Ma quale “contendibilità”?

Dal giorno in cui è stato chiaro che non saremmo riusciti nel difficile intento di trovare le 500 mila firme a sostegno dei referendum, anche i giornalisti si sono accorti che da tre mesi le stavamo raccogliendo, persino l’Unità, pensate. Non sono mancati poi quelli che l’avevano detto, ché loro lo dicono sempre, quelli che si è sbagliato a partire d’estate, e d’estate lo scorso anno raccoglievano le firme, quelli che i quesiti andavano condivisi, ed erano i sindacalisti di sinistra che ieri firmavano per quello della Lega sulla “legge Fornero”. Ma tutto questo è normale, prevedibile e infatti previsto. Ciò che mi fa riflettere è leggere di chi, in quel risultato, vede la conferma della propria tesi per cui extra ecclesiam, nulla salus, fuori dal Pd, per la sinistra, non c’è possibilità.

Una sintesi di queste interpretazioni l’ho trovata in un post di un blogger della rete dell’Huffington. Scrive infatti Pietro Raffa: “Andar via da un partito – il Pd – che, con tutti i difetti, è l’unico in Italia a poter vantare una leadership contendibile, è stata una scelta pessima”. Ma guardi, Raffa e tutti quelli che la pensano così, che in tanti non siamo andati via dal Pd perché la sua leadership non era contendibile, ma perché tutto il suo corpo ha preso a fare cose che non ci piacciono. Per un partito che fa quelle scelte io non voterei nemmeno, come potrei esserne parte? La “contendibilità”? E che sarebbe? Non ho aderito al Pd per diventarne leader, ma perché mi riconoscevo in quello che diceva di voler fare. E me ne vado non perché io non possa ambire a quel ruolo, cosa che era così anche quando ero dentro, ma perché non riconosco le mie idee in quello che fa, e rispetto a quanto vedo approvare e votare non mi sento semplicemente minoranza, cioè disponibile ad accettarlo con qualche cambiamento, ma assolutamente opposizione, vale a dire radicalmente contrario.

La visione per cui, tolto Renzi, l’intero partito, come al richiamo d’un “contrordine”, possa girarsi e fare il contrario di quello che sta facendo, se possibile, mi lascia ancora più basito. Perché io credo che chi oggi vota per l’abolizione dello Statuto dei lavoratori, la chiamata diretta del preside nelle scuole pubbliche, la torsione governista dell’assetto dello Stato, la riduzione degli spazi di partecipazione e scelta attraverso la legge elettorale e le modalità di individuazione dei rappresentanti, la risposta securitaria ai problemi sociali, da quelli della casa a quelli del lavoro, l’indiscutibilità delle opere invasive e devastanti per il territorio, eccetera, eccetera, eccetera, non lo faccia perché ligio agli ordini del segretario, ma perché tutte quelle decisioni sono tutto quello che vuole fare. Altrimenti, saremmo dinanzi a una sorta di “sindrome di Norimberga”, se mi si passa la definizione, in cui elettori ed eletti di un partito eseguono solo le indicazioni del capo e della sua maggioranza.

Ora, a me l’idea che il Partito democratico possa completamente cambiare perché, che so, scopre al suo interno un emulo di Tsipras o un Mujica nostrano, non convince. E l’esempio Corbyn, sinceramente, mi fa stare davvero male. Insomma, dico, chiarendo che mi auguro che vinca e son più contento che ci sia lui a guidare il Labour che non una triste copia sbiadita di sostenitori di tesi e programmi già vecchi vent’anni fa, ma mi chiedo, questo Corbyn qui è lo stesso che stava nel partito guidato da Blair? E quando ha dovuto votare per quelle cose che giudica completamente sbagliate, le ha respinte con un pronunciamento contrario o le ha approvate con l’abnegazione di chi fa un lavoro come un altro? In sintesi, si può essere in un partito in tutte le stagioni, comunque adoperandosi perché esso vinca, anche quando si ritiene totalmente errata la strada intrapresa?

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