L’epifania della nostra ambiguità

Non so se il Papa sia mai stato in vacanza. So però che probabilmente tutti quelli che si sono detti, alle sue parole sul sentirsi addolorato dalla chi pensa alle vacanze e non a quelli che soffrono, in tempi di pandemia e crisi economica correlata (correlata anche per la chiusura di attività come quella del turismo, fra l’altro, ma lasciamo perdere), «ha ragione, come si può pensare al proprio divertimento, dinanzi alle sofferenze e ai morti», in vacanza, in altri tempi, ci sono andati e sperano di andarci ancora. Bene; pure in quelli c’è stata e ci sarà gente sofferente, mentre noi pensavamo e penseremo al nostro divertimento.

Prendo un anno a caso, prima del morbo mondiale, ma non così remoto da non consentirci un agevole ricerca fra le nostro foto sui social. 2017, titolo dell’edizione online della Stampa del 12 ottobre, a proposito di un rapporto pubblicato da Save the Children su malnutrizione e infanzia: «Ogni giorno nel mondo 8 mila bambini muoiono di fame (prima dei 5 anni)». Abbiamo pensato alle vacanze, in quell’anno? E perché oggi sarebbe quasi immorale farlo, mentre allora era lecito? Cos’è cambiato, oltre alla distanza fra noi e i morti?

​Il fatto è che siamo ipocriti. Terribilmente ipocriti. E ci fingiamo indignati solo quando le cose accadono nei pressi delle nostre esistenze, mentre su tutto il dolore che vediamo o sappiamo nascere da quello che scegliamo, passiamo sopra senza curarcene, in fondo dicendo ai noi stessi: «è così che va il mondo, che è sempre andato e andrà».

Ci siamo scandalizzati, e giustamente, per le parole insensibili di un rappresentante degli industriali. Però fingiamo di ignorare come l’intero nostro stile di vita contempli l’indifferenza per le sorti altrui. Per il benessere che abbiamo, inquiniamo. E, per gli effetti diretti e indiretti di quell’inquinamento, «qualcuno morirà; pazienza». Per il gadget che avete tra le mani nel leggermi e che ho usato per scrivere, qualcuno si è letteralmente ammazzato di fatica, nelle fabbriche costruendolo o nelle miniere a cavare le materie prime per farlo, è morto; «pazienza». La nostra tavola, le nostre dispense, i nostri banchi alimentari sono pieni di cibo che sprechiamo, mentre nel mondo, come ricordava il rapporto della Ong citato e come ogni anno ci ricordano altre agenzie e altri rapporti, a milioni muoiono di fame; «pazienza». La tragedia che ci tocca vivere, poi, si realizza nella misura in cui, com’è stato nel corso dell’anno appena concluso, persino la sospensione della modernità commerciale e industriale si paga in sofferenze umane, che sono sempre, e per prime, quelle dei più deboli, degli ultimi (cosa che l’Onu ci dice esser accaduta per gli effetti del lockdown su scala planetaria).

In questa stagione epifanica, a essere emersa è la nostra ambiguità, la doppiezza della morale che professiamo. Furiosamente diamo dell’egoista a chi non rispetta le norme di contenimento della pandemia (e non sto qui in alcun modo giustificandoli, chiarisco a beneficio dei benpensanti), ma non è forse egoismo anche il nostro, che, in principio, le accettiamo, e temiamo il comportamento degli altri perché può metterci a rischio? Non pensiamo forse a noi stessi e ai nostri cari, quando ci preoccupiamo della diffusione del contagio? Quando vogliamo misure stringenti, magari al sicuro di possibilità e risorse in grado di sostenerle e di dare la necessaria sicurezza che serve a sostenere il sacrificio dell’oggi nell’attesa del beneficio per domani, e proprio nella speranza che queste durino il meno possibile e ci lascino alla nostra vita comoda di prima, di cosa, se non del nostro personale interesse, ci stiamo occupando? Quando proclamiamo la nostra giusta volontà di vaccinarci, non è sostanzialmente alla nostra immunità che pensiamo, molto più e prima di quella diffusa a beneficio di tutti, addirittura per trarne una sorta «privilegio», come lo ha onestamente definito uno dei virologi più ascoltati da quelli che pensano e agiscono rettamente?

E non siamo ipocriti, quando fingiamo di dire tutte le cose che diciamo, e che ci fanno sentire giusti e retti nel dirlo, in nome del benessere collettivo, mentre in fondo, lungi da ambizioni nobilitanti, è al nostro «particulare» che esclusivamente, con angoscioso e angosciante interesse, stiamo guardando?

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