A guardar bene, la “deriva populista” ha già un quarto di secolo alle spalle

Se c’è una città in Italia che può essere paragonata a quelle della Rust Belt del Midwest io la conosco. Fin dalla porta di casa dei miei se ne individuava l’esistenza, e di sera, al buio, il luccichio alternato del suo faro arrivava a farsi vedere dalle strade del paese in cui sono nato e cresciuto, a 85 km di distanza in linea retta, mille metri più in alto dei suoi due mari. E se il paragone tra la polis di Archita e le cittadine dell’Illinois o del Michigan può sembrarvi ardito, per la storia dell’una e delle altre, vi prego di seguirmi in questa breve ricostruzione, che coi fasti della città spartana in cui passarono Platone e Annibale non c’entra affatto.

Taranto, negli interessanti racconti che ne fa il compianto Alessandro Leogrande (ora nell’imperdibile, per chi vuole capire qualcosa di un Sud che da troppo tempo vive la sua crisi, in Dalle macerie. Cronache dal fronte meridionale, Feltrinelli editore, 2018), è altro dalla sua immagine, se vogliamo, classica: è invece una nostra città decaduta, sul modello di Pittsburgh, Detroit, Youngstown e delle altre “città dell’apocalisse”, per dirle con la definizione di Alessandro Coppola (si veda il suo Apocalypse town. Cronache dalla fine della civiltà urbana, Editori Laterza, 2012), in una suggestione che lo stesso Leogrande coglie nelle sue pagine. E cosa è successo a Taranto che avrebbe dovuto illuminarci su quello che sarebbe potuto succedere nel resto del Paese e persino nelle ex steel town americane? Che quando un sistema economico salta, portandosi dieto la sicurezza a esso collegata, saltano pure i meccanismi e le regole della rappresentanza democratica e della vita politica, e si afferma quello che, per facilità di raccoglitore, siamo ormai da qualche anno abituati a chiamare “populismo”.

All’apice della produttività, la grande fabbrica, l’Italsider, come allora si chiamava quella che poi, con la privatizzazione, diventerà l’Ilva, occupava oltre 20.000 persone direttamente, più altre 15.000 nell’indotto. Taranto era la città meridionale con il Pil pro-capite più alto, a un soffio dai livelli delle città del Nord. Taranto in quegli anni cresce. A dismisura. Si svuota il centro storico e si riempiono i nuovi quartieri. Come nelle pianure americane, anche qui giungono migliaia di contadini e braccianti. I nostri hillbillly arrivano dalle province di Puglia, Lucania e Calabria. Taranto si strania. I nuovi tarantini sono legati alla fabbrica dal salario, ma restano annodati alla terra per la tradizione: «metalmezzadri» li definirà nel suo splendido reportage dal capoluogo ionico Walter Tobagi, nell’ottobre del 1979 (cfr. W. Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, Corriere della Sera, 15 ottobre 1979). I figli e i nipoti di questi, invece, si perderanno nel non sapersi definire; non più operai, per la fabbrica che riduce della metà i suoi lavoratori, giammai contadini, per un mondo che ha forse per sempre chiuso, a loro, quella strada. Come gli spaesati eredi dei rurali inurbati nelle metropoli fra gli Appalachi e i Grandi Laghi, struggentemente raccontati da J. D. Vance nel suo Elegia americana (Garzanti, 2017), i figli e i nipoti dei primi operai dell’acciaieria si troveranno senza quella serie di riferimenti che, necessariamente, costituiscono in altri luoghi l’ossatura ideologia e culturale di una società industriale. E, perduta la certezza del soldo e del posto, si ritroveranno, quelli, a votare per Trump, questi, molti anni prima, per Cito, fenomeno dello stesso tenore e dalle stesse proposte, solo su scala differente.

C’è, in quel libro di Leogrande che v’invito a leggere per intero, un passaggio che ritengo significativo su quanto successo e su come una popolazione in preda alla paura per la perdita delle certezze che ha o ancora crede di poter avere, smette quasi istintivamente di riconoscersi, anche solo di riconoscere, le rappresentanze della politica istituzionale. Il primo giugno del 2007, a ridosso del secondo turno delle elezioni per il rinnovo dell’amministrazione comunale, con la prima ondata del fenomeno Cito già passata e ora vicini al suo riflusso, dove lui, uscito dal carcere, è impegnato a sostegno del figlio, candidato sindaco prestanome per il padre, «i lavoratori delle imprese di pulizia impiegati con contratti esterni nelle scuole pubbliche bloccano il Ponte Girevole, temendo che i contratti non saranno rinnovati. L’occupazione si protrae per l’intera giornata e la polizia ne perde il controllo. I cassonetti vengono rovesciati per strada e incendiati. Donne in lacrime minacciano di lanciarsi di sotto, in mare. Un uomo addirittura si cosparge di benzina giurando di darsi fuoco. Va in scena la disperazione più cruda, quella priva di qualsiasi forma di mediazione. Quando i due candidati al ballottaggio, Stefàno e Florido, arrivano molte ore dopo cercando di placare gli animi, vengono spintonati e malmenati. È il sintomo, prepotente, che il sistema a Taranto si è rotto, che non c’è più alcuna cultura politica che tenga testa alla slavina. Le forze politiche in campo non solo non rappresentano, ma non riescono neanche minimamente a gestire i focolai di crisi. E il terrore più che realistico è che, nei prossimi anni, questi focolai si accenderanno in modo sempre più disperato, autonomo, violento. Proprio come nel ’92-’93 la città vive in modo convulso e anticipatore una crisi di sistema che inizia ad apparire nazionale, strutturale» (A. Leogrande, op. cit., pag. 103).

Già, perché Cito aveva sfruttato quelle convulsioni quindici anni prima, e le stava sfruttando ancora, se, come è vero, al primo turno di quelle stesse comunali il suo delfino-candidato raccolse il 20,2 per cento, appena mezzo punto in meno di Florido, il candidato poi sconfitto da Stefàno al ballottaggio. Il 20,2, dopo gli anni delle accuse e poi della condanna e del carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, fatto prendere – perché questo è ciò che accadde – al figlio, senza che queste quasi si spendesse nemmeno a dire qualche parola di circostanza dal palco ai suoi elettori. Bastavano quelle dure e aggressive del padre, se non capaci di disegnare scenari migliori, almeno in grado di dare qualcuno da odiare, da scalciare al di sotto, verso cui rivolgere lo schioppo del proprio rancore, come nelle pagine di Steinbeck (cfr. J. Steinbeck, Furore, Bompiani, 2013). Vi ricorda qualcosa o qualcuno?

Un ultimo appunto, fra le pagine dello scrittore tarantino, l’ho trovato per la parte politica a cui, come lui, mi sento vicino e appartenente. In tutto ciò, verrebbe da chiedersi, in questo crollo degli idoli materiali e capitalistici, la sinistra che fine aveva fatto, che fine ha fatto. Risponde Leogrande, sempre parlando, come in una lente, del caso della sua citta: «un rapporto più o meno solido, se solo si pensa che per un trentennio Taranto e Italsider sono stati praticamente sinonimi interscambiabili, è andato perdendosi. Lo stabilimento era stato voluto fortemente anche dal Pci, secondo quei fermi convincimenti di natura pseudoscientifica: il Sud deve progredire, il progresso storico ha bisogno di una classe attiva, questa classe è la classe operaia, per avere una forte classe operaia abbiamo bisogno di una grande fabbrica, quindi facciamola costruire. In tal modo gli interessi dell’industria di Stato e del principale partito di opposizione vennero a coincidere e la costruzione della grande fabbrica fu rivestita di un’attesa degna delle più suggestive panacee. Il risultato politico dell’intera manovra fu abbastanza evidente: il Pci locale si ritrovò un bel serbatoio di voti che gli hanno permesso di ottenere negli anni un forte consenso. […] Dopo essersi cullato su un consenso stabile e stabilito, alla fine il Pci-Pds si è ritrovato in una campana di vetro, slegato dalla società. La crisi dell’Italsider, a Taranto ha voluto dire crisi della classe operaia, sottoproletarizzazione, meno iscritti, meno voti» (Ibidem, pp. 53-54).

Aggiungiamoci poi i danni fatti dalle illusioni inappagabili del consumismo, e il rancore sterile e violento che oggi vediamo strabordare nelle parole e, in modo sempre più preoccupante, nei gesti di quel popolo divenuto, con la lucida visione anticipatrice di David Riesman (cfr. D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, 2009), «folla solitaria», e il quadro che abbiamo dinanzi è disegnato, se non in ogni sua singola sfumatura, almeno nei toni principali e nei colori portanti.

E sono tutti tratti a tinte scure, purtroppo.

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