Quando un partito va in piazza, a me fa sempre piacere. Sarà per l’idea di democrazia del foro che ho, ma solitamente è quando i partiti si chiudono nelle loro stanze, per dirla con Majakovskij, che siano di sezione o istituzionali, che mi rattristo. La manifestazione del Pd, quindi, sotto questo punto di vista è apprezzabile. Avrei apprezzato che loro avessero stigmatizzato e ridicolizzato meno le iniziative di chi, appena politicamente nato, in quelle stesse piazze cercava di sensibilizzare ai propri temi, però non si può aver tutto. Detto ciò, rimane il merito, e di quello provo a parlare.
Illuminante, sotto tale profilo, è un video-resoconto di pochi minuti realizzato da Il fatto quotidiano. Si vedono Zanda e Cuperlo in centro, a Campo de’ Fiori, anonimi militanti desiderosi di portare (letteralmente) “il renzismo in tutti i territori”, un po’ come il verbo del nuovo corso, credo, Poletti ai banchetti di via Catania, quartiere Nomentano, Orfini in una via di Tor Bella Monaca. E poi la risposta o meglio le domande dei passanti, come quelle dell’ex operaio pensionato che dice che il Pd non è più di sinistra, forse perché ricorda le stesse facce dirgli il contrario di quanto affermano oggi, e cioè che di sinistra era difendere l’articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori, tutelare l’ambiente contro la politica delle grandi opere, difendere l’autonomia dell’insegnamento avversando la chiamata diretta dei presidi, oppure della signora che chiede al ministro del lavoro, e non si capisce il confine fra la polemica e la retorica, dato che la questione è tanto vera quanto eterna, perché nelle liste dei disoccupati non ci siano i figli dei potenti.
Gli eletti, invece, cercano di ricoprire questo nuovo e incomprensibile ruolo. Da un lato, si dicono in ascolto, dall’altro, le cose di cui parlano le hanno già fatte, per cui al massimo le si propaganda, e non si capisce su quali vorrebbero sentire l’opinione degli elettori. Zanda è in evidente imbarazzo, come d’altronde Poletti, e ignorarne le parole è fin troppo facile, anche perché non si capiscono. Cuperlo spiega di aver invitato il segretario Renzi a indire un congresso straordinario, senza discutere di leadership, ma di identità del partito, e verrebbe voglia di prenderlo sottobraccio, condurlo in un bar, offrirgli una birra e spiegarli che “sì, siamo a dicembre, ci sono gli addobbi, ma è ora che qualcuno te lo dica: Babbo Natale non esiste”.
Poi c’è Orfini, che quando non se la prende con gli utenti di Facebook, forse perché non tutti hanno una playstation, tira fuori dal suo smartphone una cartina con le zone della Capitale colorate in base ai voti presi dal partito che presiede, per far notare come quelle percentuali siano più alte al centro che in periferia. E quindi dice che bisogna parlare a quelle zone in cui non arriva il messaggio del “Nazareno”, la sede centrale, ovvio, e per farlo hanno scelto lui, uno di Prati che ha fatto il Mamiani.
Battute a parte, Matteo in seconda non ha torto: il limite dal Pd è nel voto quasi esclusivamente del centro, dei ceti più o meno abbienti, di quella che un tempo si sarebbe chiamata “borghesia”. Dopotutto, quel partito oggi è questo, il volto dei figli di papà banchieri e imprenditori, dirigenti e professionisti, con dietro una pletora di intraprendenti funzionari che usano la politica come unica scala per l’affermazione personale nei gangli dell’amministrazione e delle aziende, non necessariamente di Stato.
Il popolo, quando non è sprezzantemente additato a “popolino”, semplicemente è ignorato, e ripaga la meglio gioventù al potere con la stessa moneta di indifferenza e cinismo. Una novità? Macché, è così da troppo tempo, da quando la supponenza dei “migliori” ha inteso opporre l’arroganza della propria perpetuazione a quanti, alle loro dotte analisi, rispondevano con semplici esigenze e la richiesta di una reale partecipazione.
Ecco perché rischia di non funzionare la chiamata alle armi e al coraggio, sebbene, complice l’astensionismo dilagante, può riscuotere discreti successi elettorali. Perché suona simile alla professione di uguaglianza fra gli amici di sempre in Italia-Germania 4-3: stessa compagnia, stessi ideali, stesso quartiere; uno attico, l’altro portineria.
Oppure, per andare ancora più indietro e se preferite letture, per così dire, classiche, come quel «segnale, piccolo ma doloroso» di un vero e proprio «cambiamento di status e di prospettiva» che Miriam Mafai, nel suo Botteghe Oscure, addio, vide nell’installazione «di due diversi ascensori: il primo, al quale si accedeva direttamente, oltre la vetrata dell’ingresso, era riservato ai membri della direzione e portava ai loro uffici; il secondo, in fondo a sinistra, era per tutti gli altri, compagni dell’apparato, tecnici, e dirigenti. Il segno di una separazione che prima, in via Nazionale, non era nemmeno pensabile. Un piccolo colpo al cuore per quanti, un po’ ingenuamente, pensavano che nel partito, in anticipo rispetto alla società, dovessero realizzarsi i principi dell’uguaglianza».