L’uscita come via contro lo scivolamento

In un suo post, Civati la chiama via d’uscita. Parla della possibilità di perseguire la strada per raggiungere un equilibrio fra crescita e uguaglianza, liberandosi dal modello dominante del pensiero unico. Nell’articolo subito seguente, denuncia l’assurdo senso di scivolamento che le cose che accadono, anche le più incomprensibili e inconcepibili, paiono determinare, senza alcun apparente effetto, nei cittadini e in quanti si interessano di politica e società.

Credo che però l’uno e l’altro pezzo siano intrinsecamente collegati, come fondamentalmente connessi sono i due concetti. Quel lasciarsi scivolare addosso le cose che accadono è probabilmente l’unica re-azione che rimane nella disponibilità di quanti sono costretti a vivere una società e un tempo votati al culto di Ananke, la dea greca della necessità, del fato, del destino immodificabile e a cui non si può sfuggire.

Ecco allora che quella via d’uscita diviene la ricerca del filo da riprendere per tessere la tela della speranza in un’alternativa praticabile, così come, nel sistema attuale, l’uscita dagli schemi diventa la via per tentare di rompere la bolla di continua ripetizione, quale fine che mangi il suo inizio, e che fa venir voglia di urlare chiedendosi, come Chatwin, appunto, “che ci faccio qui?”.

Ma il tema che il parlamentare democratico pone non è facilmente archiviabile. Interroga molti, certo, eppure non suggerisce risposte. Anzi, semina incertezze. Perché provare a seguire il sentiero della ricerca delle possibilità per uscire dallo stato di eccezione dell’ineluttabilità fatta paradigma di ogni politica pensata come azione dovrebbe essere la voglia di tutti quelli che in questa eccezionalità indotta non si ritrovano. Però, se qualcuno provasse a far luce lungo questo cammino, indicandone la rotta, in quanti sarebbero con lui?

No, non è solo questione della qualità dei potenziali condottieri. E questione della disposizione d’animo dei possibili accompagnatori. Cos’è la ricerca della possibilità se non un invito alla libertà? Quella che tutti invocano, che a milioni scendono nelle piazze, reali o virtuali, per difendere, quella che quasi nessuno vuole davvero, soprattutto in luoghi e tempi da addomesticati. Come cani all’ululato del lupo, in tanti drizzano l’orecchio nel sentire il suono di eventualità perdute, ma in pochi lascerebbero i comodi guinzagli per seguirne il richiamo.

“Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà”, dice il Grande Inquisitore di Dostoevskij al Cristo che ritorna, ricordandogli le tentazioni nel deserto.

Perché? Perché la libertà è scomoda, obbliga a pensare e a decidere, e spesso a rinunciare. E libertà è anche azione, “partecipazione”, direbbe Gaber, mentre ai più basta essere liberi “come un uomo. Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia. Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”.

Da quella situazione qualcuno, sempre di più, fugge alienandosi, astenendosene, capendone o solamente percependone limiti e vincoli. Finché non avranno fame abbastanza, fino a quando il “pane terreno” non sarà loro più sufficiente. E pure allora, Libertà sarà un urlo come quello dei rivoltosi di Verga, che miravano alla roba prima che alla conquista di uno stato dell’essere.

Dunque, è tutto inutile? Davvero, come temeva lo Zarathustra di Nietzsche, ci stiamo avvicinando all’ultimo uomo, che “non scaglia più la freccia del suo desiderio al di là dell’uomo, e la corda del suo arco ha disimparato a sibilare”? È possibile che sia già così, o che almeno lo sia qui e ora. Però so anche che se non si esce nel mondo per cercare quella via, non si saprà mai se c’è ancora abbastanza caos da generare delle stelle. E poi, c’è bisogno che qualcuno porti una lanterna su percorsi sconosciuti perché questa possa essere intesa come un faro da qualcun altro.

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