Avevo accennato in un post precedente alle parole del ministro Valditara sui programmi governativi per la riforma della scuola (l’ennesima). E come sempre, in quelle uscite c’è un po’ di tutto. A balzare all’onore delle cronache sono state alcune idee: il latino facoltativamente inseribile fin dalle medie, le poesie a memoria, la Bibbia e l’epica, sia classica che nordica (credo che pensino più a Tolkien che a Snorri, ma questa è forse una mia malignità; probabilmente hanno in mente Harry Potter e Atreju).
Nemmeno questa volta voglio entrare nel merito delle singole proposte (anche perché, finché non c’è un testo di legge vero e proprio, non si capisce di cosa si stia parlando). M’interessa, quello sì, il tono della questione. Nei fatti, nelle dichiarazioni del ministro, si legge in controluce quello che spesso si ritrova nelle uscite di tanti che han finito le scuole da tanto: «un tempo sì che la scuola insegnava qualcosa, non come ora…», eccetera, eccetera, a seconda delle personali inclinazioni. La scuola di allora; un mito. E come tale, una favola, appunto. Un terzo degli italiani adulti, ci dice l’Ocse, rientra nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”; sono sì capaci di leggere e scrivere, ma con difficoltà, in molti casi gravissime, nel comprendere o utilizzare le informazioni che leggono, capiscono frasi brevi o testi semplici, ma si perdono davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Tutti loro, a scuola ci sono andati venti, trenta o quarant’anni fa: a quella “scuola di una volta” di cui raccontano mirabilia, precisamente.
Potremmo aggiungere altri dati, a corredo di questo, ricordando come i due terzi degli adulti italiani non prendano in mano nemmeno un libro all’anno, e di questi, la stragrande maggioranza è concentrata nelle fasce di età dai trent’anni in su, o di quanto alta sia stata e sia nelle loro mani la, se non altro per questioni anagrafiche e numeriche, la responsabilità dell’aver dato al Paese la peggiore classe politica della storia repubblicana.
Eppure, agli italiani medi, piacciono le affermazioni di Valditara e di quelli come lui; perché? Beh, un’idea credo di essermela fatta: perché siamo un popolo vecchio, che nella nostra nostalgia delle cose d’un tempo riversiamo il dolore per l’ormai andata giovinezza (sì, il termine è quello giusto) e nascondiamo la paura per il mondo che è e che sarà. Non c’entrano le poesie da ricordare (provate a chiederne una che non sia il San Martino del Carducci, agli apologeti della memoria) o il latino da imparare fin dall’infanzia (“ad” più l’accusativo, regge il complemento di moto a luogo? Ad rivum eundem…), c’entra lo smarrimento che proviamo al cospetto del futuro che ci si disegna davanti.
Proprio sul latino, due interventi mi hanno colpito, a seguito delle parole di Valditara. Il primo, ammetto, più per l’ironia insita nelle sue parole e – spero – non colta dallo stesso autore. Per rispondere alle perplessità di chi vede nella lingua di Cicerone un idioma non più annoverabile tra le cose dei vivi, Andrea Balbo, il latinista coinvolto proprio dal ministro nella sua idea di riportarne lo studio alle medie, ha professoralmente asserito: «io non direi che è morta, è silente. È possibile riscontrarla anche nel nostro quotidiano: a Torino, ad esempio, sono presenti numerose lapidi». Le lapidi, che stanno appunto a ricordare ai vivi quel che è stato e non è più.
La seconda, di Paola Mastrocola – incidentalmente: sia l’uno che l’altra immaginano un percorso di insegnamento del latino pure per i migranti. Magari, aggiungo io con una dose di perfidia non insuperabile dai tempi che viviamo, per subordinarne all’apprendimento l’acquisizione della piena cittadinanza, in quella corsa a ostacoli con penalità che tutte le volte complichiamo per l’accesso degli altri ai quei diritti che invece, per noi, diamo per insindacabilmente acquisiti. La scrittrice torinese, all’intervistatore che provocatoriamente le chiede a cosa serva tradurre Catullo nell’epoca di ChatGPT, risponde: «Tradurli rappresenterà ancora il nostro antidoto, un’incredibile palestra per la mente, proprio perché ce la dovremo vedere col digitale».
Eccolo lì, il noi contro loro, con i nostri alleati in opposizione alle loro armi: carme versus algoritmo, il passato nel suo elemento più simbolicamente umano, la lingua usata, per resistere al nuovo che si vuole alieno e ostile solo perché differente da ciò che già si conosce, la sfida che non c’è (pur sempre di linguaggi parliamo, poetici o di programmazione), ma si narra sempre fatale e si desidererebbe portare sul terreno e nelle regole note per poterla vincere.
O almeno per ringiovanire nel mostrarsi pronti all’epica battaglia.