C’era una volta una scuola…

Avevo accennato in un post precedente alle parole del ministro Valditara sui programmi governativi per la riforma della scuola (l’ennesima). E come sempre, in quelle uscite c’è un po’ di tutto. A balzare all’onore delle cronache sono state alcune idee: il latino facoltativamente inseribile fin dalle medie, le poesie a memoria, la Bibbia e l’epica, sia classica che nordica (credo che pensino più a Tolkien che a Snorri, ma questa è forse una mia malignità; probabilmente hanno in mente Harry Potter e Atreju).

Nemmeno questa volta voglio entrare nel merito delle singole proposte (anche perché, finché non c’è un testo di legge vero e proprio, non si capisce di cosa si stia parlando). M’interessa, quello sì, il tono della questione. Nei fatti, nelle dichiarazioni del ministro, si legge in controluce quello che spesso si ritrova nelle uscite di tanti che han finito le scuole da tanto: «un tempo sì che la scuola insegnava qualcosa, non come ora…», eccetera, eccetera, a seconda delle personali inclinazioni. La scuola di allora; un mito. E come tale, una favola, appunto. Un terzo degli italiani adulti, ci dice l’Ocse, rientra nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”; sono sì capaci di leggere e scrivere, ma con difficoltà, in molti casi gravissime, nel comprendere o utilizzare le informazioni che leggono, capiscono frasi brevi o testi semplici, ma si perdono davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Tutti loro, a scuola ci sono andati venti, trenta o quarant’anni fa: a quella “scuola di una volta” di cui raccontano mirabilia, precisamente.

Potremmo aggiungere altri dati, a corredo di questo, ricordando come i due terzi degli adulti italiani non prendano in mano nemmeno un libro all’anno, e di questi, la stragrande maggioranza è concentrata nelle fasce di età dai trent’anni in su, o di quanto alta sia stata e sia nelle loro mani la, se non altro per questioni anagrafiche e numeriche, la responsabilità dell’aver dato al Paese la peggiore classe politica della storia repubblicana.

Eppure, agli italiani medi, piacciono le affermazioni di Valditara e di quelli come lui; perché? Beh, un’idea credo di essermela fatta: perché siamo un popolo vecchio, che nella nostra nostalgia delle cose d’un tempo riversiamo il dolore per l’ormai andata giovinezza (sì, il termine è quello giusto) e nascondiamo la paura per il mondo che è e che sarà. Non c’entrano le poesie da ricordare (provate a chiederne una che non sia il San Martino del Carducci, agli apologeti della memoria) o il latino da imparare fin dall’infanzia (“ad” più l’accusativo, regge il complemento di moto a luogo? Ad rivum eundem…), c’entra lo smarrimento che proviamo al cospetto del futuro che ci si disegna davanti.

Proprio sul latino, due interventi mi hanno colpito, a seguito delle parole di Valditara. Il primo, ammetto, più per l’ironia insita nelle sue parole e – spero – non colta dallo stesso autore. Per rispondere alle perplessità di chi vede nella lingua di Cicerone un idioma non più annoverabile tra le cose dei vivi, Andrea Balbo, il latinista coinvolto proprio dal ministro nella sua idea di riportarne lo studio alle medie, ha professoralmente asserito: «io non direi che è morta, è silente. È possibile riscontrarla anche nel nostro quotidiano: a Torino, ad esempio, sono presenti numerose lapidi». Le lapidi, che stanno appunto a ricordare ai vivi quel che è stato e non è più.

La seconda, di Paola Mastrocola – incidentalmente: sia l’uno che l’altra immaginano un percorso di insegnamento del latino pure per i migranti. Magari, aggiungo io con una dose di perfidia non insuperabile dai tempi che viviamo, per subordinarne all’apprendimento l’acquisizione della piena cittadinanza, in quella corsa a ostacoli con penalità che tutte le volte complichiamo per l’accesso degli altri ai quei diritti che invece, per noi, diamo per insindacabilmente acquisiti. La scrittrice torinese, all’intervistatore che provocatoriamente le chiede a cosa serva tradurre Catullo nell’epoca di ChatGPT, risponde: «Tradurli rappresenterà ancora il nostro antidoto, un’incredibile palestra per la mente, proprio perché ce la dovremo vedere col digitale».

Eccolo lì, il noi contro loro, con i nostri alleati in opposizione alle loro armi: carme versus algoritmo, il passato nel suo elemento più simbolicamente umano, la lingua usata, per resistere al nuovo che si vuole alieno e ostile solo perché differente da ciò che già si conosce, la sfida che non c’è (pur sempre di linguaggi parliamo, poetici o di programmazione), ma si narra sempre fatale e si desidererebbe portare sul terreno e nelle regole note per poterla vincere.

O almeno per ringiovanire nel mostrarsi pronti all’epica battaglia.

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Dell’orrendo dire

«Che aspetti allora? Delle tue parole nulla mi piace, e possa non piacermi mai; e così anche a te tutto di me riesce sgradito. Ma come avrei conseguito gloria più gloriosa, che componendo nel sepolcro il fratello mio? Tutti costoro direbbero di approvare il mio atto, se la paura non chiudesse loro la lingua. Ma la tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole». Così Antigone, rivolgendosi direttamente a Creonte minaccioso, nell’omonima tragedia di Sofocle (qui nella traduzione di Raffaele Cantarella, in Sofocle, Edipo Re – Edipo a Colono – Antigone, Mondadori, 2014, p. 291. Per chi volesse trovare nel passo altre sfumature: Τί δῆτα μέλλεις; ὡς ἐμοὶ τῶν σῶν λόγων ἀρεστὸν οὐδὲν μηδ᾽ ἀρεσθείη ποτέ, οὕτω δὲ καὶ σοὶ τἄμ᾽ ἀφανδάνοντ᾽ ἔφυ. Καίτοι πόθεν κλέος γ᾽ ἂν εὐκλεέστερον κατέσχον ἢ τὸν αὐτάδελφον ἐν τάφῳ τιθεῖσα; τούτοις τοῦτο πᾶσιν ἁνδάνειν λέγοιτ᾽ ἄν, εἰ μὴ γλῶσσαν ἐγκλῄοι φόβος. Ἀλλ᾽ ἡ τυραννὶς πολλά τ᾽ ἄλλ᾽ εὐδαιμονεῖ κἄξεστιν αὐτῇ δρᾶν λέγειν θ᾽ ἃ βούλεται).

Ritorno alle parole di un’altra donna, 25 secoli dopo l’opera sofoclea, quella Mariann Budde che esortava Trump alla pietà verso i migranti e, pochi giorni dopo, a proposito del suo sermone, spiegava ai giornali: «I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Siamo tutti noi come i tebani di allora, silenti perché spaventati? E possiamo davvero consentire ai potenti di oggi ciò che l’infelice figlia dell’infelice Edipo diceva della tirannide, che «le è lecito fare e dire quel che vuole»? O è tempo ormai di ribadire che c’è un limite al potere, e c’è un confine pure nelle cose che dai potenti possono essere dette, indipendentemente dal consenso che sulle stesse hanno o credono di avere?

Il politically correct ha avuto i suoi eccessi; negarli è inutile e dannoso, come dannosi (se non altro a giudicare dai risultati elettorali) sono stati proprio quegli eccessi. Il contrappasso che stiamo vedendo manifestarsi in questi tristi tempi è però ancora più nocivo, e mira a intossicare l’aria che noi tutti respiriamo. Il presidente di quella che si credeva la più grande democrazia del mondo non può utilizzare epiteti ed espressioni come quelli che indirizza verso alcune, ben ricercate, minoranze, senza che s’alzi intorno un coro di dissenso e riprovazione, senza che, come diceva Mariann Budde, nessuno dica qualcosa. Non può usare espressioni come «clean out», ripulire, riferendosi ai palestinesi da mandar via da Gaza, senza che urlino nelle orecchie i crimini di altre “pulizie” etnicamente intese, e che nessuno lo contesti lì, subito, sul momento.

Egli non può provocatoriamente disegnare scenari in cui un territorio venga svuotato dai suoi abitanti da decenni martoriati dalla guerra, immaginando al posto delle loro vite balocchi e attrazioni per turisti (progettare resort e stabilimenti balneari sulle macerie dove ancora caldi sono i corpi di decine di migliaia di vittime di 15 mesi di bombardamenti, somiglia sino al voltastomaco alla costruzione del loro angolo di paradiso al limitare del muro di Auschwitz di Rudolf ed Hedwig Höß, nel durissimo e perfetto La zona d’interesse di Jonathan Glazer) senza che i leader di tutte le altre democrazie lo stigmatizzino e lo sanzionino per quelle idee. Non può parlare di «deportazioni» da mettere in campo, non può chiamare «animali» o «non umani» i migranti illegali, senza che nel mondo libero tuoni contro e atterrita all’unisono la voce delle istituzioni, dei cittadini e delle forze politiche tutte. Non potrebbe; invece lo fa, e come quei timorosi sudditi di Creonte, l’Occidente dei diritti tace.

Eppure, la storia dovrebbe avercelo insegnato, che dall’orrendo dire nascono i peggiori frutti. Per questo, potremmo singolarmente far nostro l’esempio della vescova Budde, e non tacere mai, dinanzi a quello che sentiamo. E dobbiamo farlo, anche se ci può sembrare poca cosa la nostra voce contraria rispetto al coro che si leva di quanti, per convinzione o terrore, batton le mani al tempo del potente di turno.

Ancora dalle parole di Antigone, ma questa volta nella versione che della tragedia Jean Anouilh scrisse nel 1942 e portò in scena nel 1944, nella Francia occupata dalle truppe del Terzo Reich e difronte a un pubblico misto di tedeschi e francesi (J. Anouilh, Antigone, ora in Antigone. Variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio-Feltrinelli, 2000-2013, pp. 61-118, cit. p. 93): «Nient’altro che questo, lo so. Ma questo, almeno, posso. E bisogna fare quel che si può».   

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Prima vengono sempre a prendere gli irregolari

«I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Così Mariann Budde, la vescova che nel sermone dopo la cerimonia di insediamento, guardandolo negli occhi, ha esortato Trump ad avere pietà per i migranti e per le loro famiglie, perché, come ha detto dal pulpito, «our God teaches us that we are to be merciful to the stranger, for we were once strangers in this land», spiegava pochi giorni dopo al New York Times le ragioni del suo forte monito.

Il giorno dopo quell’orazione nobile, il padrone delle ferriere elettrificate, commentando sul suo X, scriveva: «She got the woke mind virus real bad». Ora, sarebbe inutile spiegare a Musk che non era vittima di nessun virus della modernità da quelli come lui osteggiata, ma citava semplicemente le scritture, quella stessa Bibbia su cui il suo socio aveva da poco giurato: «Quando uno straniero risiede con voi nel vostro paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, il vostro Dio» (Levitico, 19: 33-34). Tanto superfluo che i fatti si sono incaricati subito di disvelare il vero carattere della nuova amministrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, attraverso quella tremenda foto esibita per il ringhio festante della folla sostenitrice, con i migranti in catene fatti salire su un aereo militare. Allora, la domanda di Mariann Budde suona ancora più forte: qualcuno dirà qualcosa sulla svolta del Paese?

Qualcosa l’ha detta lo stesso commander-in-chief. Sempre dal Nyt, parlando della sua idea per risolvere i problemi di Gaza: «You’re talking about probably a million and a half people, and we just clean out that whole thing». «Clean out», ripulire. Etnicamente. Mandare via i palestinesi, verso altri luoghi. Deportarli in massa, un milione e mezzo di persone, uomini, donne, bambini. E ha continuato a dire, prendendo di mira tutti gli stranieri che hanno partecipato a manifestazione pro-GazaTo all the resident aliens who joined in the pro-jihadist protests, we put you on notice: come 2025, we will find you, and we will deport you», perché loro sono quelli del free speech), ancora i migranti illegali, minacciando di spedirli a GuantanamoWe have 30,000 beds in Guantanamo to detain the worst criminal illegal aliens threatening the American people»), quanti non rientrano nelle categorie in cui quelli come lui dividono e ordinano il mondo, quei due generi che certa tradizione vorrebbe divinamente stabiliti, i dipendenti federali sospettati di poco “allineamento” alle politiche perseguite dalla Casa Bianca (comprese quelle più persecutorie) e i programmi di inclusione per le persone con disabilità (squallidamente sfruttando un disastro aereo).

In un tempo e in un mondo dove anche l’altro muro tedesco è sembrato in procinto di cadere – quello antifascista, che separa gli estremisti di destra che tanto piacciono all’amico di Trump dalle sfere del potere istituzionale –, non possono non risuonare quali sveglia per tutti, riadattate allo zeitgeist attuale, le parole chiare, e che alludono al complice silenzio che sempre accompagna l’inizio dell’oscurità, in quella poesia di Niemöller ripresa da Brecht: prima vennero a prendere gli irregolari…

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La memoria di quanto tutto fu il seguito delle scelte dei singoli

«L’occasione del 27 gennaio, il Giorno della Memoria, viene molto spesso utilizzata per ricordare non solo la tragedia degli ebrei d’Europa, ma anche e soprattutto per riaffermare uno dei tanti luoghi comuni così diffusi nell’opinione pubblica italiana, e cioè che dietro ogni ebreo strappato alla deportazione e alla morte vi era una rete di italiani non ebrei che misero in pericolo la propria vita per porre al riparo le vittime. Puntualmente, ogni 27 gennaio le televisioni ritrasmettono film e fiction che esaltano gli eroi italiani, personaggi che sfidando ogni sorta di pericolo hanno salvato decine, a volte centinaia di ebrei. Ogni 27 gennaio viene quindi riaffermato e ribadito il mito degli “italiani brava gente”, una delle leggende più radicate nella memoria collettiva del nostro Paese. Eppure una analisi più approfondita dei fatti dimostra una storia molto più complessa e molto meno consolatoria di quella raccontata nei film. […] Per quanto efficienti, i comandi della polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi costretti ad appoggiarsi agli italiani. Tra il 13 e il 30 novembre (del 1943, n.d.r.) la Rsi, inoltre, proclamò tutti gli ebrei “stranieri” e “nemici”, e ne ordinò l’immediata incarcerazione in campi di concentramento costruiti ad hoc. Ma non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di “italiani comuni”, di normali cittadini, fu fondamentale per l’arresto di migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire dell’epoca».

Scriveva così, nel 2016, Amedeo Osti Guerrazzi sulla Stampa. Sull’edizione torinese della Repubblica, il 21 ottobre del 2018, Francesca Bollino, a proposito di una mostra organizzata dal Comune sugli orrori delle leggi razziali, ricordava come ci fu «uno zelo tutto torinese nell’applicare la direttiva sulla razza. L’immagine – o il mito – della Torino antifascista, città tradizionalmente fredda nei confronti del duce, resta piuttosto scalfita». «Già ad agosto», continuava l’articolo di Bollino sui fatti di quel nero 1938, «e quindi ben prima dell’entrata in vigore delle leggi sulla razza, l’amministrazione aveva fatto richiesta a tutte le scuole di inviare gli elenchi degli alunni per i quali le famiglie avevano chiesto l’esenzione dell’insegnamento della religione cattolica, con la presunzione che si trattasse di ebrei. Lo stesso vale per gli insegnanti. E tutte le scuole rispondono, con tragica prontezza». E c’è un passaggio, nella ricostruzione della giornalista, che fa davvero riflettere su quanto possa essere realmente «banale» il male, quasi fosse un lavoro fra gli altri. Da Roma chiedevano con insistenza i dati a tutto il Regno, autorizzando anche i comuni ad assumere personale o a pagare gli straordinari. A Torino si erano portati avanti, con una delibera del Comune del 3 ottobre, oltre un mese prima dell’emanazione delle norme della vergogna, che finanziava i costi per il lavoro in più dei dipendenti impiegati nel censimento, i quali, si poteva leggere nel testo del provvedimento esposto durante la rassegna del 2018 dell’archivio storico cittadino, «hanno lavorato con enorme zelo, la sera, durante i giorni festivi, per arrivare a raccogliere quanti più dati possibili».

Entrambi gli articoli citati, nel loro titolo, utilizzano l’aggettivo «volenterosi», per indicare delatori e spioni, con un chiaro rimando all’opera di Daniel Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (Mondadori, 1997, titolo originale Hitlers Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, 1996). In quel testo, il già professore di Harvard cerca di spiegare quale società tedesca fosse quella in cui “la soluzione finale”, prima che messa in atto, poté essere detta, come mai si potette affermare che alcuni uomini fossero “subumani”, perché si riuscì a praticare esclusioni e marginalizzazioni, angherie e vessazioni prima che gli ebrei fossero portati nei campi di concentramento, quando tutti potevano vedere che a loro erano tolti diritti e possibilità che gli altri avevano garantiti. Eppure, nessuno si oppose, anzi.

«Ridevano», dice Helen Mirren nei panni di Maria Altmann in Woman in gold, bel film del 2015 diretto da Simon Curtis sulla storia vera di una ricca famiglia ebraica viennese nel dramma della Shoah. Ridevano, gli austriaci, nel vedere loro, benestanti, spogliati di tutto e trattati come “non umani”, appunto. Applaudivano all’Anschluss e all’ingresso delle truppe del Reich. Festeggiavano il diventare parte attiva del folle e criminale sogno di Hitler. Come ridevano, applaudivano e festeggiavano i tedeschi. E come ridevano, applaudivano e festeggiavano gli italiani.

Nel 1938, a Trieste, Mussolini parlava della “questione della razza” dal punto di vista fascista, in una Piazza dell’Unità d’Italia strapiena di gente estasiata e rapita da quelle parole, da quei discorsi sulla superiorità di alcuni uomini rispetto ad altri. Gli stessi argomenti da cui generò l’Olocausto, per i quali discese sull’Europa il buio dell’immane tragedia.

E non fu solo questione di “popolino ignorante”, come si potrebbe facilmente immaginare e dire per sedare le nostre coscienze. Degli oltre 1.200 professori universitari italiani di quel periodo, solo una quindicina non prestarono il giuramento di fedeltà al fascismo imposto dagli stessi che stilavano le “leggi razziali” e, in Germania come in Italia, intellettuali di primissimo piano non si opposero alla cacciata degli ebrei dalle funzioni pubbliche e dalle carriere dello Stato, dalle professioni come dalle università, dalle scuole o dagli ospedali, solo perché ebrei.

Oggi è di nuovo il 27 gennaio, e sono passati esattamente ottant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz ad opera delle truppe sovietiche. Chissà se in questo giorno ci ricorderemo che tutto quel che accadde e che accade, al di là di ciò che il tempo, i costumi e i governi stabiliscono essere la legalità, fu ed è sempre e solo una questione di scelte individuali.

No, nessuna caduta in una forma di esistenzialismo sartriano; sto parlando proprio di responsabilità morale, pratica, effettiva derivante dalle scelte di qualcuno sulla vita reale e concreta di qualcun altro. Non furono le leggi di per sé a segnalare, segregare e poi crudelmente sopprimere gli ebrei.

Furono esseri umani, singoli che nella loro assoluta libertà decisero così.

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Di quel canto d’un pastore errante

Mi è capitata sotto gli occhi, nei giorni scorsi, la sintesi delle dichiarazioni rilasciate dal ministro Valditara sui programmi del Governo per la scuola. C’è un po’ di tutto: dall’inserimento del latino facoltativo alle medie all’approfondimento della storia italiana, dalla epica classica a quella nordica, dalla lettura della Bibbia (nell’ottica dell’approfondimento delle mitologie, immagino) all’apprendimento delle poesie a memoria. Parlerò poi delle idee ministeriali, prima mi permetto una divagazione, a proposito di poesia.

Curiosamente, quando ho letto quell’articolo stavo pensando al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ora, non è che io pensi al Leopardi spesso, lo ammetto, e probabilmente quella suggestione mi era stata inconsciamente suscitata da un rimando social alla nuova miniserie Rai sul recanatese. Fatto sta che la coincidenza l’ho trovata interessante. Immagino che gli attuali governanti ascriverebbero i Canti alla storia patriottica, però dubito che l’autore lo fosse, nel loro stesso senso almeno; egli era intento a capire il singolo e i suoi sentimenti, non a santificare i popoli con le annesse storie e tradizioni. Certo, All’Italia, d’accordo: parliamo pur sempre di un componimento dei suoi vent’anni, scritto a poca distanza dal Congresso di Vienna e reso famoso più per l’impegno dei suoi lettori liberali che per quel che diceva, tralasciando il fatto che anche lì si possono leggere, nella situazione della patria, altri temi che il poeta spesso userà per descrivere la vita dei singoli, dalla felicità delle origini contrapposta alle difficoltà del presente (l’età fiorita del garzoncello scherzoso che è solo il sabato che annuncia la festa d’un giorno soltanto), fino alla storia che quasi agisce coi popoli come la natura sugli uomini, non rendendo quel che promette.

Il Canto notturno, nella specificità del dolore e della sofferenza a cui la vita espone, porta a compimento la dimensione «cosmica» della sua visione sulle sorti degli uomini, di tutti gli uomini, e lo fa partendo proprio dalla loro individualità, singolarmente considerata. È quel pastore che gli interessa, e da quella singolarità trae indicazioni generali. Non una storia di popoli, quindi, ma il destino dei singoli, di tutti i singoli, come tale condiviso e, appunto, universale.

L’aspetto su cui riflettevo era però un altro. Per dar senso a quella universalità di sentimenti, Leopardi sceglie il suo protagonista trovandolo in un pastore nomade, presumibilmente incolto, duro, al limite primitivo, comunque lontano anni luce da ciò che era il poeta. Il dolore del vivere cantato lì smette di essere appannaggio degli uomini istruiti e formatisi nella modernità, ma si scopre arcaico e familiare all’insieme dei viventi.

Tutto questo si regge su un assunto che il poeta, nel testo, non dimostra: davvero un pecoraio lontano dagli stessi suoi studi può ritenere «funesto a chi nasce il dì natale»? Non è forse questa una riflessione solo sua e di quelli come lui, gente che «ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo», per dirla con Guccini, lontana dal sentire di quanti hanno a che fare con le cose pratiche di ogni giorno? E allora mi sono ricordato di altro.

Ernesto De Martino, in una sua trasmissione radiofonica del 1953, raccontava una parte di quello che aveva conosciuto nella sua «spedizione», la definiva proprio in questo modo, in Lucania di qualche tempo prima e poneva l’accento su un tema chiave in molti racconti, nenie, ninne nanne: quello della nascita sventurata, della venuta al mondo di quanti sono scritti nel libro degli spersi (ora si trova raccolta, con altre, nel volume Panorami e spedizioni. Le trasmissioni radiofoniche del 1953-54, curato da Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi, ed. Bollati Boringhieri, 2002).

Raccontava l’antropologo partenopeo (op. cit., pp. 91-92): «Fu un bracciante di Irsina, che per la prima volta ci cantò la nascita dell’uomo come nodo di assurdità e come maligna inversione della norma:

Quando io nacqui

Mia madre non c’era

Era andata a lavare le fasce

La culla che mi doveva cullare

Era di ferro e non si dondolava

Il prete che doveva battezzarmi

Sapeva leggere e non sapeva scrivere

Avemmo occasione una volta di incontrare a Savoia di Lucania una quasi centenaria, Caterina Guglia. Essa non ricordava esattamente l’anno della sua nascita, ma solo di essere nata l’anno del terremoto; ricordava però, con pronta memoria, i versi della nascita come catastrofe:

Quando io nacqui

Mia madre morì

Morì mio padre il giorno dopo

E anche la levatrice morì

Mi andai a battezzare

Nessuno attorno

[…] Altre volte, il tema della nascita sventurata si accende di immagini che parlano di una vera catastrofe cosmica che accompagna la nascita:

Quando io nacqui

Il mare più profondo si asciugò

E per quell’anno

Non ci fu al mondo primavera

Quando io nacqui

Si oscurarono le stelle

E il sole cessò di risplendere

oppure:

Le fasce in cui fui infasciato

Erano tessute di melanconia

e infine il disperato lamento che spiega la profonda motivazione esistenziale di tutta questa tematica della nascita sventurata:

Sto a questo mondo come non ci stessi

Mi hanno messo nel libro degli spersi».

Questi canti raccoglieva agli inizi degli anni Cinquanta De Martino, e almeno una dei suoi testimoni aveva quasi cent’anni, cioè era nata una ventina d’anni dopo che Leopardi aveva scritto il Canto notturno; l’assonanza suggerisce che l’assunto del letterato poggiasse sui fondamenti solidi del pensiero del filosofo ch’egli stesso era andava elaborando.

Ah già, dovevo parlare di Valditara; vabbè, col poeta dei Canti: «il tempo manca».   

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Sperando che il Moro di Treviri avesse ragione

«Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Con queste parole Karl Marx fa iniziare Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, 2006, p. 43), riflessione in presa diretta sul colpo di stato messo in atto dal nipote di Napoleone che diventa occasione per approfondire le proprie analisi sociali e teorie storiche.

Resa autonoma dal contesto, quella frase spesso l’abbiamo sentita ripetere. E nel leggere le notizie sull’incarico conferito dal presidente federale austriaco Alexander Van der Bellen a Herbert Kickl per costituire il nuovo governo che dovrà succedere a quello guidato da Karl Nehammer, ho sperato (e spero ancora) che sia perfettamente corrispondente al vero. Questo per l’ottimismo della volontà; per quanto concerne il pessimismo della ragione, la sera stessa ho ripreso in mano Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo di Stefen Zweig (Mondadori, 2017). Ritornando all’Austria, ciò che sta accadendo ricorda molto da vicino (pur se immagino il sentimento di quel galantuomo di Van der Bellen molto distante da quello dell’allora omologo tedesco Paul von Hindenburg) le sorti di un altro austriaco, per quanto in Germania, in un altro gennaio, quello del 1933: le trattative nel post elezioni tra le varie forze politiche vanno in stallo, il leader del partito di estrema destra riceve il mandato a costituire un esecutivo puntando sull’appoggio del partito popolare, questi ultimi temono le urne perché immaginano che i primi avanzino ancora, il contesto di contorno si divide tra i quelli che sottovalutano i rischi, quanti pensano di poterne trarre vantaggio, chi immagina che non durerà e i tanti che credono bastino le regole, il diritto e la legge a fermarne le potenziali derive peggiori. Vedremo.

Intanto, stiamo già osservando alcune cose, e tra queste il fatto che, al di là della denuncia della comunità di sentimenti tra alcuni ambienti d’estrema destra e altri d’estrema sinistra, il cosiddetto “rossobrunismo”, la realtà istituzionale ci pone davanti, in Italia, in Francia e ora in Austria, l’alleanza effettiva tra il centro, il centro-destra, soi-disant, “moderato” e la destra-destra, addirittura estrema in molte delle sue posizioni.

E poi la manifestazione di una realtà di fondo che possiamo negare, ma che bussa con forza alle porte delle nostre riflessioni: continuiamo ad evidenziare nelle approfondite analisi (e con indubbie ragioni) i limiti e gli errori delle élites politiche, soprattutto di sinistra, nel determinare le situazioni da cui nascono alcuni risultati elettorali; però dobbiamo anche dirci che quei voti arrivano pure perché la gente, liberamente, li dà.

Herbert Kickl ha fatto una campagna elettorale in cui non ha evitato di parlare di alcuni argomenti che, in politica e negli stati democratici d’Occidente, dovrebbero essere banditi. Il programma elettorale del partito che guida, l’Fpö (“Freiheitliche” credo che qui stia come “sozialistische” nei loro antenati d’ispirazione), è intitolato “Fortezza Austria” (e quel Festung rimanda proprio a quell’altro) e chiede, senza girarci intorno, la “remigrazione” degli stranieri non invitati – nei fatti, la loro deportazione –, la restrizione del diritto d’asilo e un rigido ed ermetico controllo delle frontiere. Il tutto, al fine di ottenere una società più omogenea.

Se un brivido ha percorso le vostre spalle, sono in buona compagnia. Eppure, dicendo l’indicibile, il “Partito della libertà d’Austria” è risultato essere il più votato nello scorso autunno, con quasi il 30% dei consensi. Uno su tre ha votato per loro. E io credo che sia arrivato il momento di cominciarci a chiedere seriamente quanti di questi lo abbiano fatto nonostante quei discorsi orribili e quanti, invece, proprio per quelli.

Se non altro per non dover scoprire troppo tardi quello che tristemente toccò in sorte a Zweig (op. cit., pag. 167) e ad altri nel suo tempo: «Avevo ormai vissuto dieci anni del nuovo secolo, avevo veduto l’India, una parte dell’America e dell’Africa, cominciavo a guardare la nostra Europa con nuova e feconda gioia. Mai ho tanto amata la nostra vecchia terra come in quegli ultimi anni prima della guerra, mai ho tanto sperato nell’Europa, mai ho tanto creduto nel suo futuro come in quegli anni in cui ci sembrava di assistere a una nuova aurora. Era invece già l’igneo riflesso dell’enorme incendio che s’avvicinava».

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Eppure costruiscono

La Guida, il settimanale cattolico cuneese, nell’ultimo giorno dell’anno appena trascorso, scriveva sulla sua edizione online che i residenti in città «sono 55.903, ben 223 cittadini in meno rispetto a un anno fa, quando erano 56.126. […] Anche le famiglie diminuiscono, sono ben 172 in meno […]. La media di componenti per famiglia è appena di 2,06 componenti». Eppure, posso assicurare perché lo vedo tutti i giorni con i miei occhi, in città e nel territorio circostante, si continua a costruire nuovi appartamenti, case, villette. Per chi?

Quando parliamo di consumo di suolo, non di rado ci si sente accusati di esser contrari alla crescita e intrisi di visioni ecologiste senza nessun contatto con la realtà. Però, al di là di ogni ideologia sviluppista, le case servono per la gente che deve abitarle; se questa non aumenta di numero, o addirittura diminuisce, quelle, che siano le vecchie o le nuove, rimarranno vuote. Non c’entrano le dinamiche di mercato o le leggi dell’economia: c’entra l’aritmetica. Il resto – la crisi dell’edilizia, la stasi nel mercato immobiliare, la riduzione dei valori di quegli stessi immobili – è conseguenza. E la contrazione della popolazione non è un’esclusiva di Cuneo, ma è tutta l’Italia a segnare un meno davanti all’andamento del numero dei residenti (vedremo i dati aggiornati al 2024, seppure il trend è chiaro da alcuni anni).

Lo scandalo, in tutto questo, è poi nella considerazione delle difficoltà di accesso alla casa di molte fasce di popolazione. Cioè, in un Paese che si avvia ad aver decisamente più case che persone (ed è già così in molte aree interne), non si riesce ad assicurare il diritto all’abitazione; anche qui, la matematica urla vendetta al cielo. La crisi degli alloggi a Milano o in altre (poche) realtà ancora dinamiche e con crescenti valori degli immobili, se non giustificabile sul piano etico, è almeno spiegabile nelle leggi del mercato. Quel che accade in tutto il resto delle situazioni ha dell’inverosimile.

Però, accade.

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Il difetto di competenza

A dirla tutta, bastava farsi un giro sui social. Non tanto per scoprirne la posizione in classifica, ovvio, per la quale sarebbero potuti mancare i risconti e i raffronti. Ma per capire lo stato delle cose probabilmente sì. Sto parlando dei risultati del Survey of Adult Skills, il monitoraggio Ocse sulle competenze degli adulti nel leggere, scrivere e far di conto, come si sarebbe detto un tempo, delle popolazioni dei Paesi aderenti. Dei trentuno Stati analizzati, l’Italia si ritrova complessivamente al quartultimo posto per quanto riguarda le competenze letterarie, matematiche e di problem solving, lontanissima dalla media dei risultati analizzati, per tacere della distanza da Finlandia, Giappone, Olanda, Norvegia e Svezia.

Per quanto riguarda le capacità letterarie, il 35% per cento degli italiani tra i 16 e i 65 anni ha raggiunto un punteggio pari o inferiore al primo livello di quella rilevazione, rientrando così nella categoria dei cosiddetti “analfabeti funzionali”. Cioè, un terzo degli adulti di questo Paese sa sì leggere e scrivere, ma ha difficoltà, in molti casi gravissime, a comprendere o utilizzare le informazioni che legge. Può capire frasi brevi o testi semplici, si perde invece davanti a periodi complessi, su più pagine o con significati non immediati. La stessa percentuale (35%) la ritroviamo relativamente alle questioni matematiche, dove le difficoltà iniziamo appena c’è da calcolare o risolvere una proporzione, e la si supera abbondantemente, addirittura fino a sfiorare la metà del campione (46%), quando si prendono in esame le facoltà di risoluzione dei problemi con più di una variabile. Insomma, a scuola ci siamo andati perché ci dovevamo andare, però con poco impegno e ancor meno profitto, a giudicare da questi risultati e da tanti altri indicatori che potremmo prendere in esame (dal numero di libri letti per abitante alla conoscenza di una lingua straniera, dei concetti scientifici di base, dei rudimenti dell’economia).

Dicevo che sarebbe bastato un giro sui social perché a volte si leggono o ascoltano cose (quando si riescono a capire, per come sono state scritte e dette), che davvero fanno impressione. Per non parlare delle conoscenze culturali in generale. Quell’indagine, infatti, prende in esame parametri paragonabili tra i diversi sistemi e le differenti scelte scolastiche dei singoli; provando ad allargare la visuale, quali sarebbero i risultati sugli argomenti di storia o geografia? Gli stessi che, appunto, fra un post e un commento, si possono leggere su Internet: vicende immaginarie, confini improbabili, personaggi leggendari scambiati per condottieri storicamente esistiti, patrie inventate ed evidenze negate.

Non andrebbe meglio, quella ricerca, se si confrontasse con materie dal portato, per così dire, più identitario. Prendete la religione: la confusione sulla lettera di quelle fedi, per tacere della dottrina, è tanto più dirompente quanto maggiore è la professione che di questa si fa. Si sventolano crocifissi e rosari al pari di vessilli di parte, ma si ignorano completamente le parole che quegli stessi simboli hanno fondato e riempito di significato.

E in questi giorni di festività solenni, tale aspetto è forse ancora più evidente.

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E se fossero troppe?

In questi giorni, capita un po’ a tutti di leggere articoli e riflessioni sulla crisi dell’auto. I dati sono veramente allarmanti: in Europa, il calo delle immatricolazioni nell’ultimo mese utile per le rilevazioni, novembre 2024, segna un complessivo -2%. Nel dettaglio dei singoli Stati, come riporta Giuliana Ferraino sul Corriere di venerdì scorso, i numeri sono ancora più impressionanti: tra i mercati maggiori per il settore, l’Italia si attesta a -10,8%, la Francia addirittura -12,7%, con la Germania che tiene appena sotto la linea di galleggiamento, -0,5%. Alla crisi di vendite non fa argine l’elettrico, che, nello stesso periodo, si contrae mediamente del 9,5%, con cali del 24,4% in Francia e del 21,8% in Germania.

Colpa delle produzioni in arrivo da altri Paesi? Direi di no, perché calano proprio le immatricolazioni tutte, che siano di auto tedesche, italiane, giapponesi o coreane. Nel riflettere sulle possibili cause, sempre sul Corriere, Luca Angelini si chiedeva se il motivo non fosse da ricercare nei prezzi troppo alti. Ed è sicuramente un tema vero, soprattutto in Italia, visto che quei prezzi salgono e i salari ristagnano. Però, crollano gli acquisti persino in Germania, e lì gli stipendi sono decisamente più generosi. Il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, leggeva in quella contrazione di mercato anche il risultato di questioni ideologiche, dall’ambientalismo a un diverso stile di vita delle nuove generazioni.  E pur stando lontano dal tono quasi accusatorio verso chi non vede nell’automobile l’architrave della propria esistenza, va detto che una qualche ragione c’è: se un prodotto è meno attraente sul piano simbolico, meno ricercato, il mercato ne risente. Però, un dubbio mi rimane, e mi chiedo: e se fossero semplicemente troppe?

Ho provato anche qui a cercare i dati, per sostenere l’impressione empirica: in Italia (rilevazione al 2023, fonte Istat), ci sono 694 autovetture ogni mille abitanti, contro una medie UE di 571. Sette macchine ogni dieci esseri umani, due per ciascuna famiglia di tre persone. Quante ne dobbiamo avere, per sostenere quel settore produttivo. L’automotive è stato il comparto simbolo dell’industria novecentesca, prima e (in Italia soprattutto) dopo il secondo conflitto mondiale. Ma allora c’erano Paesi interi da “motorizzare”, oggi non è più così. Certo, le macchine invecchiano e vanno cambiate, però quel ritmo di sostituzione non può essere frenetico come servirebbe, semplicemente perché un’auto, dopo averla comprata, la si usa; e le occasioni sono sempre di meno, proprio per gli stili di vita che cambiano, e le alternative, fortunatamente, sempre di più.

Poi, per carità, se dobbiamo portare quel rapporto a una macchina per ogni persona, bambini compresi, o ancora più in alto, fate voi. Solo che, come dire, non credo che sia la strada giusta. E lo so che adesso penserete che non mi stia preoccupando di quanti in quel settore lavorano, ma non è così. Dovremmo pensare a una riconversione generale, di fabbriche, reti di vendita e officine per la manutenzione, e allo stesso tempo della mobilità collettiva e individuale e degli strumenti per garantirla e attuarla.

In alternativa, possiamo fare come quanti girano le sagre per cercar voti, spiegando, tra un panino e un comizio, che la colpa è dell’Europa, dei cinesi, di Tavares, delle Ztl, delle auto elettriche (Tesla no, per carità, ché gli amici non si toccano), eccetera, eccetera, eccetera. Magari, si vincono pure le elezioni, non sapendo il giorno dopo cosa fare per risolvere i problemi che si denunciavano, se non tornare nelle stesse piazze e ricominciare il medesimo salmodiare, in un circolo vizioso i cui risultati sono quelli che contiamo e scontiamo.

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Di una società chiamata solitudine

«Negli ultimi sei mesi di vita, l’assicurazione ha deciso di smettere di pagare insulina, medicinali, garze, batterie, tutto quello che le serviva per le terapie – ha raccontato Jacob -. Solo quando è morta, nemmeno il giorno dopo ma la mattina dopo, ho trovato un pacco davanti a casa con tutto quello che avrebbe dovuto ricevere. Era troppo tardi». È una delle testimonianze, delle storie drammatiche di cure negate dal sistema assicurativo americano raccolte nell’articolo di Nadia Ferrigo, qualche giorno fa per la Stampa, partendo dai commenti social (spesso non edificanti), all’uccisione del Ceo della Unite Healthcare, Brian Thompson. Il presunto colpevole dell’omicidio, già arrestato, è il ventiseienne Luigi Mangione. Della giustizia si occuperanno i tribunali, della cronaca i giornali più attenti e puntuali di quanto possa essere questo spazio.

Sono i giudizi espressi nel pulviscolo delle connessioni in rete a esser qui fonte di riflessione. Non rendono giustizia dell’accaduto, e molti di questi sono censurabili, se non proprio esecrabili. Le storie che in alcuni di questi sono contenute, i drammi umani e personali, una qualche idea su quel che succede dovrebbero spingere a maturarla. Uccidere una persona a sangue freddo è un crimine che rimane tale. Eppure, dai primi minuti dopo la diffusione della notizia, il killer, allora senza nemmeno un volto, da imputato è immediatamente assurto, nel rumoreggiare di migliaia di account d’Oltreoceano, al rango di eroe popolare. Circostanza che dice due cose, a parer mio, sullo stato di quella società: che il modello bassato sulla sanità sostenuta quasi esclusivamente dalle polizze, e per profitto, mostra la corda ormai da decenni (con rancori sempre crescenti, vista la sensibilità dell’argomento), e che l’atomizzazione individualistica americana, dove si è celebrati unici nel trionfo e lasciati soli nella caduta, immagina più facilmente la reazione individuale contro i colpevoli che non la risposta collettiva per la soluzione di un problema.

Tutte e due aspetti che dovremmo cominciare a vedere con preoccupazione pure da questa parte di quell’oceano d’Occidente. La progressiva riduzione delle risorse per il sistema sanitario – che potrebbe crescere, se davvero si perseguisse fino alla pratica l’idea di incrementare gli stanziamenti in armi dei Paesi europei – spinge verso il sistema assicurativo. Ma le assicurazioni, per costituzione, non sono opere pie, e la ricerca del guadagno sarà sempre un aspetto prioritario del loro agire. E se un giorno può sembrarci interessante e di poco danno, integrare le capacità della sanità pubblica con un’alternativa tradotta in premio da qualche istituto, il successivo potremmo scoprire che quest’ultima via è l’unica rimasta, e non è detto che si abbia ancora la capacità finanziaria personale per imboccarla.

Il secondo aspetto, come accennavo, riguarda le nostre società. Lo scivolamento progressivo in una sorta di egoismo individualista dato dall’indisponibilità a lottare con e per un vicino che non ci piace (con le più diverse motivazioni del giudizio), smontano progressivamente la capacità di agire insieme per un obiettivo condiviso, come può essere appunto l’incremento dei fondi destinati al sistema sanitario nazionale.

A quel punto, non rimane che la rabbia solitaria per la propria condizione e la ricerca disperata di un volto da dare alla sete di responsabilità per il vissuto malessere.

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