De civitate pecuniae

Scrive Sarah Gainsforth (L’Italia senza casa, Laterza, 2025, pp. 104-105): «Oggi il modello Milano mostra i suoi altissimi costi sociali. Un dato in particolare fotografa gli aspetti escludenti della valorizzazione immobiliare su cui il modello si fonda: solo il 60% delle compravendite di case nella città è assistito da un mutuo, ovvero quasi la metà delle compravendite di case avviene con (ingenti) risorse proprie, ereditate o ottenute vendendo un’altra abitazione Milano non è più una città per studenti, infermieri, autisti e insegnanti, e per quanti dispongono solo di un normale salario. Per questo motivo, il problema della casa si è esteso alla classe media. Per lavorare e studiare a Milano bisogna possedere già una casa, o una famiglia facoltosa alle spalle. In altre città ormai la situazione non è molto diversa: le città a uso investimento non sono città per le persone».

E ingenuamente, qui, ci si chiede: come può, una città, non essere più «per le persone»? Non si tratta di idealizzare quel concetto di paese “a misura d’uomo”, intendendo la facilità con cui si accede ai beni e ai servizi, la comodità con cui ci si può recare a scuola e a lavoro senza lo stress del traffico, il piacere di una passeggiata in un parco o per le vie del centro. No; qua parliamo dell’impossibilità concreta, per chi vive del proprio lavoro senza stipendi stellari, quali, appunto, infermieri, autisti, insegnanti, di poter risiedere nella città in cui lo svolge. Come può esser successo che, non solo i più poveri, ma persino il ceto medio, abbia progressivamente perso la possibilità, confidando solo sulla forza del proprio lavoro, di accedere a un’abitazione dignitosa, in quella metropoli che è l’emblema del successo economico dell’intero Paese?

In un rapporto curato da Massimo Bricocoli, professore di Politiche Urbane e Housing e direttore del Dipartimento di architettura e studi urbani Politecnico di Milano, e Marco Peverini, assegnista di ricerca presso lo stesso Dipartimento, si evidenzia come, tra il 2015 e il 2021, redditi e salari nell’area metropolitana milanese siano saliti solo del 12-13%, mentre, nello stesso periodo, i costi di acquisto delle case sono cresciuti del 41% e quelli d’affitto del 22% (cfr. M. Bricoccoli, M. Peverini, Non è una città per chi lavora. Costi abitativi, Redditi e retribuzioni a Milano, Primo Rapporto di Ricerca OCA (Osservatorio casa abbordabile) sull’abbordabilità della casa, DAStU-Politecnico di Milano, 2023). E quelle case, già non costavano poco prima.

Ma se non è per chi lavora, se non è per gli uomini, per chi è quella città che, a Milano come altrove, si va disegnando? Risposta facile: per il denaro. Nessuna demagogia; la finanziarizzazione dei patrimoni immobiliari, la casa che diventa merce o prodotto per diversificare gli investimenti, il “mattone” che si fa, da luogo di vita, semplice strumento speculativo, è un processo lungo, iniziato in Italia, sull’onda e l’esempio delle svolte liberiste anglo-sassoni, da oltre un trentennio. È un fatto.

E in quel fatto, per naturale evoluzione della dinamica che lì si innerva, ci stanno i risultati che si manifestano. Se è per il denaro e sul denaro che la città si conforma, allora è consequenziale la ricerca della maggiore redditività dell’investimento. Nel grande, come nel piccolo, nelle ingenti proprietà dei fondi immobiliari, che puntano alla massimizzazione del valore dei suoli e degli immobili, e nelle proprietà individuali ricercate sul mercato dai privati, dove al posto del quadrilocale per famiglie, spuntano due bilocali, o tre monolocali per affitti temporanei, brevissimi.  

A quanti la città dà da vivere col lavoro, non rimane che farsi più in là.

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L’eterno Pinocchio

Nei giorni scorsi, con mio figlio, abbiamo guardato Le avventure di Pinocchio, nello sceneggiato di Luigi Comencini del 1972. Per quelli della mia età e di qualche anno più grandi, un classico; per la generazione di mio figlio, l’ho visto nei suoi occhi, una scoperta. Nonostante i colori non brillanti, gli effetti speciali quasi ridicoli, se paragonati al cinema di oggi, un ritmo decisamente più lento, è stato attratto fin dalle prime scene. E devo dire che anche quell’Italia povera, che è nel film come nell’opera di Collodi, ha tenuto alta la sua attenzione e destato la sua curiosità, dimostrando – e per fortuna – l’abissale differenza tra l’adesso e l’allora.

Accanto al momento intimamente felice, altre riflessioni mi sono tornate alla mente. Tra queste, quella che Raffaele La Capria, in una curiosa ed efficace forma colloquiale, (qui in Il Sentimento della letteratura, False partenze, con Letteratura e salti mortali e Il sentimento della letteratura, Mondadori, 2011, pp. 231-237, dal titolo Pinocchio, l’italianissimo) dedica proprio all’opera del Collodi, e in cui quel bambino-burattino, con tutta la sua incapacità di crescere e farsi adulto, rappresentava il miglior archetipo, il più carismatico e caratterizzante ideale letterario dell’italianità.

«“E va bene, leggiamolo così allora. Cosa vuol dire che Pinocchio è un burattino che non riesce a diventare un uomo?”
“Vuol dire che non è capace di crescere. E crescere non significa essere responsabile delle proprie azioni, mettere giudizio, come si dice, cioè saperle giudicare? Pinocchio non ne è capace, come ho detto.”
“Certo, non ne è capace; ci prova, poi ricade sempre nelle stesse abitudini.”
“E non ti sembra questo un tratto molto italiano? Non c’è in fondo ad ognuno di noi un Pinocchietto irresponsabile che non vuole maturare e che non sa giudicarsi?”
“Come si manifesta questa irresponsabilità?”
“Lo vediamo tutti i giorni. Nel disordine della nostra vita pubblica, nel nostro scarso senso civico, nella nostra ‘cattiva educazione’. Quella tendenza ad anteporre sempre quello che ci conviene, il proprio ‘particulare’, al bene comune è appunto la nostra immaturità. E poi c’è anche una immaturità politica, che si accompagna all’altra: quella per cui siamo sempre talmente schierati da una parte da non riuscire mai a comprendere le ragioni, e perfino l’esistenza, dell’altra parte.”
“Infatti, ho notato che uno dei difetti principali per cui Pinocchio non riesce a diventare un uomo, è che dà sempre la colpa agli altri delle proprie malefatte.”
“Questo avviene anche da noi, in politica. Mai c’è stato uno che riconoscesse di aver sbagliato, che ammettesse la propria colpa fino in fondo.”».

Con quelle parole, l’intellettuale partenopeo ci parla ancora di quanto Pinocchio sia «l’unico vero personaggio della letteratura italiana», quello che «possiede tutti i tratti principali della nostra stirpe. L’indole, il modo di essere e di manifestarsi, i vizi e le virtù. Tutti i tratti del carattere italiano, non uno soltanto. E li rappresenta bene». Le bugie, che tutti dicono, «ma solo noi crediamo sinceramente che siano la verità»; i cinque zecchini d’oro, avuti da Mangiafuoco e con cui vorrebbe comprare una nuova giacca al suo babbo, ma che pianta, su suggerimento del Gatto e della Volpe, nel “Campo dei Miracoli” per «diventare ricco con poca fatica e da un momento all’altro»; le faine ladre di polli, che propongono al Pinocchio da guardia una gallina a settimana per non abbaiare, come facevano col cane Melampo, per una pratica «considerata naturale. Teorizzata. Eletta a sistema»; il Grillo Parlante, «la nostra coscienza che mettiamo sempre a tacere e forse abbiamo ucciso, come Pinocchio ha forse ucciso il Grillo»; la Fatina Azzurra, «una mamma sempre disposta a perdonare»; i Carabinieri, «che si lasciano scappare sotto il naso Pinocchio, che è loro prigioniero»; i Giudici, «come quello che, rovesciando tutta la logica della giustizia, condanna Pinocchio perché è stato derubato»; e Mangiafuoco, ché «quando ci sono i burattini esce sempre un burattinaio, e i burattini come Pinocchio rischiano di fare una brutta fine».

Come la legge Raffaele La Capria, quella storia parla ancora dell’oggi. In particolare, in quel quadro, nulla si troverebbe fuori posto, se lo si volesse usare come schema per leggere la modernità a queste coordinate.

E se questa non fosse pure la patria di Giacomo Leopardi, che due anni prima che Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nascesse e con oltre mezzo secolo d’anticipo sul Pinocchio, scriveva il suo Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani, potrebbe parer strano che un ritratto letterario fatto centocinquanta, duecento anni prima, calzi perfettamente al profilo attuale delle genti di qua.

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Difficilmente una tendenza s’inverte con un progetto

«Cinquantacinque abitanti, ventidue strutture ricettive, 21mila presenze turistiche nel 2023, una sola bimba in età scolare. Non stiamo parlando di un sobborgo iperturistico di Cortina d’Ampezzo o di Courmayeur. Stiamo parlando di un Comune in Alta Valle Maira, Valli occitane, Piemonte. Un paese simbolo di quel modello – definito appun­to “Valle Maira” – che virtuosamente più di una ventina di anni fa aveva messo insieme contesti ambientali di pregio, valorizzazione delle risor­se culturali e storiche, accoglienza e dimensione turistico-sportiva a basso impatto […]. Quell’unica bimba, a fronte di 21mila presenze turistiche, rappresenta la dimostrazione che qualcosa non ha funzionato. Ci avevamo creduto in tanti a quel progetto capace di coniugare ambiente, eredità storico-culturale, turismo soft e green. Ma bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: la patrimonializzazione e la valorizzazione delle risorse non determinano automaticamente abitabilità. Le decine di migliaia di presenze della Val Maira, spesso qualificate […], non hanno generato nuovi servizi, welfare, strutture commerciali locali. Gli operatori, terminata l’alta stagione estiva e invernale, ritornano a valle, verso le pianure, dove ci sono scuole e servizi per le famiglie».

Così si legge nel saggio La montagna, con altri occhi (cfr. primo volume della collana L’AltraMontagna, scritto da Antonio De Rossi e Laura Mascino, edito da People, 2025). Senza troppi misteri e letti i numeri, il paese descritto in quelle parole è Marmora, il cui sindaco, Roberto Colombero, nel rispondere negativamente all’interrogativo posto sulla possibilità che sia un modello turistico a invertire le dinamiche di spopolamento, aggiunge che, a parer suo, quell’inversione non si sarebbe avuta neanche se si fossero seguiti altri modelli di sviluppo turistico, magari più invasivi e performanti sotto il profilo dei numeri e degli introiti. E sono d’accordo con lui. Di più, nel suo ragionamento scritto proprio partendo dal saggio di De Rossi e Mascino, Colombero dice: «non possiamo non pensare quindi che l’inverno demografico del mondo occidentale, e che viaggia a braccetto coi cambiamenti climatici, se non affrontato in modo serio dai governi, colpirà duro tutti e soprattutto, per l’ennesima volta, le nostre comunità». Anche qui, totalmente d’accordo. Anzi, di più: in una presentazione del mio libro, mi è stato chiesto se ritenessi possibile invertire le dinamiche di spopolamento che lì racconto. La mia risposta è stata che quel calo avviene in un contesto continentale e nazionale di contrazione; difficile immaginare che a far controtendenza possa essere un’area interna e lontana dai servizi, situata su quella dorsale che già a metà del secolo scorso Manlio Rossi Doria definiva l’«osso» del Sud (cfr. M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria, Laterza, 1958), caratterizzata appunto da una struttura demografica debole e dispersa in piccoli centri, distanti e mal collegati con le are più produttive e fornitrici di servizi e strutture necessarie al vivere moderno.

I comuni montani della Valle Maira, nel loro complesso, sono passati dai circa 20.000 abitanti della fine dell’Ottocento ai meno di 3.000 attuali. Un fenomeno del genere non lo inverti con un “modello”, con un progetto di valorizzazione delle risorse locali, con un programma di rilancio del turismo, che sia a basso impatto o massivo. E non lo inverti se tutto ciò che ti circonda e contiene, regione, stato, continente, segna il tuo stesso meno, e se, per vivere, hai bisogno di accedere a beni e prestazioni che, vuoi per le necessarie economie di scala, vuoi per l’impossibilità di portarle altrove, sono quasi sempre concentrante negli agglomerati urbani più grandi e lontani dal territorio che si vuole rivitalizzare.

Quello che vale per quell’angolo delle Alpi Cozie può dirsi di quasi tutte le aree interne e montane; se fosse stato sufficiente mettere a frutto le risorse del territorio per rendere più vivibili e appetibili quei luoghi, sarebbe stato fatto, e milioni di persone non avrebbero, nell’ultimo secolo, abbandonato le campagne per la città. Non è avvenuto perché non poteva avvenire, almeno fino a oggi.

Ma c’è di più, io temo, ed è un non detto che spesso aleggia nei discorsi che sostengono i progetti di quel “ripopolamento” a cui si accennava (spesso non volendo vedere che lo spopolamento è una conseguenza delle difficoltà che vivono le aree interne, non la difficoltà in sé): l’idea che qualcuno – siano questi i primi a ritornare o gli ultimi ad andarsene, fate voi – rinunci a quei beni e servizi che in altri contesti si ritengono scontati. Salvo volerla pensare come i rappresentanti di certa élite che consiglia ai figli degli altri di prepararsi a far gli operai, mentre si assicura per i propri le scuole migliori e un futuro da dottori e dirigenti, perché i bambini coinvolti in quelle dinamiche di “rivitalizzazione delle aree interne” dovrebbero essere costretti, fin da piccoli, a ore di trasferimenti solo per andare a scuola? Perché agli stessi ragazzi dovrebbero essere precluse le esperienze di socializzazione che altri, in contesti diversi, hanno a portata di mano? Perché, per loro, le stesse esperienze dovrebbero avere una disagevolezza per i loro coetanei ignota, talvolta spinta al punto di dovervi rinunciare? E, in misure diverse, vale per gli adulti, che dovrebbero accettare impeghi e stili di vita meno confortevoli di quelli che, nei luoghi più abitati, si definirebbero minimi.

Sì, certo, la politica e i governanti dei territori potrebbero fare molto per garantire maggiori servizi alle aree più lontane dai centri maggiori. Rimarrebbe però il problema dell’oggi per quanti, “pionieri” o “resistenti”, in quei contesti si troverebbero a vivere. Nel paese in esame, per quella sola bambina in età scolastica, si potrebbe avvicinare la scuola, che, come sappiamo, non è solo un processo di apprendimento di nozioni, ma anche un percorso di crescita sociale con i propri pari? E per la seconda o il terzo (e stiamo parlando di un’improbabile triplicazione dei residenti) che potrebbero arrivare nei prossimi cinque, dieci anni, grazie a per ora inimmaginabili progetti di sostegno per chi vive nei territori marginali? Senza parlare di tutto il resto, dallo sport all’accesso alle attività formative parallele e aggiuntive.

A debita distanza da quelle difficoltà, immaginiamo che altri, volontariamente, se ne facciano carico, rinunciando a lasciare quei luoghi o tentando di viverli; stupiscono poco, a guardarli sotto la luce delle cose a cui accennavo, i numeri che narrano la progressiva spoliazione di quelli che un tempo furono paesi, con tutto il portato di esperienze e relazioni che esser paese significa (e qui, la rilettura di Pavese potrebbe aiutare), e oggi paiono destinati a rimanere vuoti.

Soprattutto se a ciò si aggiunge l’inesorabilità dei dati demografici complessivi di cui parlava anche il sindaco di Marmora. «La storia ci dice che i luoghi non sono eterni, “subiscono l’ingiuria degli anni” come tutto e tutti. Non sono eterni gli imperi, figuriamoci i piccoli paesi che la storia economica ha messo ai margini delle dinamiche sociali, economiche e politiche. Una mutazione abitativa che è inscindibile dalla storia evolutiva dell’uomo, dal suo farsi spazio nel mondo e trasformarlo in un luogo legato al soddisfacimento dei suoi bisogni primari», scriveva qualche hanno fa l’antropologo Giuseppe Melillo, contrapponendo questa storia viva allo straniante concetto di “borgo”, che omologa e umilia i paesi, persino togliendo loro il «diritto di morire con dignità dopo che gli è stata tolta la dignità di vivere».

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«Cercavamo braccia, sono arrivati uomini»

«Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini. Non divorano il benessere. Anzi, al contrario, sono indispensabili al benessere stesso. Però sono qui. Lavoratori ospiti o lavoratori stranieri? Io preferisco la seconda definizione: non sono ospiti che vengono serviti per ricavarne del guadagno. Sono persone che lavorano, e che lavorano all’estero, perché nella loro patria al momento non avevano possibilità di campare. Non si può volergliene male. Parlano un’altra lingua, ma anche in questo caso non si può volergliene, soprattutto perché la lingua che parlano è una delle quattro lingue nazionali. […] Se il piccolo popolo sovrano non si facesse un vanto della propria umanità e tolleranza e così via, il rapporto con la manodopera straniera, con i lavoratori stranieri, sarebbe più semplice: li si potrebbe sistemare in veri e propri campi di raccolta, dove potrebbero perfino cantare, e in questo modo non si riempirebbero di stranieri le nostre strade. Ma non si può farlo: non sono prigionieri, e nemmeno fuggiaschi. E allora ecco che vanno nei negozi e fanno acquisti, e quando hanno un infortunio sul lavoro o si ammalano vengono ricoverati anche loro negli ospedali. Ci si sente invasi dagli stranieri, e allora si comincia letteralmente a prendersela con loro. […] Si dice che risparmino un miliardo all’anno e lo spediscano a casa. Non era questo che s’intendeva. Risparmiano. E in fondo anche in questo caso non si può volergliene. Però sono qui, un’invasione di persone straniere quando invece, come detto, si voleva soltanto della forza lavoro. […] Lavorano bene, a quanto pare, sono perfino molto capaci: in caso contrario non ne varrebbe la pena, se ne dovrebbero andare, e il pericolo degli stranieri sarebbe scongiurato. Debbono comportarsi in maniera irreprensibile, meglio dei turisti, perché in caso contrario il paese ospitante rinuncia alla congiuntura economica. Questa minaccia, va da sé, non viene espressa, ad eccezione di alcune teste calde che non capiscono nulla di economia. In generale ci si mantiene sul piano di un tollerante nervosismo. Sono troppi, ecco il motivo. Ma non nei cantieri, non nelle fabbriche, non nelle stalle e nemmeno nelle cucine. No, sono troppi nelle ore libere, soprattutto di domenica all’improvviso sono troppi. Balzano agli occhi, sono diversi. Osservano le ragazze e le donne, fintanto che non possono portare le proprie all’estero. Non si è razzisti. In fondo è una tradizione non essere razzisti, e la tradizione si è confermata nella condanna di atteggiamenti francesi o americani o russi, per non parlare dei tedeschi, che hanno coniato il concetto di popoli aiutanti. Tuttavia sono diversi, ecco tutto. Mettono a repentaglio le peculiarità del piccolo popolo sovrano che non ama farsi descrivere, a meno che non si tratti di un autoelogio che non interessa gli altri. Adesso invece sono gli altri a descriverci».

La lunga citazione, con i suoi toni duri eppure necessari, è tratta dalla prefazione di Max Frisch a Siamo italiani. Die Italiener: Gespräche mit italienischen Arbeitern in der Schweiz, (EVZ-Verl, Zürich, 1965, a cura di Alexander J. Seiler, ora in M. Frisch, Gesammelte Werke in zeitlicher Folge, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1976-1986-1988, vol. V, pp. 374-376, e qui nella traduzione di Mattia Mantovani per il volume dallo stesso curato Cercavamo braccia, sono arrivati uomini, Armando Dadò editore, Locarno, 2012, pp. 91-93). Erano italiani, gli uomini dietro le braccia che si volevano per l’economia svizzera – e tra questi, sia detto per inciso, anche il mio nonno materno – negli anni in cui ai Gastarbeitern era proibito il ricongiungimento familiare, con il risultato di famiglie disseminate tra Gela e Zurigo, bambini lasciati nei centri di accoglienza del Nord Italia o fatti entrare di nascosto in svizzera e costretti a vivere celandosi tutto il giorno nei modesti alloggi dei genitori (toccante quel che racconta Nicoletta Bortolotti, nel suo Chiamami sottovoce, HarperCollins, 2018). Storie che ricordo, per amici cresciuti dai nonni ancora fino agli inizi degli anni ’80, lontani dalle mamme e dai papà, o di avventure che sembravano fantastiche, ad ascoltarle allora, con piccoli rannicchiati nei bagagliai di auto non grandi, dietro una vecchia valigia o sotto una scura coperta. E non sono diverse quelle dell’oggi, nel sentire cinico di non comprende le difficoltà mentre guarda, cerca o s’inventa la diversità, e nel dolore della separazione, con l’aggravante di distanze immense e un mare di mezzo a complicare orribilmente le vicende umane.

Anche qui in molti vorrebbero braccia nei campi e nelle officine, ma non uomini dietro queste, a spasso la domenica e nelle ore libere. Ed è l’ipocrisia crudele di chi intende il proprio benessere come diritto di nascita divinamente garantito, di chi ha paura di “snaturare” uno status quo spesso arbitrariamente definito o che al massimo fotografa il momento (“inforestierimento”, lo chiamavano in Svizzera fin dagli anni ’60, e allora i forestieri minacciosi erano gli italiani), ciò che rende molte volte sterile qualsiasi tentativo di analisi oggettiva dei fenomeni.

E che non di rado benevolmente guarda alla xenofobia, quando non apertamente al razzismo.

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Può un popolo per anni consenziente assolversi?

«Ma, dopo tutto, cos’era questo fascismo? Questa idea che avrebbe dovuto forgiare il secolo e si è invece dissolta nel giro di ventiquattro ore? Come ha potuto il re, dopo essersi professato suo unico amico, quell’ometto contorto e pavido cui lui aveva dato un impero, farlo arrestare sull’uscio di casa? Come hanno potuto i gerarchi, nullità a cui aveva dato tutto, revocargli il mandato nemmeno fosse un amministratore di condominio? Come ha potuto il popolo, che con lui si era pienamente identificato, maledire il suo nome dopo averlo venerato per vent’anni all’alba di tutte le mattine del mondo? E perché non c’è stata alcuna reazione? Fino a ieri in Italia c’erano milioni di fascisti tesserati al Partito, centinaia di migliaia di squadristi inquadrati nei ranghi della Milizia, decine di migliaia di suoi pretoriani dei battaglioni M. Eppure nessuno si è mosso. Nessuno. È uno sproposito che va oltre le leggi della fisica, un’azione violenta senza alcuna reazione – oltre ogni logica –, una civiltà che collassa senza fare rumore, si accartoccia su di sé con un gemito sordo – oltre ogni immaginazione –, una stella implosa nel silenzio siderale dei deserti cosmici. […] Un funzionario di polizia, di scorta durante la navigazione verso Ponza, glie ne ha rivelato sadicamente alcuni dettagli: Roma, la capitale che lui ha riscosso da secoli di decadenza, è imbandierata a festa; a Milano i rivenditori hanno rifiutato l’ultima edizione de Il Popolo d’Italia, che tributava un commosso saluto al Duce, poi gli operai sono saliti sul tetto della sede e, lettera dopo lettera, hanno divelto, incontrastati, la gigantesca insegna. Ovunque si strappano i galloni dalle divise della Milizia, si gettano i distintivi di Partito nelle fogne, si prendono a bastonate le statue con l’accanimento di una incolmabile sproporzione: il legno contro il bronzo, il legno contro la pietra, contro il marmo. Da ogni piazza le urla di giubilo salgono orbitali, le manifestazioni d’odio non si contano, i rancori sbracano in gesti grotteschi. Pare che ad Ancona qualcuno si sia preso la briga di trasportare un pesantissimo busto bronzeo di Benito Mussolini in un pisciatoio pubblico. […] Lui è politicamente defunto, il suo nome è bandito, i milioni di italiani che lo hanno glorificato fino a ieri, oggi lo detestano, maledicono il giorno in cui è nato. Lo odiano i vivi, i vivi e forse persino i morti».

Così Antonio Scurati, nel suo ultimo capitolo della pentalogia sul fondatore del fascismo, racconta i pensieri che assalgono Mussolini nei suoi giorni da confinato a Ponza, nel luglio del 1943, all’indomani della caduta del regime (A. Scurati, M. La fine e il principio, Bompiani, 2025, pp. 15-17). Ed è vero che, fino al giorno prima, o poco più, il consenso era granitico o quasi. Caduto il fascismo, nel ’43 e più ancora alla fine della guerra, nell’aprile del 1945, quanti dei sostenitori si scoprirono resistenti?

«Il visibile a acclarato consenso faceva aggio su tutto e tranquillizzava le coscienze. E il consenso non era semplicemente lo spettacolo delle adunate oceaniche, era anche la spontanea autocensura del giornalismo, la sempreverde, tacitiana “servitù spontanea”, la benedizione da parte della chiesa, l’ordine ristabilito e conclamato e apprezzato: a suo modo una ‘normalità’. Insomma un regime ‘rispettabile’ dotato persino di una fronda interna, di un brillantissimo conte ambasciatore d’Italia molto apprezzato dal Foreign Office (Dino Grandi), e di un para-intellettuale come Giuseppe Bottai protettore di riviste letterarie pervase ogni tanto da qualche critico frisson. E di sindacati finalmente “serî” e costruttivamente collaborativi, anzi corrivi. E di un fiorente e accorsatissimo “Dopolavoro”. E di tante altre “cose buone”, come ancora oggi molti benpensanti ripetono» (Luciano Canfora, Fermare l’odio, Laterza, 2019, p. 12).

In quelle parole, Canfora ricordava gli aspetti che piacevano tanto ai liberali, ai vari Croce, Einaudi e allo stesso Giolitti, che non disdegnavano, al principio dell’esperienza dei fasci di combattimento, di poter dare una mano per consentire al fascismo di farsi argine contro il pericolo del partito di Gramsci. E tra questi, non ultimo il consenso che il fascismo riusciva a mobilitare nelle masse e nei ceti popolari. Perché appunto il consenso c’era, e non solo negli anni migliori del regime, come spiegò, a suo tempo, un controverso De Felice. Ci fu fin da subito, e non ricordo indignazioni popolari eccessive alle notizie del farsi di un sistema che affermandosi, nelle sorti di Matteotti e di altri, si dimostrò per quel che era. Ci fu al suo apice, quando si festeggiava in piazza l’annuncio delle leggi razziali o l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. E ci fu perfino dopo quel luglio del ’43, quando la caduta era già tutta dispiegata ed evidente, se si pensa che, ancora nel dicembre del 1944, in molti tributarono onori e gloria al duce a Milano, in via Rovello. Tanti, quel giorno, come lo erano quelli che, pochi mesi dopo e a pochi metri da lì, in piazzale Loreto, dello stesso volevano ridurre in brandelli il corpo. E forse, erano pure gli stessi.

E consenso ci fu, per quanto più elegante, va detto, tra i colti e gli intellettuali, persino fra coloro che poi, come si è detto, si scoprirono antifascisti. Quanti furono i professori a non firmare il giuramento di fedeltà al fascismo? Quanti si protestarono indignati all’approvazione delle norme contro gli ebrei? Quanti devono esser stati pochi, se persino uno che mai recriminò verso chi faceva carriera mentre lui consumava la sua vita in prigione, come Vittorio Foa che ricordò (cfr. V. Foa, Passaggi, Einaudi, 2000, pp. 4-5) quanto «non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza»?

Alla fine, e a alla vigilia dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, mi chiedo se, e come, quel popolo — e questo che gli è erede, senza aver mai fatto i conti fino in fondo con le responsabilità e le colpe di storia — potette assolversi in pochi giorni o mesi dai due decenni precedenti e da quanto in quelli accadde.

Tempo perso, il mio? Probabilmente sì. Ma mi serve anche per ricordare che il consenso non basta, a far democrazia.

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Frontiere a pagamento

«Now Jonah’s Captain, shipmates, was one whose discernment detects crime in any, but whose cupidity exposes it only in the penniless. In this world, shipmates, sin that pays its way can travel freely, and without a passport; whereas Virtue, if a pauper, is stopped at all frontiers».

Nella traduzione di Cesare Pavese:

«Ora, compagni, il capitano di Giona era uno di quegli uomini sagaci che capiscono subito se uno è colpevole ma per la loro cupidigia denunciano solo i poveri. Su questa terra, compagni, il peccato che paga può andare in ogni luogo e senza passaporti, mentre la Virtù, se è povera, viene fermate a tutte le frontiere!» (H. Melville, Moby Dick, Adelphi, 1987, p. 78).

Quelle parole, Herman Melville le mette nel sermone di Padre Mapple che, la domenica prima di raggiungere Nantucket da cui salperà a bordo del Pequod, Ismaele ascolta nella Cappella del Baleniere di New Bedford. Come tanti altri classici, Moby Dick è uno spaccato sul mondo. E in quanto tale, spaccato sul mondo e classico, molte delle cose che dice sono valide al di là dei tempi e oltre i luoghi. Così, oggi come ieri, la miseria, persino se virtuoso è chi la porta, è fermata a tutte le dogane, mentre la ricchezza, anche se frutto del peccato e del delitto, ha libero accesso in ogni dove. La prova? Ieri Trump, il campione del respingimento dei poveri alle sue frontiere, indipendentemente dai loro demeriti, ha presentato la sua gold card per la residenza negli Usa: 5 milioni di euro e si ottiene il visto permanente e il percorso facilitato verso la cittadinanza. Faranno accurate indagini sull’origine delle ricchezze di chi paga? Pecunia non olet, potrebbe postare The Donald, se mai conoscesse il latino.

È il sogno americano a infrangersi sulle politiche del tycoon alla Casa Bianca, probabilmente lo stesso dei suoi nonni, tutti e quattro nati in Europa ed emigrati in America, situazione che farebbe di lui appena un immigrato di terza generazione (e forse neppure cittadino statunitense, senza quello ius soli che fece di suo padre un americano e che lui vorrebbe togliere per altri), se qualcuno avesse voglia di fargli i conti nell’albero genealogico.

D’altronde, non è una novità; negli States, gli investitori danarosi, attraverso il programma EB-5, potevano ottenere la Green card semplicemente investendo un milione di euro in alcuni fondi per lo sviluppo gestiti dal governo. A mutare è l’approccio; nel mentre si scacciano i poveri che cercano una vita dignitosa, ci si appresta ad accogliere in tripudio i ricchi, con tanto di Trump card effigiata in oro.

Sarei curioso di sapere cosa ne pensano i tanti che hanno votato per lui dicendolo «dalla parte del popolo», difronte a tutto questo e in vista di un aumento dei prezzi per effetto della sua politica di dazi che difficilmente sarà compensato da altrettante salite nei salari. Ma temo di conoscere già le possibili risposte e i loro sentimenti. Nel suo bel romanzo distopico, pubblicato nel 1935, in cui si immagina la vittoria nelle elezioni americane del ’36 di un emulo di Mussolini e Hitler, il personaggio letterario di Buzz Windrip, e l’instaurazione di una dittatura, Sinclair Lewis scriveva:

«Serpeggiava un certo malcontento fra persone che un tempo avevano posseduto automobili e stanze da bagno, e mangiato carne due volte al giorno, nel dover camminare quotidianamente quindici o trenta chilometri, fare il bagno una volta alla settimana in un lungo abbeveratoio insieme ad altri cinquanta individui, pasteggiare con carne solo due volte alla settimana – quando andava bene – e dormire in letti a castello, un centinaio per stanza. Eppure ci furono meno episodi di ribellione rispetto a ciò che un mero razionalista come Walt Trowbridge – il rivale di Windrip, sconfitto in modo ridicolo – si sarebbe aspettato, poiché ogni sera l’altoparlante recava agli operai le preziose voci di Windrip e di Sarason, del vicepresidente Beecroft, del segretario della Guerra Luthorne, del segretario dell’Istruzione e della Propaganda Macgoblin, del generale Coon, o di qualche altro genio. E questi dei dell’Olimpo, rivolgendosi ai reietti più sporchi e più stanchi come se parlassero ad amici intimi, dicevano loro che avevano l’onore di essere le pietre angolari di una Nuova Civiltà, l’avanguardia di un movimento che avrebbe conquistato il mondo intero. E quelli, come i soldati di Napoleone, ci credevano.

E comunque avevano gli ebrei e i neri da guardare con disprezzo, ogni giorno di più. A questo badavano gli MM (i “Minute Men”, il braccio armato del presidente, organizzati come le camicie brune o nere dall’altra parte dell’Atlantico, n.d.r.). Ognuno è re, finché può guardare qualcun altro dall’alto in basso» (S. Lewis, Qui non può succedere, Chiarelettere, 2024, p. 173).

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Il silenzio è complicità

Scrive Jonathan Blitzer sul New Yorker, a proposito delle disumane politiche in tema di immigrazione annunciate e lanciate dall’amministrazione Trump: «The only way to counteract such maneuvers is to call them out – something that the Democrats have yet to do. The President spoke publicly about the Guantánamo plan at a press conference where he signed the first law of his second term: the Laken Riley Act, named for a Georgia nursing student murdered by an undocumented Venezuelan immigrant last year. The law, which requires the detention of any undocumented person charged with a misdemeanor, such as shoplifting or minor theft, passed with bipartisan votes. Congressional Democrats and their staffs say privately that, on immigration issues, the voters “have spoken.” Trump’s promise to execute mass deportations may have helped him win, but it’s one thing for Americans to support a slogan and quite another for them to face up to the human consequences. If Democrats don’t look away, maybe the public won’t, either».

Permettendomi la traduzione, dice: «L’unico modo per contrastare tali manovre è denunciarle – qualcosa che i Democratici non hanno ancora fatto. Il Presidente ha parlato pubblicamente del piano su Guantánamo durante una conferenza stampa in cui ha firmato la prima legge del suo secondo mandato: il Laken Riley Act, intitolato a una studentessa di infermieristica della Georgia assassinata lo scorso anno da un immigrato venezuelano senza documenti. La legge, che impone la detenzione di qualsiasi persona senza documenti accusata di un reato minore, come taccheggio o furto di lieve entità, è stata approvata con voti bipartisan. I Democratici al Congresso e i loro staff affermano in privato che, per quanto riguarda l’immigrazione, gli elettori “hanno parlato”. La promessa di Trump di eseguire deportazioni di massa potrebbe averlo aiutato a vincere, ma una cosa è sostenere uno slogan, un’altra è affrontare le conseguenze umane. Se i Democratici non distoglieranno lo sguardo, forse nemmeno l’opinione pubblica lo farà». Era il senso del messaggio della vescova Mariann Budde, nel suo sermone dopo la cerimonia d’insediamento di Trump e come lei stessa, pochi giorni dopo, spiegava al Nyt: «I had a feeling that there were people watching what was happening and wondering if was anyone going to say anything? […] If was anyone going to say anything about the turn the country’s taking?». Proprio su questa orribile piega, non si può e non si deve tacere.

A stupire, come nota Blitzer, è il silenzio dem. Trump immagina i suoi States come una fortezza assediata, i cui confini devono essere ermeticamente chiusi, perché chiunque li attraversi può essere un problema e una minaccia. Su questa visione, è vero, ha vinto le elezioni. Ma i Democratici che gli si oppongono, su questo, tacciono o, peggio, non sono propriamente contrari. Tutti, anche i più radicali nel contrastarlo sul resto.

«Our God teaches us that we are to be merciful to the stranger, for we were once strangers in this land», aveva detto la vescova Budde guardando negli occhi il Commander in Chief; e non credo che quel Dio distinguesse in base ai documenti posseduti nel momento di attraversare quella linea tracciata dagli uomini e che chiamano confine. «Give me your tired, your poor,/ Your huddled masses yearning to breathe free,/ The wretched refuse of your teeming shore./ Send these, the homeless, tempest-tost to me,/ I lift my lamp beside the golden door!», dice il Colosso di Emma Lazarus, nella poesia riportata sul basamento della Statua della Libertà.

Noi non possiamo tacere.

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Della libertà e dei suoi affanni

Scrive nel prologo del suo recente saggio Ilko-Sascha Kowalczuk: «gran parte dei tedeschi dell’Est ha subito uno “shock da libertà” allorché si è trattato di prendere controllo delle proprie azioni e di definire il cammino da percorrere. […] In effetti, la maggior parte di loro confondeva il benessere materiale con la libertà […]. Il benessere materiale rende molte cose più facili, ma non rende le persone più libere né è un prerequisito per la libertà. Lo “shock da libertà” di molti tedeschi dell’Est derivava da considerare la libertà come una conseguenza del benessere materiale, della democrazia e dello Stato di diritto. Le “idee del 1989” erano idee di libertà, idee che troppo raramente nel corso della storia sono state capaci di ottenere il consenso della maggioranza. La libertà non è qualcosa che una volta data esiste per sempre. Ogni generazione, a patto che le vengano garantite le condizioni per vivere in libertà e in democrazia, deve acquisire di nuovo una pratica con essa» (I.-S. Kowalczuk, Shock da libertà. La Germania, l’Est e l’ascesa dell’estremismo, Donzelli editore, 2025, pag. 7).

Il volume dello storico tedesco è incentrato sul fenomeno della crescita, negli ultimi anni, dei movimenti estremisti nell’ex Ddr, ma l’approccio umano al tema della libertà vale per i tedeschi dell’Est come per gli uomini in generale. E mi ha fatto tornare in mente, in quel suo passaggio sulla confusione tra libertà e benessere materiale, le parole del carbonaio che concludono la novella verghiana Libertà, ispirata ai fatti di Bronte durante la spedizione dei Mille. Spinta dalla promessa di distribuzione della terra echeggiata in quella temperie, la folla della cittadina siciliana dà l’assalto ai ricchi e alle loro proprietà. Quando, con l’arrivo di Brixio in paese, viene d’autorità ristabilito l’ordine e comminate le pene, sommarie, per gli assalti, anche al carbonaio tocca il conto con la giustizia degli uomini, e «mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…». (Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle, Mondadori, 2004, vol I, p. 25).

C’è il dato materiale, certo, sia nella confusione dell’oggi di cui parla Kowalczuk, sia nelle parole della folla di cui narra Verga. E c’è, ieri come adesso, la coscienza di quanto sia più facile non dover scegliere. Sempre Kowalczuk fa iniziare quel suo saggio con le parole di un romanzo di Hans Fallada:

«La prima giornata emozionante con il suo andirivieni, con la presentazione, la vestizione, l’assegnazione è finita, la reclusione è completata, e Kufalt siede solo sul letto della cella 207.

I soliti, familiari rumori serali riecheggiano ancora nella prigione: un letto sbatte sul pavimento, qualcuno fischietta nella sua cella e il suo vicino protesta con un ruggito, due persone parlano da una finestra all’altra al piano sottostante, il coperchio di un secchio tintinna, un cane da guardia ulula nel cortile.

Kufalt sta bene, Kufalt è soddisfatto. Ha una bella cella, il materiale è impeccabile, le spazzole sono come nuove […]. All’inizio non si può essere troppo impertinenti, con il tempo s’impara dove si può rischiare […]. Ma è meglio qui che fuori […]. Kufalt si è tirato la coperta fin sulle spalle, in gattabuia c’è un bel silenzio, dormirà benissimo.

È bello essere di nuovo a casa così, senza più preoccupazioni.

Quasi come quando tornavi a casa con tuo padre da tua madre.

Quasi?

Anche meglio, in realtà. Qui c’è pace e tranquillità. Qui nessuno ti parla. Qui non devi decidere nulla, non devi compiere alcuno sforzo.

È bello sentirsi così. Sono davvero a casa.

E Willi Kufalt si addormentò dolcemente, sorridendo sereno».

(H. Fallada, Wer einmal au dem Blechnapf frißt, Aufblau-Verlag, 1967, pp. 540-543, qui in I.-S. Kowalcczuk, op. cit., pp. 5-6)

Volendo essere meno rigidi, e quindi lontani dai possibili universi carcerari, si può usare uno spot, per capire come quei sentimenti, quella tranquillità del non dover scegliere siano ancora attuale. Dopotutto, ce lo insegnò Pasolini quanto una pubblicità può essere indicativa dello zeitgeist, allorché vide nella reclame di una marca di jeans la rinuncia della moralità cristiana all’avanzata del consumismo amorale. Nondimeno, in una pubblicità d’una nota azienda telefonica di pochi anni fa, un altrettanto noto volto televisivo spiegava perfettamente il senso ultimo di quest’epoca. Dopo aver elencato i tanti prodotti connessi all’offerta, il testimonial diceva: «Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?».

Ascoltando parole come queste, è difficile non pensare a quelle che il Grande Inquisitore di Dostoevskij rivolge al Cristo che ritorna sulla terra: «Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che essi [gli uomini, nda], nella loro semplicità e innata sregolatezza, non possono nemmeno concepire, una libertà che temono e paventano, giacché non c’è mai stato nulla di più insopportabile, per l’uomo e per la società umana, della libertà» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamzov, Garzanti, 2019, vol. I, pp. 350).

Non dover scegliere è davvero magnifico? Non credo. Però è comodo e può essere, in un contesto di sicurezza materiale, appagante, quello sì; è il dubbio a essere pesante, spesso difficile, a volte addirittura insostenibile per le spalle non abituate. La tranquilla certezza di non dover decidere rende invece felici i devoti di Ananke, la dea greca della necessità: così è perché così dev’essere, e a noi lasciateci in pace, rifocillati e tranquilli.

Dopotutto, lo sappiamo, la libertà è scomoda, e spesso la servitù è volontaria, come ci spiegò La Boétie (cfr. É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, 2015); se poi a questa si può unire qualche bonus e un po’ di garantito benessere, perché non sentirsene compiaciuti? Da tempo i più rivoluzionari hanno messo da parte le armi, quando hanno scoperto che nessuno voleva la rivoluzione, ma al massimo l’aumento salariale. La libertà, nel nostro tempo e nel nostro mondo, è tutt’al più la libera facoltà di accaparrarsi “la roba”, appunto, come quei rivoltosi “rusticani” di Verga a cui sopra si accennava.

E quella facoltà di scegliere, di disegnare da sé il proprio futuro, di definire contesti diversi? Ma chi la vuole! Qui ci bastano le cose che possiamo contare e contenere, e una tariffa all inclusive che le contabilizzi e le contenga tutte. Così, infinite possibilità si riducono a una sola rinuncia: quella libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?

Così camminando tutti noi da sempre, l’ultimo uomo adombrato dallo Zarathustra di Nietzsche, che «non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare» (F.W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, tomo I, Adeplhi, 1973, pag. 11), è sempre più vicino.

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Una piazza contraddittoria; ma è davvero un male?

La piazza di sabato, o meglio le piazze, visto che le manifestazione per l’Europa si sono tenute in molte località, sono state tante tante cose. Diverse, sicuramente in sé stesse. Opposte, nella visione dei critici. Di certo contraddittorie, nella loro precisa impostazione. Ma è poi davvero un male, questa loro apparente e manifesta incoerenza interna?

Insomma, se quelle manifestazioni le avessimo analizzate secondo le categorie che usavamo fino a qualche decennio fa, almeno nella loro genesi le avremmo definite iniziative della “società civile”. Ne abbiamo viste altre, negli anni passati, con ambizioni più o meno elevate di quella presente, comunque con incongruenze accentuate o solo accennate, presenti in ogni caso. Dopotutto, per quanto civile, è pur sempre una società quella che li immagina. Manca una piattaforma condivisa fin nei particolari? Sì. C’è confusione fra le strategie per arrivare all’obiettivo comune? Forse. Però, quest’ultimo è definito – la richiesta di un rafforzamento dell’Unione Europea, in chiave federalista, fino all’idea degli Stati Uniti d’Europa –, al di là delle differenti strategie e delle piattaforme politiche. Ingenua, magari, e sostenuta da un discorso non sempre coerente, nelle componenti che lo animano; «Ma chi, chi ha mai detto che una spinta nuova può nascere già tutta compiuta, quasi in bella copia? […] solo i pedanti possono stupirsi se ci sono tutt’ora delle lacune, delle improvvisazioni, delle sgrammaticature» (Pietro Ingrao, 4 marzo 1983, XVI congresso del Pci).

Civile o meno che la si voglia, una società ha poi in sé una diversità di posizioni e idee su come raggiungere gli obiettivi finali, persino quando questi sono identificati all’interno di un orizzonte di consenso condiviso. Pur cercando di star qui lontani dalla dicotomia “Gemeinschaft vs Gesellschaft”, va detto che un programma politico più concreto e coerente lo si trova in una comunità politica, ma che non è e non era questo quella che è scesa in piazza sabato.

Era ed è una società, con tutte le contraddizioni che in essa ci possono essere. Per questo facilmente attaccabile dai detrattori e in ciò probabilmente più debole nel veicolare il messaggio, laddove una comune voce unisona e un tetragono impianto ideologico comune nelle parole di tutti i partecipanti fin nel minimo dettaglio avrebbe ottenuto risultati più immediati e d’impatto. «Ma è male fermarsi, difficile contentarsi di un solo modo di vedere, privarsi della contraddizione, che è forse la più sottile delle forze dello spirito» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, 2000, p. 258).

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Per non cedere alla “sindrome di Fermor”

Oscar Wilde traccia un personaggio particolarissimo, nel suo Dorian Gray, in appena un paio di pagine. Si tratta di Lord George Fermor, zio del ben più presente Lord Henry Wotton, del quale accenna, curiosamente, anche alle sue idee politiche. Di queste scrive: «In politics he was a Tory, except when the Tories were in office, during which period he roundly abused them for being a pack of Radical» (O. Wilde, The picture of Dorian Gray, chapter 3).

Categoria nota, quella dei “Fermor”, ma più che ai conservatori, spesso applicabile a riformisti e progressisti. Ora però il tema che si pone è di natura diversa. Per le sfide politiche che si hanno davanti, e per gli uomini e le idee con cui tocca confrontarsi, in non pochi hanno parlato di ritorno del fascismo quale avversario. Bene: allora serve un CLN. E una cosa così, la costruisci senza fare l’analisi del sangue a tutti i possibili alleati, per cercare (e facilmente trovare) motivi di esclusione reciproca. In questo modo, quelli vincono. E se diciamo che sono fascisti, non possiamo andare in contro a questa eventualità come se nulla fosse.

Anche perché, di cosiddetti scheletri nell’armadio ne hanno tutti: chi ha votato il jobs act, quelli che han sostenuto i “decreti sicurezza”, quanti fino a ieri proprio da quella parte da cui giunge il pericolo più nero guardavano con interesse e intenzione. Il punto è che cosa facciamo oggi per il domani. Ed è un punto non evitabile attraverso formule di rito, discussioni infinite, puntualizzazione delle innumerevoli differenze e diversità.

Salvo scoprire poi che è troppo tardi per evitare il peggio.

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