Le riforme sono mezzi. Ma i fini?

“Per convincere gli altri che qualcosa è giusto o sbagliato ci serve un linguaggio dei fini, non dei mezzi”. Scrivendo queste parole nel suo libro Guasto è il mondo, Tony Judt centra e porta in primo piano una verità metodologica essenziale: quella del discorso sui fini, appunto, non distratto dalla considerazione dei mezzi.

Come in una rivoluzione copernicana nell’esposizione delle tesi, sposta il termine del ragionamento su quello a cui si vuole arrivare, non sulle strade che si intendono percorrere. È un cambio di prospettiva importante, che può essere usato non solo nell’approccio argomentativo, ma anche, probabilmente, in una dimensione ermeneutica.

Prendiamo il caso delle Riforme, tema centrale di ogni dibattito, intervento o convegno politico nella stagione presente. Che quelle siano un metodo e non un obiettivo è chiaro a tutti. Anche chi ne parla, infatti, non corre mai il rischio di non sostanziarne la natura e, a parte i vuoti discorsi sulle non meglio precisate “stagioni del riformismo”, solitamente coloro che parlano riforme si premurano di dire quali intendano e come farle.

È il caso, per esempio, delle riforme del Senato, del bicameralismo e della Costituzione. Quelle di cui parla il Governo e la maggioranza, in effetti, sono tutte materie discutibili, muovendosi all’interno delle modalità e dei limiti di revisione previsti dal dettato costituzionale e dallo stesso spirito di autorinnovamento della Carta, e rientrano fra le riforme puntuali previste dall’art. 138. A differenza, quindi, delle premesse di natura costituente contenute nella riforma, con tanto di commissione ad hoc, individuate dal passato Esecutivo (seppure con medesima maggioranza), quelle di cui si discute nel piano di Renzi e del ministro Boschi, sono solo modifiche del testo che, di per sé e da sole, non lo snaturano, al di là di eventuali giudizi di merito.

Ugualmente, non stravolgono l’assetto istituzionale dello Stato nemmeno le leggi elettorali, più o meno maggioritarie, o i regolamenti parlamentari per garantire corsie preferenziali alla conversione in legge dei decreti del Governo. Quindi, tutte queste riforme, questi mezzi, singolarmente presi sono perfettamente compatibili con le procedure di revisione previste dalla stessa Costituzione.

Per capire se quello che si vuole fare è “giusto o sbagliato”, secondo quanto ci insegna Judt, o semplicemente, di natura costituente o meno, bisogna però guardare ai fini. E questi quali sono? Vediamo.

Quella a cui si tende è sempre di più una democrazia governante, in cui l’Esecutivo ha la precedenza sul Parlamento (dalle leggi varate solo con fiducia, fino alle minacce del tipo: “se cade il Governo, si va tutti a casa”), da raggiungere attraverso un sistema elettorale fortificato (con il quale “la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto”), e che salvaguardi la governabilità anche a scapito della rappresentanza (si vedano le soglie di sbarramento ipotizzate e i premi di maggioranza previsti). Accanto a tutto ciò, si tende alla semplificazione del quadro istituzionale (una sola Camera per dare la fiducia, abolizione delle Province, riduzione del numero degli enti territoriali), unita alla delegittimazione, di fatto, dei corpi intermedi della società, partiti e sindacati per primi.

Ecco, prima di ogni giudizio di valore e sul merito, il quadro verso cui il combinato disposto di tutte quelle riforme tende, il loro fine, è un orizzonte di natura costituente. Si mira, infatti, a mutare la forma dello Stato, passando da una democrazia parlamentare e rappresentativa a un sistema molto più simile a un premierato forte, direttamente espresso dai cittadini (si chiede di sapere “chi” ha vinto, non quali forze siano maggioranza; anche i termini sono rivelatori) e che sappia far a meno dei partiti, e del loro lavoro di mediazione e di mobilitazione, così come delle organizzazione sindacali e di categoria (ché i governanti decidono e, qualora gli altri non si dovessero adattare, essi se ne farebbero una ragione).

Tutto questo, dicevo, è un percorso costituente, in quanto mira a cambiare l’organizzazione attuale dello Stato e la forma di governo. Quindi, la domanda non è tanto da incentrare sull’analisi dei mezzi, le riforme, ma da rivolgere verso l’orizzonte dei fini, il nuovo assetto istituzionale.

Ma se è così, per scrivere un nuovo patto costituente, non si dovrebbe eleggere una nuova Assemblea con quel mandato? Davvero basta che lo faccia un potere costituito, qual è appunto il Parlamento, secondo le procedure ordinarie di revisione? Di più, che lo faccia un Parlamento eletto e determinatosi nei suoi rapporti numerici in virtù di una legge elettorale giudicata incostituzionale dalla Consulta?

Ah già, dimenticavo le parole di Fabrizio De André nel suo Sogno numero due: “Ascolta, una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge”.

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