Consideriamo quel che ancora è

«La colpa di questa canzone non è mia. La colpa è di quelli che fanno sì che questa canzone sia ancora attuale e debba ancora essere cantata». Così Francesco Guccini, in un concerto di qualche anno fa, annunciava la sua Canzone del bambino nel vento, Auschwitz, con il nome con cui poi è passata nella cultura collettiva. E purtroppo, aveva terribilmente ragione.

Tra assurde difese della razza a soli ottant’anni dalla proclamazione di quell’orribile crimine delle leggi razziali e polemiche incredibili persino sulla nomina a senatrice a vita di una sopravvissuta all’olocausto, viviamo costantemente il rischio che quella stagione che con oggi si vuole ricordare tutta nella sua drammaticità non sia ancora passata. E non lo è, purtroppo, nemmeno nei fatti, se tuttora esistono luoghi a due passi da qui dove esseri umani vengono torturati e uccisi, senza che la notizia salti nelle prime pagine dei giornali, mentre lo sarebbe quella che li vedesse sbarcare vivi alle soglie delle nostre tiepide case.

Perché è a questo che serve la memoria: a considerare quel che ancora è alla luce di ciò che è stato e potrebbe essere di nuovo. È non facendo quell’esercizio che, davvero, ci si potrebbe sfasciare la casa, la malattia vincerci e i figli distorcere il viso da noi, con le parole del monito di Primo Levi. Ché non credo fossero minaccia, ma precisa descrizione di quel che può accadere a chi scorda quanto accaduto, ritrovandosi poi un giorno a doverlo rivivere, tutto e intero, sulla sua pelle e nella propria vita.

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