La libertà è uno stato d’essere

«Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del realismo politico». Così diceva, in un’intervista ormai di un anno fa, l’ex teorico dell’operaismo Mario Tronti, considerando la sconfitta di quelle idee dal buen retiro senatoriale in cui siede, votando col suo partito anche le riduzioni dei diritti a quegli operai a cui spesso sono negati pure gli aumenti.

Però, in una cosa l’autore di Operai e capitale ha ragione: quelli a cui loro volevano parlare, non li ascoltavano per le teorie sulla liberazione dall’alienante costrizione del lavoro, ma nella speranza di ottenere retribuzioni più alte e condizioni materiali migliori. Tutto qui, nessuna filosofia; solamente sindacalismo pratico. Quella lotta culturale avrebbe necessitato l’accettazione della libertà. Ma sinceramente, la libertà, chi la vuole? In fondo si potrebbe dire, ripescando fra l’armamentario retorico di quegli anni, che essa sia un «valore borghese», se volessimo farcene una ragione della sua assenza fra le classi a cui guardiamo, o un fardello per spalle forti, se invece volessimo arrenderci del tutto.

Non di rado si nota, e mi capita ancora in questi giorni, una sorta di indifferenza per le proprie sorti che non siano quelle tangibili da parte di chi ne è coinvolto. Quasi che quello che accade non fosse affar loro, sebbene è a loro che limita le facoltà di agire e le possibilità di essere. Eppure, tutto pare scivolare addosso a tutti, senza apparente effetto, come se questo scivolamento fosse l’unica re-azione possibile per quanti sono costretti a trascorrere i loro giorni in una società piegata al culto di Ananke, dea greca della necessità, del fato, del destino già scritto, ineludibile e immodificabile.

Sfuggire, o almeno provarci, a questo stato di ineluttabilità sarebbe il compito di chiunque volesse porsi nel solco della ricerca dell’alternativa. Ma nessuno sarebbe seguito da molti, se domani qualcuno si mettesse a far luce su quel sentiero. E non c’entra tanto la qualità del condottiero o la forza dell’armata che sarebbe capace di mettere in piedi; il problema riguarda la disponibilità dei possibili e potenziali accompagnatori lungo quel cammino.

La ricerca dell’alternativa, del possibile, quell’urlo di Deleuze per non soffocare, cos’altro è se non un invito alla sperimentazione della libertà? La stessa libertà che riempie i discorsi di tutti e che a milioni rivendicano, quasi nessuno vuole davvero, se il prezzo è l’abbandono delle comodità domestiche e quotidiane. In quanti alzano la testa a sentire il richiamo del lupo libero? E in quanti abbandonano la casa del padrone per seguirne il senso?

«Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà», dice il Grande Inquisitore di Dostoevskij al Cristo che ritorna, ricordandogli le tentazioni nel deserto.

Vi chiedete perché si rifiuti la libertà? Semplice: perché la libertà è scomoda. Obbliga a pensare e a decidere, e spesso a rinunciare. E la libertà è anche azione, «partecipazione», direbbe Gaber, mentre ai più basta essere liberi «come un uomo. Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia. Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà».

Se vi sembra uno scenario triste, non sbagliate. È per questo che da una situazione siffatta sempre di più sono quelli che vanno via. Solo che non fuggono cercando di rispondere con l’azione al sentimento di straniamento che da lì deriva, ma alienandosi ancor di più, astenendosi dal prendere parte al finto agire sociale e politico, comprendendo, sebbene spesso solo a livello dell’intuizione, i limiti e i vincoli della situazione data. Fino a quel momento in cui non avranno fame abbastanza, fino a quando il “pane terreno” non sarà più sufficiente a placare la loro fame. Ma pure allora, il rischio che «libertà» sia solo un grido mirante più ad altra «roba» che alla conquista di uno stato dell’essere, come per i rivoltosi di Verga, sarà sempre presente.

Sto dicendo che tutto è inutile? Che, come temeva lo Zarathustra raccontato da Nietzsche, siamo giunti al tempo «dell’ultimo uomo», così stanco e senza forze che «non scaglia più la freccia del suo desiderio al di là dell’uomo, e la corda del suo arco ha disimparato a sibilare»? Francamente, non saprei rispondere. Quello che so è che senza uscire nel mondo a cercare una via per l’alternativa, non si scoprirà mai se c’è ancora abbastanza caos da generare altre stelle.

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2 risposte a La libertà è uno stato d’essere

  1. Fabrizio scrive:

    Carissimo Rocco Olita ,
    la liberta’ e’ uno stato di essere o di non essere!
    Essere e’ chi vive e crede in principi sacrosanti “oggettivi” basati su determinati fattori di ideali ben radicati su possibili indici di valore ; Non Essere e’ chi persegue principi “soggettivi” basati su determinati termini di comunicazione costruiti al momento su possibili definizioni di proprio uso e consumo.
    La Minoranza PD nel processo di revisione della Ns. Carta Costituzionale sta dimostrando come dato di fatto una liberta’ di stato del “Non Essere”.

  2. Fabrizio scrive:

    La liberta’, di pensiero , di stampa ,di parola, di manifestazione,e” oggettivamente parlando”uno stato d’essere;uno stato d’essere, civico e democratico , di confrontarsi come diritto sacrosanto e come dovere sacro di dialogare con gli uni e con gli altri.
    Dialogare e’ un dovere democratico!
    Confrontarsi e’ un diritto civico,etico-culturale,sociale-economico.
    Senza confronto non ci sara’ mai una reale e concreta democrazia incentrata e/o strutturata su pilastri di principi come Equita’,Uguaglianza,Solidarieta’, eccetera ed eccetera.

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