Nei giorni in cui l’intero Paese si scopriva sviluppato senza alcun accenno d’esser progredito, riversando attraverso gli ultimi ritrovati della tecnologia un odio che a definirlo barbarico si farebbe torto a quegli scampoli di civiltà che pure le orde che devastarono il cadente impero lasciavano trasperire nei loro eccessi, schiumando di rabbia contro una quarantina di disperati e chi li aveva salvati dalla morte per naufragio e portati a terra, ancor più perché, e in quanto, donna, ero in una parte di questo per tanti ancor lontano dalle linee dello sviluppo ufficiale. A cercar progresso fra l’ombra dei cerri e le assolate crete, probabilmente.
Dovendo, per ragioni che non sto qui a dire, percorrere in poco tempo tanti chilometri attraverso quasi tutta la regione, non ho potuto non consederare alcuni aspetti. Tra questi, quello di un tessuto produttivo che pare sempre più sfibrarsi e abbandonarsi a una deriva irrimediabile, partendo da livelli che già non erano da potenza industriale. E mi sono tornate in mente alcune cose di una gioventù passata. Quand’ero poco più che un ragazzino alle prese con le prime passioni della politica, a quelli come me veniva spiegato, da qualche assessore a cui la saggia mano della storia non farà mancare il pietoso dono dell’oblio, che «lo sviluppo di questi luoghi passerà per tre obiettivi: il completamento dell’area Pip intercomunale, la costruzione del complesso polivalente per le scuole superiori e la realizzazione della “Cavonica”, la trasversale per il collegamento rapido con la “Basentana”, la strada più importante del territorio». Bene, che ci crediate o meno, tutte e tre queste cose si sono fatte; è lo sviluppo che ancora si veste da Godot.
Il polivalente c’è, anche se più volte se n’è rimandata l’apertura alle lezioni. La “Cavonica” è finita, sebbene il fondo stradale sia quello che è e percorrendola non s’incontri spesso null’altro che gli emozionanti paesaggi che la circondano. Pure l’area Pip è ultimata, e per fortuna qualche lampione l’hanno spento, che pareva si volesse rivaleggiare con il landscape di Dubai, per le luci e per il deserto. E a proposito di Emirati, persino il petrolio l’abbiamo tirato fuori, a pochi passi dalla mia Stigliano, con ben due centri oli, vari pozzi nei dintorni e una produzione significativa su scala percentuale per l’intera nazione. E lo sviluppo? Aspettiamo che si faccia vivo, come fosse Godot, appunto.
Nel frattempo, da questi luoghi si va via. Ed è difficile dare la colpa a chi arriva da di là del mare, con più disperazione addosso di noi che lasciamo quei luoghi che ci coccolarono nel farci grandi. Anche perché, non è che lì ce ne siano poi molti, di immigrati, intendo. Anzi, si potrebbe dire che non ve ne sia nessuno. Emigrati, invece, tanti e per giunta di lunga storia e di robusta tradizione familiare. Per questo, e per inciso, fa ancor più male sentirne l’astio verso quelli che, con loro, condividono l’identica sorte dell’andirivieni.
Sempre negli stessi giorni, ho cercato la voce “Basilicata” su un’enciclopedia geografia Garzanti degli anni ’70. Nella descrizione dell’assetto antropico della regione, si legge: «Si può affermare, in via paradossale, che l’emigrazione è una delle principali risorse economiche […]. Una sensazione addirittura visiva dell’imponenza di tale fenomeno si ha nei paesi più poveri della campagna: mancano quasi del tutto gli uomini validi e abbondano le donne, i vecchi, i bambini. Decine di migliaia di famiglie vivono con le rimesse degli emigrati».
È ancora così? Ovviamente no: i bambini sono ormai pochissimi, e le rimesse è da tempo che non ce le si può più permettere.