L’altezza delle questioni

Sento spesso ripetere che le questioni sono complesse, che il mondo è complicato, che gli scenari si fanno sempre più difficili, articolati, con molteplici implicazioni e sfaccettature. E tutto ciò è dannatamente vero. Il problema è che, dinanzi a questa eterogenea realtà, nel cercare le risposte, quanti fanno e rappresentano la politica si rifugiano nella semplificazione, allontanando da loro tutto ciò che può svilupparsi esclusivamente su percorsi tortuosi, lo studio e l’analisi per la critica dell’esistente prima di tutto.

Giorni fa, leggevo un intervento di Emanuele Macaluso su l’Unità in cui, fra le altre cose, ricordava i tempi del convegno e la temperie culturale e sociale nei quali il Pci convocò all’Istituto Gramsci il convegno Tendenze del capitalismo, da lì sviluppando e facendosi promotore di un dibattito politico e sindacale importante, con risvolti nell’undicesimo congresso del partito di Botteghe Oscure, nel 1966. Nelllo scorrere quelle parole, mi sono ricordato delle pagine che Giuseppe Chiarante, un’esperienza giovanile nella sinistra Dc, prima, e una lunga militanza comunista, dopo, dedica ai giorni del quinto congresso dello Scudocrociato, a Napoli dove, poco più che ragazzo, ascoltò un Alcide De Gasperi preoccupato per la tendenza del gruppo di Amintore Fanfani «a non interrogarsi troppo sugli orientamenti della società», presi, com’erano, dal rapimento dell’efficientismo tradotto nell’occupazione del potere in tutte le sue forme, e in ogni suo posto (cfr. G. Chiarante, Tra De Gasperi e Togliatti. Memore degli anni Cinquanta, Roma, 2006, pp. 77-81).

Insomma, De Gasperi allora aveva timore che la ricerca della vittoria diventasse l’unico fine dell’azione del suo partito, Macaluso rimpiange oggi l’assenza di un approccio all’altezza delle situazioni reali, come pure questo Paese aveva conosciuto, proprio in quelle organizzazioni politiche che si incaricavano di «governare i processi», come si diceva, e per questo si spendevano per capirli. Dare torto al primo sarebbe contro la storia, dato che poi quello che lo statista trentino temeva accadde davvero. Spiegare che il secondo si sbaglia è allo stesso tempo arduo, soprattutto se si immagina di non essere sempre dalla storia contraddetti, presto o tardi.

Ma in tutti i casi, anche nelle peggiori derive di quel tempo che fu, e che fino a un paio di decenni fa era, lo sforzo di cercare di capire la realtà e tutte le sue sfaccettature era una costante, azzarderei, quasi una priorità, quando non addirittura un punto fermo dell’azione delle organizzazione politiche. Sempre, comunque, un tassello non eludibile nelle strategie, meglio, nelle ideologie che tutte quelle istituzioni sostenevano.

Cercarla ora quell’analisi, nel mondo nei partiti.

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