Noi, il popolo degli impoveriti

Noi europei del Sud, greci, spagnoli e italiani, siamo ormai, e sempre di più, un popolo di impoveriti. Colpa della crisi? Non proprio: colpa delle risposte che, con le politiche dell’austerity, a quella si è inteso e voluto dare. Cerco di spiegarmi meglio.

Quando la crisi è iniziata, e correva l’anno 2007, sembrava una cosa che c’entrasse solo con le banche e la finanza. E infatti, lo era. Solo che, banchieri e finanzieri, di rimetterci proprio l’osso del collo perché il sistema non riusciva più a smaltire le tossine da loro stessi introdotte, non avevano granché voglia. Così han minacciato fuoco e fiamme, tanto che, in una ricercata eterogenesi dei fini, quello che era il motore dello sviluppo nel privato, il debito, è divenuto un inconcepibile limite nel pubblico.

Quindi, più che di far rientrare su miti consigli chi su quel debito s’era arricchito, chiedendo indietro un po’ di quella ricchezza, gli Stati hanno ceduto alle pressioni perché ripagassero il loro debito, agendo sulla contrazione delle proprie spese.

Il fatto è, però, che quelle spese non erano solo sprechi, ma la garanzia, sotto forma di servizi, adeguati livelli di welfare e anche, perché no, posti di lavoro diretti e indiretti, di avere una possibilità di vita “libera e dignitosa” per molti cittadini. Niente, la vulgata è stata: “tagliare, tagliare, tagliare”. E ora, eccoci qui.

Ricordo uno scambio di opinioni all’arrivo della crisi nel nostro Paese, nell’estate del 2008. “Alla fine”, dissi, “toccherà sempre ai più poveri pagare per gli sbagli dei ricchi e dei potenti”. La mia interlocutrice, stupefatta e con l’espressione di disappunto propria di chi non concepisce opinioni fuori dal coro (che allora cantava il dramma del crollo dei valori azionari e degli scambi), rispose: “sì, come no; perché i poveri hanno azioni in Borsa”.

Oggi, l’Istat ci informa che gli indigenti in Italia sono aumentati: più di dieci milioni di italiani, uno su sei, sono in uno stato di povertà relativa, mentre più di 6 milioni, uno su dieci, ricadono nella categoria della povertà assoluta. “Alla fine”, avevo avuto ragione: a pagare sono stati i più poveri e a seguire noi, il popolo degli impoveriti.

Eppure, di tutto questo nessuno ha colpe. Non ne hanno gli economisti, che infatti, continuano a spiegare a tutti gli altri quello che (gli altri, appunto) dovrebbero fare per uscire da questa situazione e invertire il trend degli ultimi anni.

Non ne hanno banchieri e investitori, ai quali ancora chiediamo consiglio e diamo aiuto in forme varie e diverse, dall’elargizione di liquidità fino all’eliminazione di tutti quei vincoli per la loro azione di investimento, e che visti dalla parte opposta, altro non sono che diritti e tutele per gli investiti dalla forza degli eventi.

Non ne hanno, soprattutto, politici e governanti, che, continuamente e con abnegazione, studiano il modo per risollevare le sorti dell’economia mondiale e dei singoli Paesi, e che si sforzano di mettere a punto strategie e misure capaci di affrontare le sfide e centrare i risultati.

Ho solo un dubbio: ma quegli economisti, banchieri e politici che parlano ora, con sicurezza, delle cose da fare per “uscire dalla crisi”, sono gli stessi che prima spiegavano a tutti, e con la medesima sicurezza di adesso, che andavano fatte esattamente quelle cose che, facendole, ci hanno portato qui dove siamo?

Cioè, quelli che oggi cantano il coro nella tragedia della disoccupazione dilagante e della povertà crescente, non hanno gli stessi nomi, le stesse facce e gli stessi vestiti di chi, appena qualche mese fa, danzava sugli atti della commedia della crescita senza limiti e del denaro che genera altro denaro, in scena, per il pubblico plaudente e pagante, sul proscenio allestito nel campo dei miracoli globale?

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