Élite per esclusione

“La lotta dei signori tra loro non ha nulla a che fare con una ‘vendetta’ tramandata di padre in figlio; né si tratta di una lotta politica reale, fra conservatori e progressisti, anche quando, per caso, prende quest’ultima forma. […] La piccola borghesia non ha mezzi sufficienti per vivere col decoro necessario, per fare la vita del galantuomo. Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. […] In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno far nulla […]. Questa classe degenerata deve, per vivere (i piccoli poderi non rendono quasi nulla), poter dominare i contadini, e assicurarsi, in paese, i posti remunerati di maestro, di farmacista, di prete, di maresciallo dei carabinieri, e così via. È dunque questione di vita o di morte avere personalmente in mano il potere; essere noi o i nostri parenti o i nostri compari ai posti di comando. Di qui la lotta continua per arraffare il potere tanto necessario e desiderato, e toglierlo agli altri; lotta che la ristrettezza dell’ambiente, l’ozio, l’associarsi di motivi privati o politici rende continua e feroce”.

In Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi scriveva queste parole a proposito della situazione della borghesia dei piccoli centri lucani. Certo, sono passati molti anni da allora. E certo la Grassano o la Aliano (Gagliano nel libro) descritte dal suo confino, non esistono più. Come non esiste più la Montegrano (Chiaromonte) di Edward C. Banfield.

Ciò che esiste ancora, anzi, persiste, è quel senso proprietario, familistico e amorale, come lo definisce il sociologo americano, delle leve e delle dinamiche del potere e la tensione, per riprendere proprio le parole del suo Le basi morali di una società arretrata, a “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”.

E purtroppo, non è più (o forse non è mai stata) solamente una questione marginale, di comunità arretrate, periferica e lontana dai centri maggiori e dal centro della società. Oggi chiamiamo fuga dei cervelli quella che Levi, con parole dure,  vedeva come la partenza dei “giovani di qualche valore”. Nei fatti, è la stessa cosa, “quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese”, e non più solamente quello con la minuscola, cercando all’estero quello che qui gli è negato, precluso, impossibile.

Le statistiche, con l’impassibilità propria che hanno i numeri, in questo sono spietate. Ben sette laureati su cento fra quelli che trovano un impiego stabile a un anno dal conseguimento del titolo, lo trovano fuori dall’Italia. Di più, uno su quattro fra chi ha conseguito il titolo di “dottore in economia” alla Bocconi nel corso del 2013 è stato assunto a New York, Shangai o Parigi; solo cinque anni fa, erano uno su sette. E sono ben 200 mila coloro che sperano di poter spendere fuori dal Paese il curriculum accademico, mentre l’Istat stima in 14 mila i giovani che nel 2012 hanno deciso di spostare la propria residenza oltre confine, con laurea al seguito.

Anche se lo guardassimo esclusivamente da un’ottica economica, un simile andamento apparirebbe come un disastro. Per non parlare del valore sociale e culturale che all’Italia viene meno con il fatto di dover rinunciare alle sue energie e talenti migliori.

Quel che è peggio, è che, come sempre, l’emigrazione colpisce il territorio da cui muove e, con esso, le popolazioni che lì si trovano a vivere. Perdendo le risorse migliori e più preparate, ci tocca scontrarci con le lotte per il potere dei gruppi restanti, che “per vivere” devono riuscire ad accaparrarsi i “posti di comando” e togliere potere a quelli antagonisti.

In questo modo, tali clan si fanno classe dirigente. Non sono un ceto esclusivo selezionato per capacità, non hanno lo spessore né le competenze necessarie, però hanno quei “posti di comando”, e lottano per tenerseli e per precluderne l’accesso ad altri, per escluderli: in sintesi, diventano élite per esclusione.

Quei gruppi che detengono ed esercitano il potere unicamente per i propri interessi, quindi, vengono scambiati per una cerchia ristretta di valenti governanti, solo perché hanno la disponibilità di quello stesso potere, e la confusione diviene così generale che i due concetti tendono a unificarsi sempre di più, nelle parole comuni come nelle analisi più attente.

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1 risposta a Élite per esclusione

  1. Mariagrazia scrive:

    Emigrazione delle giovani generazioni più preparate culturalmente di questo Paese; diminuzione dell’aspetto rappresentativo delle Istituzioni; accesso, in quelle Istituzioni, tramite nomina od elezione indiretta, di chi un po’ di potere ne ha già (Sindaci, Presidenti di regione, Consiglieri; liste bloccate); per le Province sta già succedendo, per il Parlamento probabilmente accadrà.
    Rappresentanza ed innovazione sotto scacco.
    A meno che nuove avanguardie maturino sotto le ceneri del nostro presente…

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