry Wotton, del quale accenna, curiosamente, anche alle sue idee politiche. Di queste scrive: «In politics he was a Tory, except when the Tories were in office, during which period he roundly abused them for being a pack of Radical» (O. Wilde, The picture of Dorian Gray, chapter 3).

Categoria nota, quella dei “Fermor”, ma più che ai conservatori, spesso applicabile a riformisti e progressisti. Ora però il tema che si pone è di natura diversa. Per le sfide politiche che si hanno davanti, e per gli uomini e le idee con cui tocca confrontarsi, in non pochi hanno parlato di ritorno del fascismo quale avversario. Bene: allora serve un CLN. E una cosa così, la costruisci senza fare l’analisi del sangue a tutti i possibili alleati, per cercare (e facilmente trovare) motivi di esclusione reciproca. In questo modo, quelli vincono. E se diciamo che sono fascisti, non possiamo andare in contro a questa eventualità come se nulla fosse.

Anche perché, di cosiddetti scheletri nell’armadio ne hanno tutti: chi ha votato il jobs act, quelli che han sostenuto i “decreti sicurezza”, quanti fino a ieri proprio da quella parte da cui giunge il pericolo più nero guardavano con interesse e intenzione. Il punto è che cosa facciamo oggi per il domani. Ed è un punto non evitabile attraverso formule di rito, discussioni infinite, puntualizzazione delle innumerevoli differenze e diversità.

Salvo scoprire poi che è troppo tardi per evitare il peggio.

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Donna


Sei attesa e tempesta,
silenzio che sa farsi voce.

Ti vogliono forte, ma non troppo,
libera, ma dentro confini invisibili.

Madre, figlia, sorella, compagna;
il tuo nome non è tra ruoli imposti.

Porti il peso di sguardi antichi,
eppure continui a camminare.

Ogni passo è un seme
che rompe l’asfalto.

Non chiedi il permesso,
sei già il domani.


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E dopo, cosa c’è?

«I know the history intimately — and have spent more time than probably anyone in this room with people who survived the Holocaust. Here’s what I’ve learned – the root that tears apart your house’s foundation begins as a seed – a seed of distrust and hate and blame. The seed that grew into a dictatorship in Europe a lifetime ago didn’t arrive overnight. It started with everyday Germans mad about inflation and looking for someone to blame. I’m watching with a foreboding dread what is happening in our country right now. A president who watches a plane go down in the Potomac – and suggests — without facts or findings — that a diversity hire is responsible for the crash. Or the Missouri Attorney General who just sued Starbucks – arguing that consumers pay higher prices for their coffee because the baristas are too “female” and “nonwhite.” The authoritarian playbook is laid bare here: They point to a group of people who don’t look like you and tell you to blame them for your problems. I just have one question: What comes next? After we’ve discriminated against, deported or disparaged all the immigrants and the gay and lesbian and transgender people, the developmentally disabled, the women and the minorities – once we’ve ostracized our neighbors and betrayed our friends – After that, when the problems we started with are still there staring us in the face – what comes next. All the atrocities of human history lurk in the answer to that question. And if we don’t want to repeat history – then for God’s sake in this moment we better be strong enough to learn from it».

Così il Governatore dell’Illinois Jay Robert Pritzker, nato in una famiglia ebrea, pertanto, come ricorda, avvezzo alla memoria degli anni più bui della storia d’Europa, pochi giorni fa nel suo discorso d’indirizzo e sulla situazione dello Stato che guida. Cosa c’è, dopo? Dopo che avremo incolpato tutte le minoranze per i problemi che quotidianamente viviamo, e anche per quelli che immaginiamo? Dopo che li avremo discriminati ed emarginati, e i problemi denunciati saranno ancora tutti lì, cosa accadrà? Cosa faremo? «Tutte le atrocità della storia umana si nascondono nella risposta a questa domanda. E se non vogliamo ripetere la storia, allora per l’amor di Dio in questo momento è meglio essere abbastanza forti da imparare da essa». Lo siamo, lo saremo?

Gli echi della storia di cui parla Pritzker si sentono minacciosi, e la cosa non può far stare sereni. E sinceramente, i molti potrebbero non essere abbastanza forti per ciò a cui egli chiama, o semplicemente non sentirne l’esigenza. Soprattutto, si vedono al governo degli Stati soggetti politici e persone poco avvezzi alla riflessione in tal senso, per nulla inclini a sostenere il peso di quella necessità storica che chiama all’attenzione, alla vigilanza. Tutti gli altri, fossero anche i pochi, sono però chiamati al ruolo a cui il Governatore pensava.

Con le parole di Nicola Chiaromonte: «è ai pochi, capaci di riflessione, in fin dei conti, che è affidato non già il potere, ma la responsabilità dell’esistenza civile».

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Il rischio del nazionalismo

Scriveva Simone Weil, in un articolo apparso su L’École émancipée il 5 febbraio del 1933: «il partito comunista tedesco è giunto a mettersi al rimorchio del movimento hitleriano sul terreno della propaganda nazionalista. Esso ha accordato ampio spazio, e talvolta, particolarmente in periodo elettorale, il primo posto, alle rivendicazioni nazionaliste, alla lotta contro il sistema di Versailles, alla parola d’ordine “liberazione nazionale”. In occasione delle elezioni del 31 luglio, ha accusato i social-democratici di tradimento, non solo verso la classe operaia, ma verso il paese (Landesverräter). Di più, ha pubblicato come opuscolo di propaganda, e senza commento, la raccolta di lettere in cui l’ufficiale Scheringer spiega di aver abbandonato il nazionalsocialismo per il comunismo, perché il comunismo, grazie alle prospettive di alleanza militare con la Russia che comporta, è più adatto a servire gli interessi nazionali della Germania […]. Che pensare di un partito rivoluzionario il cui Comitato Centrale ha detto in un appello lanciato in vista delle elezioni del 6 novembre: “Le catene di Versailles gravano sempre più pesantemente sugli operai tedeschi”? Sono dunque le catene di Versailles che il proletariato tedesco dovrebbe spezzare e non quelle del capitalismo? Il Comitato Centrale può poi anche aggiungere che solo una Germania socialista è in grado di spezzare le catene di Versailles, nondimeno la sua formula rappresenta un prezioso aiuto per i demagoghi hitleriani, i quali cercano innanzitutto di persuadere gli operai che la loro miseria è dovuta al trattato di Versailles, e non al fatto che tutta la produzione è subordinata al profitto capitalista. In generale, la borghesia di ogni paese si sforza sempre, nei momenti di crisi, di volgere il malcontento delle masse operaie e contadine contro i paesi stranieri, evitando così di doverne rispondere essa stessa. In Germania, il partito comunista si è associato pubblicamente a questa manovra a dispetto della grande sentenza di Liebknecht: “Il nemico principale è in casa nostra”». (L’articolo fa parte di una serie di dieci in cui la filosofa e attivista descriveva la situazione politica in Germania alla vigilia della piena presa di poteri da parte di Hitler, ripubblicati come unico saggio all’interno nelle opere complete dell’autrice dall’editore Gallimard nel 1988 – t. II, vol. 1, pp.141-191 –, qui da S. Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, 1990, pp. 113-115).

Leggere quelle parole e provare a sostituire Bruxelles con Versailles, rischia di chiudere lo stomaco per il parallelo che si disegna quasi in automatico fra tutto quello di cui la Weil fu testimone nel suo soggiorno berlinese e gli anni che, immediatamente dopo, spinsero l’Europa nell’abisso più nero in cui poter cadere. I paragoni immediati tra il passato e il presente hanno sempre il vizio della superficialità, ma dobbiamo tuttavia porci la domanda più difficile: è tanto diverso quel che accadde da quanto vediamo? Non è forse anche nelle dichiarazioni dell’attualità che si sente, pure da sinistra, l’attribuzione di colpe oltre confine (o alle minoranze escluse dalla cittadinanza; e qui, il paragone col tempo in cui scriveva la pensatrice francese, fa ancor più rabbrividire) per situazioni interne che han responsabili ben più vicini? Non cade ancora oggi in quel tranello, chi parte per difendere gli interessi degli sfruttati dal sistema e finisce per consegnarli alla versione più comoda per le classi dominanti?

Sembrano parole del secolo che fu, lo so; ma ne sento altre arrivare dalle stesse pagine che credevamo definitivamente consegnate alla storia, e mi chiedo se non si debbano ripercorrere le analisi più lucide e attente, come quelle della Weil, appunto, per evitare di ripercorrere atrocemente gli stessi passi. Sui quali si inizia a camminare nuovamente, non appena al conflitto tra interessi di parti distinte in una società si sovrascrive quello fra queste immaginate coincidenti nell’unico alveo della “nazione” e altre, con le stesse dinamiche e contrasti interni, ma situate al di fuori di questa e, per ciò stesso, concorrenti e avverse, nemiche.

Ancor più visti gli scenari elettorali e post che davanti ci si parano.

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C’era una volta una scuola…

Avevo accennato in un post precedente alle parole del ministro Valditara sui programmi governativi per la riforma della scuola (l’ennesima). E come sempre, in quelle uscite c’è un po’ di tutto. A balzare all’onore delle cronache sono state alcune idee: il latino facoltativamente inseribile fin dalle medie, le poesie a memoria, la Bibbia e l’epica, sia classica che nordica (credo che pensino più a Tolkien che a Snorri, ma questa è forse una mia malignità; probabilmente hanno in mente Harry Potter e Atreju).

Nemmeno questa volta voglio entrare nel merito delle singole proposte (anche perché, finché non c’è un testo di legge vero e proprio, non si capisce di cosa si stia parlando). M’interessa, quello sì, il tono della questione. Nei fatti, nelle dichiarazioni del ministro, si legge in controluce quello che spesso si ritrova nelle uscite di tanti che han finito le scuole da tanto: «un tempo sì che la scuola insegnava qualcosa, non come ora…», eccetera, eccetera, a seconda delle personali inclinazioni. La scuola di allora; un mito. E come tale, una favola, appunto. Un terzo degli italiani adulti, ci dice l’Ocse, rientra nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”; sono sì capaci di leggere e scrivere, ma con difficoltà, in molti casi gravissime, nel comprendere o utilizzare le informazioni che leggono, capiscono frasi brevi o testi semplici, ma si perdono davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Tutti loro, a scuola ci sono andati venti, trenta o quarant’anni fa: a quella “scuola di una volta” di cui raccontano mirabilia, precisamente.

Potremmo aggiungere altri dati, a corredo di questo, ricordando come i due terzi degli adulti italiani non prendano in mano nemmeno un libro all’anno, e di questi, la stragrande maggioranza è concentrata nelle fasce di età dai trent’anni in su, o di quanto alta sia stata e sia nelle loro mani la, se non altro per questioni anagrafiche e numeriche, la responsabilità dell’aver dato al Paese la peggiore classe politica della storia repubblicana.

Eppure, agli italiani medi, piacciono le affermazioni di Valditara e di quelli come lui; perché? Beh, un’idea credo di essermela fatta: perché siamo un popolo vecchio, che nella nostra nostalgia delle cose d’un tempo riversiamo il dolore per l’ormai andata giovinezza (sì, il termine è quello giusto) e nascondiamo la paura per il mondo che è e che sarà. Non c’entrano le poesie da ricordare (provate a chiederne una che non sia il San Martino del Carducci, agli apologeti della memoria) o il latino da imparare fin dall’infanzia (“ad” più l’accusativo, regge il complemento di moto a luogo? Ad rivum eundem…), c’entra lo smarrimento che proviamo al cospetto del futuro che ci si disegna davanti.

Proprio sul latino, due interventi mi hanno colpito, a seguito delle parole di Valditara. Il primo, ammetto, più per l’ironia insita nelle sue parole e – spero – non colta dallo stesso autore. Per rispondere alle perplessità di chi vede nella lingua di Cicerone un idioma non più annoverabile tra le cose dei vivi, Andrea Balbo, il latinista coinvolto proprio dal ministro nella sua idea di riportarne lo studio alle medie, ha professoralmente asserito: «io non direi che è morta, è silente. È possibile riscontrarla anche nel nostro quotidiano: a Torino, ad esempio, sono presenti numerose lapidi». Le lapidi, che stanno appunto a ricordare ai vivi quel che è stato e non è più.

La seconda, di Paola Mastrocola – incidentalmente: sia l’uno che l’altra immaginano un percorso di insegnamento del latino pure per i migranti. Magari, aggiungo io con una dose di perfidia non insuperabile dai tempi che viviamo, per subordinarne all’apprendimento l’acquisizione della piena cittadinanza, in quella corsa a ostacoli con penalità che tutte le volte complichiamo per l’accesso degli altri ai quei diritti che invece, per noi, diamo per insindacabilmente acquisiti. La scrittrice torinese, all’intervistatore che provocatoriamente le chiede a cosa serva tradurre Catullo nell’epoca di ChatGPT, risponde: «Tradurli rappresenterà ancora il nostro antidoto, un’incredibile palestra per la mente, proprio perché ce la dovremo vedere col digitale».

Eccolo lì, il noi contro loro, con i nostri alleati in opposizione alle loro armi: carme versus algoritmo, il passato nel suo elemento più simbolicamente umano, la lingua usata, per resistere al nuovo che si vuole alieno e ostile solo perché differente da ciò che già si conosce, la sfida che non c’è (pur sempre di linguaggi parliamo, poetici o di programmazione), ma si narra sempre fatale e si desidererebbe portare sul terreno e nelle regole note per poterla vincere.

O almeno per ringiovanire nel mostrarsi pronti all’epica battaglia.

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