Il nostro Pinocchio fragile e sempre attuale

«“E va bene, leggiamolo così allora. Cosa vuol dire che Pinocchio è un burattino che non riesce a diventare un uomo?”
“Vuol dire che non è capace di crescere. E crescere non significa essere responsabile delle proprie azioni, mettere giudizio, come si dice, cioè saperle giudicare? Pinocchio non ne è capace, come ho detto.”
“Certo, non ne è capace; ci prova, poi ricade sempre nelle stesse abitudini.”
“E non ti sembra questo un tratto molto italiano? Non c’è in fondo ad ognuno di noi un Pinocchietto irresponsabile che non vuole maturare e che non sa giudicarsi?”
“Come si manifesta questa irresponsabilità?”
“Lo vediamo tutti i giorni. Nel disordine della nostra vita pubblica, nel nostro scarso senso civico, nella nostra ‘cattiva educazione’. Quella tendenza ad anteporre sempre quello che ci conviene, il proprio ‘particulare’, al bene comune è appunto la nostra immaturità. E poi c’è anche una immaturità politica, che si accompagna all’altra: quella per cui siamo sempre talmente schierati da una parte da non riuscire mai a comprendere le ragioni, e perfino l’esistenza, dell’altra parte.”
“Infatti, ho notato che uno dei difetti principali per cui Pinocchio non riesce a diventare un uomo, è che dà sempre la colpa agli altri delle proprie malefatte.”
“Questo avviene anche da noi, in politica. Mai c’è stato uno che riconoscesse di aver sbagliato, che ammettesse la propria colpa fino in fondo.”»

Parla di Pinocchio, Raffaele La Capria col suo interlocutore (cfr. Pinocchio, l’italianissmo, in Il Sentimento della letteratura, ora in False partenze con Letteratura e salti mortali e Il sentimento della letteratura, Mondadori, 2011, pp. 231-237), e parla di quanto questo burattino sia «l’unico vero personaggio della letteratura italiana», quello che «possiede tutti i tratti principali della nostra stirpe. L’indole, il modo di essere e di manifestarsi, i vizi e le virtù. Tutti i tratti del carattere italiano, non uno soltanto. E li rappresenta bene». Le bugie, che tutti dicono, «ma solo noi crediamo sinceramente che siano la verità»; i cinque zecchini d’oro, avuti da Mangiafuoco e con cui vorrebbe comprare una nuova giacca al suo babbo, ma che pianta, su suggerimento del Gatto e della Volpe, nel “Campo dei Miracoli” per «diventare ricco con poca fatica e da un momento all’altro»; le faine ladre di polli, che propongono al Pinocchio da guardia una gallina a settimana per non abbaiare, come facevano col cane Melampo, per una pratica «considerata naturale. Teorizzata. Eletta a sistema»; il Grillo Parlante, «la nostra coscienza che mettiamo sempre a tacere e forse abbiamo ucciso, come Pinocchio ha forse ucciso il Grillo»; la Fatina Azzurra, «una mamma sempre disposta a perdonare»; i Carabinieri, «che si lasciano scappare sotto il naso Pinocchio, che è loro prigioniero»; i Giudici, «come quello che, rovesciando tutta la logica della giustizia, condanna Pinocchio perché è stato derubato»; e Mangiafuoco, ché «quando ci sono i burattini esce sempre un burattinaio, e i burattini come Pinocchio rischiano di fare una brutta fine».

Le pagine del grande intellettuale napoletano sono andate a ricercarle dopo aver letto su un social il programma delle iniziative per il 193° anniversario della nascita di Carlo Lorenzin, detto Collodi, organizzate a Firenze negli scorsi 24 e 25 novembre. Il libro, invece, di anni ne ha poco meno di 140: quasi un secolo e mezzo, e la fotografia del Paese che ne esce non è tanto dissimile da quella che potremmo scattare nella quotidianità del tempo degli smartphone. Soprattutto, a essere rimasti fondamentalmente gli stessi, sono gli italiani, più che l’Italia. Questa, allora era appena nata, quale nazione unica. Era molto più povera e molto più incolta, socialmente differente, eppure, quelli, gli italiani nel dipinto per immagini tracciato nelle avventure del burattino e lui stesso, quale archetipo di tutti i molti vizi e le rare virtù, sono perfettamente sovrapponibili agli odierni loro eredi.

Come la legge La Capria, quella storia parla ancora dell’oggi. In particolare, in quel quadro, nulla si troverebbe fuori posto, se lo si volesse usare come schema per leggere la modernità a queste coordinate. E se questa non fosse pure la patria del Leopardi, che due anni prima che il Collodi nasce e con oltre mezzo secolo d’anticipo sul Pinocchio, scriveva il suo Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani, potrebbe parer strano che un ritratto letterario fatto centocinquanta, duecento anni prima, calzi perfettamente al profilo attuale delle genti di qua.

Filopolitica, forse pure per considerazioni simili, ha bisogno di una pausa. Lunga o breve, saranno i casi a determinarlo. Nel frattempo, ai «miei venticinque lettori» (lasciatemi la citazione di un altro che, due secoli prima, ha colto alla perfezione le dinamiche su cui ancora l’oggi si articola e si muove, in questo pezzo che fin dal titolo prende il passo da parole eleganti e già scritte), auguro buone feste. A me, di trovare altre, e tante, pagine e parole con cui riempire il vuoto che il moto di ricerca sempre scava.

A presto.

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