Il sobborgo di Frayser, nella zona nord di Memphis, in Tennessee, la notte scorsa è stato scosso da una rivolta della popolazione seguita all’uccisione di un giovane del posto da parte di alcuni agenti. Poteva essere Milwaukee, Baltimora, St. Luis; la storia, purtroppo, ha una collezione infinita di eventi simili, in cui la costante è dannatamente sempre la stessa, sempre tremenda.
La polizia spara, venti volte. Un ragazzo rimane per terra, senza vita. Aveva ventun anni, si chiamava Brandon Webber. Era afroamericano. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, pare si sia scagliato contro gli agenti, sembra che, nel farlo, abbia mostrato un’arma. Non lo so. So che uomini in divisa hanno sparato e un uomo nero è morto. E questo sapevano quelli che sono scesi in piazza, che si sono ribellati, che se la sono presa con altri colleghi di quei poliziotti. Perché quando è sempre dalla tua parte che si contano i morti, non vuoi più sentire ragioni, non vuoi più ragionare. E non hai tutti i torti, per giunta.
Probabilmente diranno che il razzismo non c’entra. Anche questa l’ho già sentita. Come volete chiamarlo? Pregiudizio sociale? Percentuali di devianza fra determinati strati della popolazione? Può essere. Le chiamano minoranze, le etnie “non bianche” della nazione americana; non lo sono di certo in altre statistiche. I neri sono la maggior parte dei poveri, la maggior parte degli emarginati, la maggior parte dei detenuti, e la maggior parte dei morti ammazzati dai colpi sparati dalle forze di pubblica sicurezza: all’anima della minoranza.
Non è razzismo, dite? Bene: cos’è.