Perché non mi piace il Governo delle larghe intese? Perché sono un antiberlusconiano di maniera? No, al massimo un antiberlusconista di sostanza. Perché pensavo che “mai col Pdl” fosse un impegno serio? Sì e no, nel senso che sì, pensavo fosse un impegno vero, e no, perché non è solo per quello. Perché non me l’aspettavo e la delusione è grande? No e sì; no, perché come il Don Ciccio Tumeo del Gattopardo, metto in conto che il mio voto possa essere poi stravolto e sì, perché devo ammettere che la delusione è grande.
Ma allora perché sono contrario al “governissimo”? Semplicemente, perché avendo sempre creduto nella politica e pensando che questa in cui viviamo fosse democrazia, in quella logica vedo la fine di entrambe per mano di coloro che dovrebbero farle vivere. E questo non può certamente farmi sorridere.
Cerco di spiegarmi. Come si è arrivati alle larghe intese? Perché non c’erano alternative, così ci hanno spiegato. Dicendo questo, però, si infliggono, con sprezzante leggerezza, i primi fendenti al processo politico e democratico, ché è sempre possibilità di scelta fra diverse alternative, oppure non è.
L’altra motivazione che viene addotta a giustificazione della decisione assunta è quella della “responsabilità”. Si è scelta quella strada, è la tesi dei “responsabili”, perché gli interessi di partito andavano sacrificati per tutelare e non danneggiare l’interesse del Paese. E qui la politica e la democrazia sono colpite al cuore, s’accasciano e smettono di vivere. Perché, se gli interessi delle parti danneggiano l’interesse nazionale, allora quegli interessi sono insostenibili. Ma se sono tutti gli interessi di parte ad essere insostenibili, allora tutte le parti sono dannose, è dannoso il loro agire, sono dannose le loro scelte. C’è, quindi, secondo tale tesi, bisogno di unitarietà, condivisione, in fin dei conti, “unanimismo”; esattamente il contrario della democrazia e della politica, che sono sempre confronto, contrasto fra interessi differenti, discussione e mediazione, dibattito e anche scontro.
Ma c’è di più. In questa logica, la crisi economica da elemento congiunturale diviene situazione contingente, indifferente e non determinante nel suo essere condizione di base della reale sostanza del contesto generale. Se, infatti, quegli interessi di parte sono dannosi all’interesse del Paese, tanto che per salvaguardare il secondo i primi devono essere sacrificati, perché non farlo sempre invece che solamente nei momenti di crisi? Se è per l’interesse del Paese, tanto varrebbe rendere strutturale questa prospettiva: il Paese ne trarrebbe sempre vantaggio. O no?
In effetti, questa ipotesi non è poi tanto un’ipotesi. Quello che stiamo vivendo sembra la continuazione di un processo costituente iniziato una ventina d’anni fa, che si è strutturato come sistema unico almeno dalla fine degli anni novanta e i primi anni duemila. Per farla breve, l’ultimo sussulto, materiale ed ideologico, di radicale contestazione del modello di organizzazione universale accettato in maniere acriticamente maggioritaria si è avuto con i movimenti “altermondisti”, soffocati come sappiamo e finiti per i più svariati motivi. Da allora, nessuno più si è permesso di mettere in discussione il dogma “dell’unico mondo possibile”.
Dal punto di vista, invece, della strutturazione e delle pratiche del fare politica dei partiti, venendo al “caso Italia”, la maschera, per così dire, i sostenitori di questo modello totalizzante e vocato all’unanimismo l’hanno gettata via nel novembre 2011, con la nascita del governo Monti, di cui quello Letta ne è la prosecuzione sostanziale con figure nemmeno tanto diverse.
Difronte alla crisi, si disse allora, dobbiamo salire tutti a bordo della stessa scialuppa, mettere da parte gli interessi di partito nel più alto obiettivo della tutela degli interessi della Nazione. Ma, ripeto, se è per il supremo interesse della Nazione, perché non rendere “costituito” questo fenomeno costituente? Fare di questa soluzione d’emergenza un’organizzazione strutturale e duratura?
Sono io che esagero? In effetti, il governo Monti nacque in emergenza, e a quella coincidentia oppositorum emergenziale è seguita la coincidenza delle proposte politiche che si dichiaravano opposte per impraticabilità numerica di alternative parlamentari. È la stessa cosa? Io penso di sì, e credo che il risultato elettorale (peraltro anche prevedibile e previsto, dato che in pochi pensavano ad una vittoria netta di qualcuno dei competitori principali, per colpa di una legge elettorale che gli stessi che criticavano si sono ben guardati dal cambiare) sia stato solo il migliore degli alibi possibili. Se così non fosse, perché invece di un governo politico con gli esponenti più in vista dei diversi schieramenti non si è fatto un governo di scopo, con il numero minimo di ministri e di obiettivi da realizzare?
In tutti i casi, però, oltre alla soluzione adottata per l’esecutivo, la strada che ci spiegano come concretamente percorribile appare unica ed univoca: la via, appunto, del “non ci sono alternative”. Ovviamente, se quella è l’unica possibilità perché altrimenti “sale lo spread”, “scende il rating”, “si spaventano i mercati”, “ce lo chiede l’Europa”, “c’è il patto di stabilità”, “c’è da rispettare il pareggio di bilancio” (che inserito in Costituzione, con la modifica dell’art. 81, rende ancora meglio l’idea di quello che dicevo chiamando costituente il periodo che stiamo vivendo), eccetera, eccetera, eccetera, se veramente, come ci dicono, c’è una sola strada, un’unica soluzione, allora qual è l’agibilità rimasta per la politica?
Sulla via della soluzione obbligata nel pensiero unico, vedere dunque nell’ambito del “governo del possibile” la coincidenza operativa di Pd e Pdl, in effetti, non è nemmeno strano.
Nella situazione data, poi, la sinistra è realmente inutile. A dirla tutta, senza politica, sarebbe inutile anche la destra, se non fosse che è proprio il modello a cui la destra tende quello ad essersi già realizzato. Cioè, siccome la sinistra si qualifica nell’essere tesa al progresso sociale ed economico puntando all’eguaglianza, mentre la destra mira alla conservazione delle disuguaglianze come motore dello sviluppo economico, e dato che, oggi, il modello vigente che ci si affanna a conservare è proprio organizzato come la destra lo vorrebbe, quest’ultima scambia, e con profitto, la praticabilità del proprio agire politico con il pieno accoglimento delle sue prerogative e dei suoi principi.
È dunque inutile, dicevo, la sinistra all’interno del perimetro del governo, perché le cose da fare sono indiscutibilmente vincolate e quelle che questa vorrebbe realizzare “non si possono fare”. Al di fuori di quel perimetro, nell’ambito della rappresentanza, essa diventa mera testimonianza, quindi inutile anche in questo campo.
L’alternativa qual è? (Altro concetto ripetuto come un mantra prima della formazione del governo largamente inteso). L’alternativa sarebbe rompere lo schema che vede attualmente separati l’ambito della rappresentanza e quello del governo, ritornare a dare senso a concetti come democrazia e politica, che non siano solo declinati in aggettivi per pratica e tecnica, anche rimettendo in discussione quelli di delega e rappresentatività così come oggi sono interpretati.
Come vedete, quindi, non è una disputa fra una sorta di nominalismo politico ed una teoria concettualistica dell’agire democratico: è una questione di praticabilità politica della mia idea di democrazia e delle mie idee di sinistra. Per farla breve: il governo delle larghe intese è la santificazione del “non ci sono alternative”; se non ci sono alternative, le cose che si fanno sono le uniche che si possono fare, sia che le faccia il Pd, sia che le faccia il Pdl, sia che le facciano insieme; e se non è possibile fare altro, allora, perché io dovrei impegnarmi, scegliere, votare?
Ecco perché sto alla larga dall’intesa destracentrosinistra. Perché pensavo di poter dire la mia, e perché rivendico la mia autonomia dal pensiero unico, quel diritto a sognare “una libertà diversa da quella americana”, per dirla con le parole Gaber.
E d’altronde, quello che ci si paventa dinnanzi non è altro che la creazione di un modello di tipo statunitense. Anche lì ci sono due proposte sostanzialmente interscambiabili nei grandi temi e differenti solo nel dettaglio delle diverse sensibilità, le quali si alternano alla governo quasi solamente per dare un’immagine scenica, teatrale della consegna della scelta all’elettore, per evitare che, alla lunga, il “non ci sono alternative” diventi una chiusura psicologica pericolosa dell’orizzonte percepito per le libertà collettive.
Negli Usa come qui, alla fine, lo schema d’azione e l’architettura portante del sistema divengono unitariamente condivisi e sostenuti. Ed anche negli Stati Uniti, infatti, la partecipazione dei cittadini ai momenti di scelta dei governanti è spesso distaccata e lontana da ciò che abbiamo conosciuto, in Italia ed in Europa, come “impegno politico”.
Cosa si potrebbe fare? Come ho detto, rompere quello schema di separazione fra il governo e la rappresentanza. Ma non lo vuole nessuno. E poi, la maggioranza imporrà sempre con la forza dei numeri la debolezza dei propri concetti.
Un po’ come ricordava Carl Schmitt nel suo “Le categorie del politico”: “Il metodo della formazione della volontà attraverso la semplice fissazione della maggioranza è sensato ed accettabile se viene presupposta una sostanziale omogeneità di tutto il popolo. In tal caso non si verifica una sopraffazione della minoranza ma il voto serve solo a far risaltare un accordo ed un’unanimità già esistente e presupposta, seppur in forma latente. Infatti poiché ogni democrazia riposa sul presupposto del popolo nella sua interezza, unitarietà ed omogeneità, così non può esistere di fatto nessuna minoranza e tanto meno una pluralità di minoranze stabili e costanti.” E qualora non fosse chiaro che in un sistema democratico così “largamente inteso” non c’è spazio per concetti come pluralità e minoranza, sempre Schmitt sentenziava: “Chi possiede il 51% potrà rendere illegale, in modo legale, il restante 49%. Egli potrà legalmente chiudere dietro di sé la porta della legalità, attraverso cui è entrato, e trattare come un delinquente comune l’avversario politico, che forse bussa contro la porta chiusa con gli stivali”.
Quest’ultima citazione tiene in sé quello che io vedo come imposizione della volontà maggioritaria, ma anche tutto quello che sentiamo in questi periodi di poche e ben confuse opinioni scambiate per idee: politici eletti con sistemi che vorrebbero ora abolire per gli altri, dalle primarie alle liste bloccate a seconda dei casi; professionisti, della politica e non solo, con carriere costruite sull’abuso, a tratti infantile, di quelle nuove tecnologie comunicative che oggi vorrebbero limitare per non essere disturbati; apprendisti stregoni o novelle Pandora che giocando con forze che non sapevano contenute dagli arnesi utilizzati, hanno scatenato scenari che ora non riescono a gestire.
Devo confessarvi, però, che in attesa del sipario dell’opera buffa o dell’incipit del dramma wagneriano (ognuno opti per la rappresentazione che preferisce, a seconda della propria sensibilità; tanto, ormai, a malapena si recita a soggetto, figuratevi se qualcuno s’è preoccupato di scrivere il copione completo, scegliendone anche registro, toni ed andamento), il proscenio è popolato davvero da curiose figure. Il divertimento nell’assistervi è almeno pari all’inutilità provata per aver (figuratamente, per fortuna) pagato il biglietto; quindi, a seconda dei gusti, ridete o piangete, gioite o preoccupatevi, ma almeno, godetevi lo spettacolo.
Come dite? Io che cosa farò? Finché il pensiero unico al potere nella politica e nei partiti me lo consentirà (e non è detto che sarà ancora per molto, visto con quanto fastidio già ora sono tollerate le voci in distonia col vangelo “dell’unico mondo possibile”), continuerò a dire la mia.
E se non sarà più possibile? Beh, in quel caso, credetemi, il problema sarà mio almeno quanto vostro.
Ma anche allora, però, avrò lo stesso potere che ho oggi: quello del mio pensiero e delle mie parole; non di più e non di meno. E poi, per quanto inutili, sono tutto e solo quello che ho.