Dalla parte di chi?

Si sta sempre più affermando l’idea che in politica possano esserci scelte neutrali o, peggio ancora, tecniche e funzionali. La pericolosità di una simile teoria sta tutta nella sua apparente oggettività.

Come può non essere vero che alcune decisioni debbano essere prese indipendentemente dalle convinzioni politiche dei decisori? Ad esempio, come può non essere obiettivo che troppe regole sul mercato del lavoro ingessino le relazioni fra imprenditori e dipendenti, limitando le possibilità d’azione dei primi, e quindi gli spazi per nuove assunzioni? Come può non esserlo il fatto che gli attuali livelli di welfare, in una fase di contrazione dell’economia, siano insostenibili, che il privato funzioni meglio del pubblico, perché ha interesse all’efficienza, o che, infine, per determinate posizioni o ruoli, un politico sia idoneo a prescindere dalle proprie idee, perché la natura istituzionale del ruolo le renderebbe asettiche e imparziale la sua azione?

Tutto ciò, ovviamente, prescindendo, appunto, dalla realtà e dall’esperienza, la quale ci dice che, da quando è iniziata la deregulation nel mercato del lavoro, a crescere è stato solo il numero delle forme di contratti possibili, non certamente quello degli occupati, che, anche in una contingenza economica negativa, ridurre le spese per lo stato sociale o quelle militari è il frutto di una visione politica definita, non una conseguenza naturale delle cose, che il privato mira al profitto, e spesso l’efficienza è calcolata contando gli utili, non valutando la qualità del prodotto o del servizio, e che chi ricopre un ruolo, lo fa sempre portandosi dietro le proprie opinioni, mai prescindendo da esse.

Eppure, il traguardo ultimo della fine di tutte le altre ideologie ha consentito all’unica rimasta (dominante perché della classe dominante, direbbe Marx) di nascondere la sua natura ideologica, di parte, e presentarsi come la risultante della ragione applicata alla politica. Sta in questo, inoltre, pure la radice del “non ci sono alternative”, la sorgente di quel sedicente realismo che, sotto la dittatura d’un malinteso senso della concretezza, diviene cinismo.

Così, la politica diventa il regno delle scelte ineluttabili, delle decisioni non decise, dell’unico modo per fare le cose. Altro che sognare una nuova e diversa società possibile; il pensiero corto impone questa come la sola ammissibile e ammessa, in cui si può contribuire, al massimo, per azioni, provando a contendersi l’esito nel processo di nomina dei governanti, non certo gli esiti alternativi d’un alternativo governo dei processi.

In questo modo, dismettono il loro ruolo di rappresentanza di una parte i politici, e quindi i partiti. Perché nel regno delle decisioni obbligate, non ha senso definirsi di una parte o di un’altra. Anche perché, dalla parte di chi sarebbe, se le scelte sono sempre e solo le stesse?

Ma forse sbaglio io, e magari si possono davvero condividere le stesse idee economiche degli avversari, avere le medesime teorie sociali di quelli a cui si vuol contendere il governo o, meglio, il potete o sostenere un esponente (pure del proprio partito, essendo, ormai, indifferente un concetto quale quello di appartenenza) di cui non si condivide nessuna convinzione, e senza alcuna ragione politica, ma solamente lasciando il campo a spiegazioni “tecniche e funzionali”.

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