“Sono contenta che per te sia finita la crisi. Per me, e per molti come me, non è così”. L’ho letto ieri su un social network, come commento al post di una persona che riportava le dichiarazioni del ministro Padoan sull’uscita dell’Italia dalla recessione. Una risposta in cui mal si nasconde l’acrimonia rancorosa, ma che potrebbe essere una delle tracce ermeneutiche di questo presente.
In effetti, c’è un’intera retorica fatta di trionfalismi che circonda la narrazione dei vincitori di questa stagione. Sembrano voler dire, e in alcuni casi dicono direttamente, come più volte ha fatto lo stesso Renzi, che la ripartenza è questione di fiducia, e che la ripresa è qui, basta volerla afferrare. E per loro forse è davvero così, ecco perché paiono tanto convinti nel sostenere le ragioni delle loro tesi. Ma per gli altri?
Perché se si va in giro a raccontare che la crisi è finita, il rischio è che chi dalla ripresa è escluso possa sentirsi colpevolmente messo da parte. Per torti suoi o per errori altrui, a un certo punto, poco importa. Quel che per lui conta è che arriva il benessere, lo dicono tutti, ma egli non ne coglie i frutti.
Guarda gli altri gioire dei risultati dell’economia, e non se ne sente parte. Sente tanti parlare di ottime prospettive e importanti traguardi, ma si percepisce lontano. Avverte intorno a sé la soddisfazione di quelli che ce l’hanno fatta, mentre soffre per il proprio senso di inadeguatezza. Intanto, la tv gli sbatte in faccia i sorrisi sicuri di chi s’afferma, i giornali gli raccontano delle prodezze di quanti riescono, internet pullula di peana ai nuovi trionfatori. E lui è escluso.
C’è un rischio in questa situazione? Io credo di sì. Quello che gli esclusi possano avvertire la loro situazione come un torto fattogli dagli inseriti, un’irrecuperabile sconfitta, peggio un dazio da pagare per l’affermazione di altri. E se quegli altri, o comunque tali percepiti, continuano a raccontare i fasti della loro affermazione o a farne sfoggio, nel commisurare questi alle proprie miserie e difficoltà, quel sentimento di rancore potrebbe trovare insano nutrimento.
Sarebbe questa una ragione sufficiente a consigliare un po’ di maggior misura nelle esternazioni del personale successo da parte di quanti ne hanno a sufficienza. Ancor più se quello è smisurato in rapporto ai meriti. Perché alimentare asti e risentimenti non è mai opportuno e saggio, meno lo è sollecitarli attraverso la rivendicazione delle vittorie e la loro celebrazione sulle disfatte degli altri, nel tentativo grossolano di disegnare sé stessi come trionfatori e vinti quelli che in tal novero non son compresi.