È la libertà del mercato, bellezza

Oggi è l’ultimo giorno in cui l’Unità sarà in edicola. Forse questo stop non è definitivo, come non lo sono stati gli altri che hanno interessato il giornale in passato. O forse sì, chissà. Domani, il “quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924”, definizione nostalgica che ormai allude più al sottotitolo di quanto ambisca a tracciare coordinate politiche, non sarà in edicola, tutto qui.

In questi giorni, ho letto tanti appelli in favore della storica testata, tante riflessioni sulla sua importanza e anche tanti #iostoconlunita, che se solo la metà degli hashtagghisti fossero stati lettori, le sorti del quotidiano ora sarebbero diverse.

Più di tutti, mi hanno colpito quelli che lamentavano, con la fine de l’Unità, lo spegnersi di una “voce importante per il pluralismo”. Il pluralismo? E che c’entra con i destini di una testata giornalistica nell’economia di mercato? Quel giornale chiude perché non vende, che per il mercato è l’unico valore che conta perché si può contare. Contabilizzare, come il numero di copie vendute: troppo poche per attrarre gli investitori pubblicitari e sostenere le spese per la sua realizzazione e diffusione.

Il pluralismo ha a che fare con le idee, e quelle che interessano ai pochi hanno la stessa dignità di quelle che interessano ai molti. Per il pluralismo, non importa sapere se un’opinione è di moda o meno; importa sapere che c’è e che si possa esprimere. Il pluralismo, però, non si muove su valori contabili, ed è qui il limite.

Per il mercato, invece, la pluralità delle visioni ha senso ed è sostenibile fintantoché queste abbiano numeri sufficienti per essere giustificate, abbiamo mercato, appunto. E non mettano in discussione le sue regole, ovviamente. Anzi, per il mercato contano i numeri a sostegno delle opinioni, e più questi sono grandi, meglio è per quelle opinioni. In definitiva, il mercato persegue il conformismo, non il pluralismo.

Perché il pluralismo delle idee, magari, spinge a riflettere, e per il mercato è meglio che la società rifletta il meno possibile. Il conformismo, invece, è perfetto: spinge tutti a volere le stesse cose, a ricercarle e a comprarle. L’ultimo modello di automobile, di telefono, di vestito, che poi sarà sempre il penultimo e il qualcosa che manca per essere come tutti gli altri cercando di distinguersi, in un gioco infinito perché non debba avere fine.

Il nostro Paese, in questo, è radicale. Ha accettato i dogmi del mercato con un’ortodossia tale che è quasi commovente. Per adeguarsi, ha rinunciato anche alla tentazione di avere pensieri autonomi, non conformi. Ecco allora che siamo scivolati in fondo a tutte le classifiche per il consumo di libri e giornali (e – di conseguenza? – in quelle che misurano il tasso di democraticità delle nazioni).

Il mercato ha capacità di regolazione endogene, ci dicevano. E infatti, da solo ha regolato i conti con la cultura, relegandola a un ruolo ancillare di supporto alla sua Weltanschauung totalizzante e schiacciando quell’autonoma e indipendente nell’angolo dell’irrilevanza, condannandola all’estinzione sottraendole le risorse che solo da lui potevano venire, dato il ritiro di ogni altra forma di sostentamento.

È la libertà del mercato, bellezza. Il mercato sceglie, e sceglie anche per noi che, liberamente, possiamo scegliere fra le sue scelte. Quello che al mercato non interessa, muore. Non facciamone una tragedia: è così che va il mondo.

A meno che non si abbia voglia di lavorare per la realizzazione di un modello diverso, senza arrendersi culturalmente a quanti, da troppo tempo e non sempre senza interessi, continuano a dirci che “non ci sono alternative”.

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