E nel silenzio si votarono ad altre fedi

Non è raro che i libri di storia siano ripetitivi e non entusiasmanti da leggere. Questo, però, non è il caso del bel saggio di Eckart Conze, 1919. La grande illusione (Rizzoli, 2019); è scritto bene e non è mai noioso. Dopo il complimento generico, mi permetto di citare un passaggio della sua ricostruzione dei fatti di Versailles durante le trattative per la pace e la costituenda Società delle Nazioni che mi ha fatto riflettere in modo generale e in cui ho trovato una spiegazione anche per molti fenomeni dell’oggi politico.

Scrive Conze, a proposito della disillusione che in quei mesi subirono in tanti fra i delegati delle nazioni del Sud del mondo, prima fiduciosi nell’accoglimento delle loro legittime aspettative da parte dei campioni, a parole, dell’autodeterminazione dei popoli, gli Stati Uniti e il loro presidente Woodrow Wilson: «Rappresentativa di questo sviluppo è la storia del già citato Nguyen Ai Quoc (“Nguyen il patriota”), che nel giugno del 1919, si racconta, tentò di consegnare a Wilson una petizione intitolata Le richieste del popolo di Annam. Secondo alcuni resoconti, Nguyen aveva persino preso in prestito un frac per l’occasione. Ma il suo tentativo non ebbe successo: non ci fu alcun incontro tra lui e il presidente americano, che forse non ricevette mai la petizione del futuro leader vietnamita. Deluso da Wilson, Nguyen si sarebbe poi rivolto a Marx, Lenin e al bolscevismo. “È stato il patriottismo e non il comunismo a farmi credere in Lenin” avrebbe scritto qualche tempo dopo, quando già aveva preso il nome di Ho Chi Minh» (op. cit., pag. 204).

È come se Conze volesse dirci che, nel caso del Vietnam come in altri, per i quali ricorda un memorandum dei socialisti coreani proprio di quel 1919 nel quale si constatava che «Nessuna delle quattordici promesse di Wilson è stata mantenuta […] quindi è del tutto naturale che i popoli oppressi si rivolgano ora a noi socialisti» (op. cit., pag. 206), l’anima che gonfiò le vele di una determinata idea politica non fu tanto l’adesione ai suoi princìpi, quanto la delusione data dagli altri nel mettere in pratica i loro. Così, Nguyen il patriota divenne, “Colui che porta la luce”, Ho Chi Min, e diede avvio a un movimento e a uno Stato che «infiniti addusse lutti» ai futuri compatrioti del presidente che lo ignorò a Parigi.

Avendo parlato di Vietnam, Corea o altre nazioni per le cui sorti troppe morti sono state spese (e alcune di queste terre a me tanto son care), voglio provare ad alleggerire il tono con un’ironica ballata d’un mio corregionale, credo molto efficace nel sintetizzare queste storie e altre che vi potrebbero venire in mente, pensando pure a quell’oggi politico di cui facevo menzione all’inizio del post, che in molti casi si trovano ad andar da un lato perché, tristemente, in quello dove volevano stare non li hanno mai ascoltati.

Rocco Papaleo, Basilicata on my mind: «Se Cristo si è fermato ad Eboli/ A colpa di ku è?/ E certo nun è da nostra,/ Nui lu vulimu bene,/ L’avimu preparet/ Na festa granna grann/ Varil i vin e ang’net/ Ca par i Capodann,/ Cristo nun è v’nut/ N’aviss t’avv’sé/ Ng’amu rimasu brutt/ A rrobba s’è iettet./ […] E nui p’ sta quit/ P n’aiuté a r’sist/ Senza r’ dic nind/ N’ammu fattu buddist».

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