Quando sono i privilegiati a contestare il sistema

«La vicenda di Weimar ci mostra quale pericolo possa essere una società priva di consenso; una società in cui nessuna visione d’insieme né alcun gruppo sono egemoni. Un sistema politico democratico non può reggere oltre un certo limite una situazione in cui in pratica ogni questione è trasformata in scontro ideologico di tipo ultimativo. Soprattutto, non può reggere quando le sue élite cercano di minare la democrazia dall’interno; quando si lamentano incessantemente di un sistema nel quale continuano a godere di grandi privilegi e a disporre di risorse enormi».

Ha voluto scrivere anche queste parole Eric D. Weitz (cfr. Weimar Germany. Promise and Tragedy, 2007, trad. it. di Piero Arlonio, Einaudi, 2008) nelle conclusioni alla sua opera su quanto avvenne nel cuore dell’Europa fra le due guerre. Il rischio di trasformare ogni cosa in uno scontro ultimativo tra i due lati della storia, quello giusto e quello sbagliato, scambievoli a seconda di chi parla, e l’impossibilità, per un regime democratico, di mantenersi in piedi se le sue stesse classi dirigenti lo criticano incessantemente. E se tutto ciò vi ricorda qualcosa, allora stiamo correndo lungo crinali pericolosi, con chine drammatiche ai due lati dello stretto sentiero.

Qualche giorno fa, dalle colonne de la Repubblica, Angelo Bolaffi ricordava proprio quell’esperienza tedesca e quello che lui lì chiamava «feticismo costituzionale», che impedì di riforma il testo fondante della prima repubblica di Germania, in un certo qual modo, prestando il fianco a quello che avvenne dopo. Quindi, dal suo punto di vista, la non mancata disposizione al cambiamento di una Carta che mostri grossi limiti è foriera, non unica responsabile, ci mancherebbe altro, di drammatiche conseguenze. Può essere, non lo nego. Però può essere altresì al contrario.

Faccio un’ipotesi, rimanendo sulle parole di Weitz: una élite che, un giorno sì e l’altro pure, dice che il sistema non va e deve essere profondamente rivisto e che, di ogni questione, ne fa l’inizio o la fine dei tempi, in un millenarismo che poco o nulla s’addice alla dialettica democratica, non rischia di minare la fiducia in quello stesso sistema nel quale essa è classe dirigente, con tutti gli annessi e connessi derivanti dalla posizione occupata?

Provo a spiegarmi meglio. Se chi sta bene (parlo del potere istituzionale ed economico, dal Governo alle associazioni degli industriali, per stare al nostro caso nell’oggi, fortemente uniti nel sostenere la critica alla sistema rappresentativo chiedendone uno maggiormente “decidente”) dice che il regime che gli garantisce quella condizione di privilegio non va bene, cosa dovrebbero dire quelli che stanno male? E come si potrebbe evitare che i sentimenti di questi, proprio per quella critica, siano cavalcati da chi sul malessere sociale ed economico specula politicamente? In sintesi, come evitare che qualcuno s’alzi a dire che tutto ciò che non va bene è colpa della democrazia in sé, che non è in grado di risolvere alcun problema e che, a detta degli stessi che ne rappresentano in essa le istituzioni più alte, non funziona, e proponga cambiamenti e soluzioni più radicali? E non è scritto da nessuna parte che esse contemplino ancora la democrazia come via d’uscita.

Il caso è estremo, non lo nego. Ma non stanno dicendo, i democratici convinti, che la democrazia è minacciata dai populismi, di qua e di là dall’oceano che divide l’Occidente? Ecco perché ci andrei cauto, se fossi un rappresentante della nazione o un suo governante, nel dire che il meccanismo che mi permette di essere quel che sono non funziona. C’è l’eventualità, eventuale, appunto, fin quando si vuole, ma possibile, che qualcuno mi prenda in parola, e tenti di rivoltarlo proprio per spiegarmi fin dove è sbagliato dal suo punto di vista.

Per fortuna, mia prima che d’altri, da qui in basso non corro un tale azzardo.

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