C’è un tema che sempre più spesso sento ripetere, nelle analisi dotte come negli slogan banali, legato alla questione del referendum, ma da leggersi in ottica più generale. Lo potremmo chiamare “l’argomento del ricatto”. Provo a spiegarmi meglio, magari aiutandomi con qualche esempio è un po’ di rimando ai fatti della recente cronaca politica e al come si sono svolti, con tanto di contorno di hashtag e tweet buoni per ridicolizzare chiunque si permettesse, e si permetta, di avversare i campioni del cambiamento intenti ad asfaltare tutto ciò che già dicevano d’aver rottamato.
In ordine sparso, c’è stato l’attacco ai capisaldi dello Statuto dei lavoratori nella linea più volte evocata dai vari Sacconi e Maroni, e a chi spiegava che, così sarebbe stato difficile riferirsi ancora al partito che lo conduceva, veniva risposto, sarcasticamente, «ce ne faremo una ragione». E la Buona scuola, con tanto di chiamata diretta dei presidi che piaceva molto all’Aprea, e pure lì, ai critici e alle loro osservazioni, era opposto l’usato «ce ne faremo una ragione». E ancora il Piano casa, con le risposte securitarie, patrimonio della reazione più dura, in tema di taglio delle utenze e negazione dell’accesso alla residenza per i costretti all’occupazione senza titolo di immobili vuoti, ma i dissidente erano tacitati col solito «ce ne faremo una ragione». E poi le “grandi opere” che piacevano tanto a Lupi, la torsione governista dell’assetto dello Stato, un tempo terreno esclusivo di quelli che guardavano al presidenzialismo forte, la riduzione degli spazi di partecipazione e scelta attraverso la legge elettorale e le modalità di individuazione dei rappresentanti quale soluzione retriva ai problemi della politica e dei partiti, eccetera, eccetera, eccetera; anche in tutti questi casi, la risposta alle obiezioni è stata «ce ne faremo una ragione». Adesso che si vota sulla Costituzione e non per il governo, si minaccia, quasi si ricatta, ed ecco appunto il senso dell’argomento, l’elettore di sinistra dicendo: «altrimenti arrivano i populisti e le destre». Com’era quella battuta sagace, ripetuta a ogni osservazione?
No, davvero, così trattata, la politica ha smesso di essere seria, da tempo. Chi guida sceglie il campo nella contesa con le cose che decide di fare: e se si è scelto di far felice una certa parte dell’elettorato potenziale ignorando le domande di quello effettivo, le conseguenze sono inevitabili. L’argomento del ricatto, quindi, è giocato male, e siccome arriva tardi, troppo tardi per essere credibile, rischia di spingere di più in direzione opposta che tirare verso quella nella quale si vorrebbe.
Ma c’è inoltre una ragione «di merito», come piace dire a quelli a cui «basta un sì», per non accettare questa provocazione in vista del voto del 4 dicembre. Loro dicono che la riscrittura di un terzo della Carta repubblicana serva a facilitare l’azione di governo della maggioranza (spesso tale solo nella sua proiezione istituzionale, in virtù di meccanismi elettorali eccessivamente premianti per i primi e penalizzanti per tutti gli altri), sottraendola ai veti delle minoranze, e che si debba (senza mai chiarire perché le due cose sarebbero legate) approvare la riforma per evitare la vittoria della destra e del populismo, e mentre spiegano questo, cercano, in modi a tratti puerili, di rinfacciare a chi si appresta a respingerla la contrapposizione alle modifiche costituzionali di quelle stesse forze politiche che minacciosamente evocano.
Però, vedete, personalmente voterò “no” per scongiurare quella che loro chiamano efficacia ed efficienza dell’azione di governo, e che nei fatti è solo una concentrazione di potere nelle mani della maggioranza. E proprio perché ho paura di quelli a cui loro stessi si riferiscono quando parlano di populismi e di destre. Perché potrebbe toccare a essi di essere “maggioranza” e, nel caso, vorrei che governare fosse più difficile e, al contrario, più facile immagino l’azione di controllo e di opposizione delle minoranze che a questi potrebbero essere chiamate a opporsi.