La pochezza del pragmatico

“Basta ideologie e dogmatismi, è il tempo della concretezza e del pragmatismo”. Queste parole, ripetute quasi sempre nello stesso schema, quasi fossero una formula magica, le sentiamo ripetere almeno da un trentennio. E almeno da allora, sentiamo ripetere il ritornello dei cantori della superiorità dell’uomo pragmatico su quello ideologico.

Come se le ideologie fossero solo un insieme di dogmi da prendere a scatola chiusa, se ne invoca l’eliminazione come liberazione dalle costrizioni del passato. Di più, se n’è festeggiata la fine di tutte con la caduta della reificazione errata di una di esse, mentre era solo questa a cadere, dando all’altra, a quella che le si opponeva, lo spazio per diventare l’unica e quindi talmente egemone da poter essere considerata non-ideologica e non-parziale solamente perché non si scorgevano alternative in un’altra parte.  Ma i valori di questa non sono neutri, e sebbene intesi come ipostatici, sono solamente contingenti e congiunturali, ed espressione realizzata degli interessi di una parte, quella dominante.

Le ideologie, però, erano e sono anche altro, soprattutto altro. Sono una visione del mondo, un sistema di valori organizzato, una memoria comune sulla quale poggiare il pensiero del futuro. Sono il tendere verso una meta, il guardare oltre l’orizzonte del tempo presente, l’andare al di là di quello che c’è qui e ora. Festeggiandone la fine, o l’affermazione finale di una sola, si rinuncia a ogni discorso possibile sulla diversità del domani perseguibile, ci si consegna alla ripetizione di quello che abbiamo e alla reiterazione di quanto facciamo: il paradiso di quelli che, hic et nunc, stanno bene, l’inferno per chi non ha gli spazi per realizzare il proprio essere e i modi per soddisfare i suoi bisogni.

In questa temperie di omologazione culturale, si afferma l’uomo pragmatico. Questi non ha bisogno di inserire in un quadro generale le cose che dice e che fa; gli basta che si possano dire e fare. L’immediatezza è la cifra del suo agire, il presente è la dimensione del suo essere. Egli è-nel-presente ed è-per-il-presente, non nutre sogni di futuro e coltiva l’incubo del passato. Ed è oggi il politico per eccellenza, colui che agisce, che amministra, che realizza concretamente le cose, mentre altri discutono vanamente sui pensieri.

L’azione di quell’uomo pragmatico politico, fa a meno della cultura politica non perché non possa averne, ma perché non gli serve. A lui basta agire nel tempo dato e nelle condizioni esistenti. Il resto, dal suo punto di vista, che è poi anche quello maggioritario, è “chiacchiera, perdita di tempo, inutile retaggio ideologico”.

Quella cultura politica che era la visione ideale del mondo a cui tendere nella propria azione, diventa così inutile arnese, da riporre nella cassetta degli attrezzi vecchi, degli strumenti da rottamare. Così facendo, però, l’uomo pragmatico che parla di futuro contrapponendolo al passato fatto di ideologie e contrapposizioni, eternizza il presente, nella, ideologica, coincidenza degli interessi all’interno dell’unica visione del mondo possibile: quella presente, appunto.

L’agire politico diventa quindi azione sul presente, esclusivamente quello che c’è. Al di là della qualità e dell’efficacia, diventa pratica amministrativa, di governo immanente, di gestione dell’esistente. Che sia la normativa sul lavoro o la gestione del verde pubblico, non si inserisce più in un quadro generale, in una visione compiuta. Per questo, ovviamente, non richiede più nemmeno coerenza, consequenzialità, logicità. Si può essere, contemporaneamente, a sinistra sulla tutela ambientale e di destra nell’approccio securitario, senza che nessuno ponga quelle azioni dinanzi alle conseguenze, alle incoerenze e al corto circuito logico in cui si trovano.

Il ricorso all’affermazione immediata, il salire della temperatura nel discorso politico su alcuni argomenti definiti esiziali e poi, appena qualche giorno dopo, lasciati nel dimenticatoio, l’approvare provvedimenti oggi in contrasto con quello che si diceva ieri e si riprenderà a dire domani, il continuo ricorso alla smentita, non sono limiti del personale politico: sono il modo particolare in cui l’uomo pragmatico espone i propri limiti e le sue peculiarità.

Non dovendo costruire una visione completa della realtà, perché si accontenta, senza mai metterla in discussione, della narrazione di quello che c’è definita dall’ideologia dominante, può compiere un gesto adesso e contraddirsi domani, adducendo a propria giustificazione il fatto che il pragmatismo e l’essere concreti si manifestano proprio in quell’agire non finalizzato e contingente.

L’epifania della pochezza di quel fare senza fini e senza fine, diviene il riconoscimento del merito degli agenti, in una triste ripetizione dell’essere così come si è giorno per giorno, non indicando una meta o un approdo diverso, non perseguendo nessuna visione, non tentando di realizzare alcun ideale.

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