«Cinquantacinque abitanti, ventidue strutture ricettive, 21mila presenze turistiche nel 2023, una sola bimba in età scolare. Non stiamo parlando di un sobborgo iperturistico di Cortina d’Ampezzo o di Courmayeur. Stiamo parlando di un Comune in Alta Valle Maira, Valli occitane, Piemonte. Un paese simbolo di quel modello – definito appunto “Valle Maira” – che virtuosamente più di una ventina di anni fa aveva messo insieme contesti ambientali di pregio, valorizzazione delle risorse culturali e storiche, accoglienza e dimensione turistico-sportiva a basso impatto […]. Quell’unica bimba, a fronte di 21mila presenze turistiche, rappresenta la dimostrazione che qualcosa non ha funzionato. Ci avevamo creduto in tanti a quel progetto capace di coniugare ambiente, eredità storico-culturale, turismo soft e green. Ma bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: la patrimonializzazione e la valorizzazione delle risorse non determinano automaticamente abitabilità. Le decine di migliaia di presenze della Val Maira, spesso qualificate […], non hanno generato nuovi servizi, welfare, strutture commerciali locali. Gli operatori, terminata l’alta stagione estiva e invernale, ritornano a valle, verso le pianure, dove ci sono scuole e servizi per le famiglie».
Così si legge nel saggio La montagna, con altri occhi (cfr. primo volume della collana L’AltraMontagna, scritto da Antonio De Rossi e Laura Mascino, edito da People, 2025). Senza troppi misteri e letti i numeri, il paese descritto in quelle parole è Marmora, il cui sindaco, Roberto Colombero, nel rispondere negativamente all’interrogativo posto sulla possibilità che sia un modello turistico a invertire le dinamiche di spopolamento, aggiunge che, a parer suo, quell’inversione non si sarebbe avuta neanche se si fossero seguiti altri modelli di sviluppo turistico, magari più invasivi e performanti sotto il profilo dei numeri e degli introiti. E sono d’accordo con lui. Di più, nel suo ragionamento scritto proprio partendo dal saggio di De Rossi e Mascino, Colombero dice: «non possiamo non pensare quindi che l’inverno demografico del mondo occidentale, e che viaggia a braccetto coi cambiamenti climatici, se non affrontato in modo serio dai governi, colpirà duro tutti e soprattutto, per l’ennesima volta, le nostre comunità». Anche qui, totalmente d’accordo. Anzi, di più: in una presentazione del mio libro, mi è stato chiesto se ritenessi possibile invertire le dinamiche di spopolamento che lì racconto. La mia risposta è stata che quel calo avviene in un contesto continentale e nazionale di contrazione; difficile immaginare che a far controtendenza possa essere un’area interna e lontana dai servizi, situata su quella dorsale che già a metà del secolo scorso Manlio Rossi Doria definiva l’«osso» del Sud (cfr. M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria, Laterza, 1958), caratterizzata appunto da una struttura demografica debole e dispersa in piccoli centri, distanti e mal collegati con le are più produttive e fornitrici di servizi e strutture necessarie al vivere moderno.
I comuni montani della Valle Maira, nel loro complesso, sono passati dai circa 20.000 abitanti della fine dell’Ottocento ai meno di 3.000 attuali. Un fenomeno del genere non lo inverti con un “modello”, con un progetto di valorizzazione delle risorse locali, con un programma di rilancio del turismo, che sia a basso impatto o massivo. E non lo inverti se tutto ciò che ti circonda e contiene, regione, stato, continente, segna il tuo stesso meno, e se, per vivere, hai bisogno di accedere a beni e prestazioni che, vuoi per le necessarie economie di scala, vuoi per l’impossibilità di portarle altrove, sono quasi sempre concentrante negli agglomerati urbani più grandi e lontani dal territorio che si vuole rivitalizzare.
Quello che vale per quell’angolo delle Alpi Cozie può dirsi di quasi tutte le aree interne e montane; se fosse stato sufficiente mettere a frutto le risorse del territorio per rendere più vivibili e appetibili quei luoghi, sarebbe stato fatto, e milioni di persone non avrebbero, nell’ultimo secolo, abbandonato le campagne per la città. Non è avvenuto perché non poteva avvenire, almeno fino a oggi.
Ma c’è di più, io temo, ed è un non detto che spesso aleggia nei discorsi che sostengono i progetti di quel “ripopolamento” a cui si accennava (spesso non volendo vedere che lo spopolamento è una conseguenza delle difficoltà che vivono le aree interne, non la difficoltà in sé): l’idea che qualcuno – siano questi i primi a ritornare o gli ultimi ad andarsene, fate voi – rinunci a quei beni e servizi che in altri contesti si ritengono scontati. Salvo volerla pensare come i rappresentanti di certa élite che consiglia ai figli degli altri di prepararsi a far gli operai, mentre si assicura per i propri le scuole migliori e un futuro da dottori e dirigenti, perché i bambini coinvolti in quelle dinamiche di “rivitalizzazione delle aree interne” dovrebbero essere costretti, fin da piccoli, a ore di trasferimenti solo per andare a scuola? Perché agli stessi ragazzi dovrebbero essere precluse le esperienze di socializzazione che altri, in contesti diversi, hanno a portata di mano? Perché, per loro, le stesse esperienze dovrebbero avere una disagevolezza per i loro coetanei ignota, talvolta spinta al punto di dovervi rinunciare? E, in misure diverse, vale per gli adulti, che dovrebbero accettare impeghi e stili di vita meno confortevoli di quelli che, nei luoghi più abitati, si definirebbero minimi.
Sì, certo, la politica e i governanti dei territori potrebbero fare molto per garantire maggiori servizi alle aree più lontane dai centri maggiori. Rimarrebbe però il problema dell’oggi per quanti, “pionieri” o “resistenti”, in quei contesti si troverebbero a vivere. Nel paese in esame, per quella sola bambina in età scolastica, si potrebbe avvicinare la scuola, che, come sappiamo, non è solo un processo di apprendimento di nozioni, ma anche un percorso di crescita sociale con i propri pari? E per la seconda o il terzo (e stiamo parlando di un’improbabile triplicazione dei residenti) che potrebbero arrivare nei prossimi cinque, dieci anni, grazie a per ora inimmaginabili progetti di sostegno per chi vive nei territori marginali? Senza parlare di tutto il resto, dallo sport all’accesso alle attività formative parallele e aggiuntive.
A debita distanza da quelle difficoltà, immaginiamo che altri, volontariamente, se ne facciano carico, rinunciando a lasciare quei luoghi o tentando di viverli; stupiscono poco, a guardarli sotto la luce delle cose a cui accennavo, i numeri che narrano la progressiva spoliazione di quelli che un tempo furono paesi, con tutto il portato di esperienze e relazioni che esser paese significa (e qui, la rilettura di Pavese potrebbe aiutare), e oggi paiono destinati a rimanere vuoti.
Soprattutto se a ciò si aggiunge l’inesorabilità dei dati demografici complessivi di cui parlava anche il sindaco di Marmora. «La storia ci dice che i luoghi non sono eterni, “subiscono l’ingiuria degli anni” come tutto e tutti. Non sono eterni gli imperi, figuriamoci i piccoli paesi che la storia economica ha messo ai margini delle dinamiche sociali, economiche e politiche. Una mutazione abitativa che è inscindibile dalla storia evolutiva dell’uomo, dal suo farsi spazio nel mondo e trasformarlo in un luogo legato al soddisfacimento dei suoi bisogni primari», scriveva qualche hanno fa l’antropologo Giuseppe Melillo, contrapponendo questa storia viva allo straniante concetto di “borgo”, che omologa e umilia i paesi, persino togliendo loro il «diritto di morire con dignità dopo che gli è stata tolta la dignità di vivere».