Adesso, Mario ci capisce

Era felice? “Di più, felicissimo”. Ma non sapeva che il contratto a tutele crescenti prevede la possibilità di un più facile licenziamento? “No, l’azienda ci aveva sempre detto di stare tranquilli, e che per tre anni stavamo sicuri. Poi non sono un tipo politicizzato, mai fatto uno sciopero in vita mia, non sono di sinistra. Vedevo Renzi in tv, parlavano tutti di ‘tutele crescenti’… Ecco sulla mia pelle ho visto che quella dizione è una barzelletta”. Come le hanno detto che restava a casa? “Mercoledì, erano le 17,30. Stavo facendo il turno pomeridiano, dalle 14 alle 22. Mi hanno chiamato i superiori: ‘Mario, c’è un calo di lavoro, non possiamo più tenerti, quindi da venerdì il contratto è risolto’”. E lei? “Non ci credevo. Se sei precario, te lo puoi aspettare. Se sai di essere a tempo indeterminato, no. E invece ho scoperto così che ero precario lo stesso. Da un momento all’altro a casa, l’ho trovato ingiusto, una mancanza di rispetto dal punto di vista umano. E ho ripensato all’articolo 18…”. Cioè? “Aveva ragione chi lo difendeva. Qui è finito tutto, la riforma è una falsa promessa di miglioramento”.

Mario, il protagonista di questa storia raccontata da Matteo Pucciarelli per la Repubblica dello scorso 14 novembre, è uno come tanti. Di quelli che all’essere ottimisti, come chiede la vulgata dominante, ci hanno creduto e ci volevano credere. E non è, come dice, “un tipo politicizzato”, sindacalista o di sinistra, non è un gufo rosicone, secondo l’allegra iconografia a fumetti degli amici del governo. No, è uno che è stato fregato, e per questo è incazzato. Mi scuso per i termini, ma a volte il bon ton è un lusso concesso solo a chi frequenta piani e ambienti lontani da quelli in cui vive Mario, costretto a lasciare il lavoro con la semplicità di un “nulla di personale” nella stagione in cui le tutele non fanno in tempo a crescere. Questo è, né più, né meno: lo chiamano “indeterminato”, nel senso che, quando al padrone conviene, serve, o semplicemente gira, voi siete fuori in meno di quanto serva a dire “Jobs Act”, e buonanotte ai lavoratori.

Adesso, Mario ci capisce. Capisce perché difendevamo quel principio. Capisce che quella riforma è una falsa promessa. Io sto con Mario. Ci sto ora che lui dà un senso a quello che facevamo e dicevamo. Ma ci stavo già prima, quando forse lui, che non è un tipo politicizzato, che non ha mai fatto uno sciopero, che non è di sinistra, in quella nostra battaglia vedeva solo il modo per “proteggere qualche privilegio” (che io non ho, che chiamo “diritto” e che per quelli come noi rivendicavo), o un’occasione per “perdere tempo” e “bloccare l’Italia”, come raccontava la narrazione che lui vedeva in tv. E ci sto pure se a lui, del mio stare dalla sua parte, probabilmente non interessa assolutamente nulla. Perché la sua parte è la mia: si chiama “classe”, per quelli affezionati ai termini d’un tempo, o semplicemente “condizione sociale”, per quanti s’accontentano delle fotografie.

Ai tanti altri che come Mario hanno ascoltato quello che diceva il governo e pensato che noi eravamo fuori dal mondo, ideologizzati e nostalgici, ora chiedo solo un po’ di credito per le parole che dicevamo e diciamo: non dovete prenderle per buone, provate a verificarle nelle cose che accadono. Anche quelle di cui nessuno parla in tv.

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