Della libertà e dei suoi affanni

Scrive nel prologo del suo recente saggio Ilko-Sascha Kowalczuk: «gran parte dei tedeschi dell’Est ha subito uno “shock da libertà” allorché si è trattato di prendere controllo delle proprie azioni e di definire il cammino da percorrere. […] In effetti, la maggior parte di loro confondeva il benessere materiale con la libertà […]. Il benessere materiale rende molte cose più facili, ma non rende le persone più libere né è un prerequisito per la libertà. Lo “shock da libertà” di molti tedeschi dell’Est derivava da considerare la libertà come una conseguenza del benessere materiale, della democrazia e dello Stato di diritto. Le “idee del 1989” erano idee di libertà, idee che troppo raramente nel corso della storia sono state capaci di ottenere il consenso della maggioranza. La libertà non è qualcosa che una volta data esiste per sempre. Ogni generazione, a patto che le vengano garantite le condizioni per vivere in libertà e in democrazia, deve acquisire di nuovo una pratica con essa» (I.-S. Kowalczuk, Shock da libertà. La Germania, l’Est e l’ascesa dell’estremismo, Donzelli editore, 2025, pag. 7).

Il volume dello storico tedesco è incentrato sul fenomeno della crescita, negli ultimi anni, dei movimenti estremisti nell’ex Ddr, ma l’approccio umano al tema della libertà vale per i tedeschi dell’Est come per gli uomini in generale. E mi ha fatto tornare in mente, in quel suo passaggio sulla confusione tra libertà e benessere materiale, le parole del carbonaio che concludono la novella verghiana Libertà, ispirata ai fatti di Bronte durante la spedizione dei Mille. Spinta dalla promessa di distribuzione della terra echeggiata in quella temperie, la folla della cittadina siciliana dà l’assalto ai ricchi e alle loro proprietà. Quando, con l’arrivo di Brixio in paese, viene d’autorità ristabilito l’ordine e comminate le pene, sommarie, per gli assalti, anche al carbonaio tocca il conto con la giustizia degli uomini, e «mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…». (Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle, Mondadori, 2004, vol I, p. 25).

C’è il dato materiale, certo, sia nella confusione dell’oggi di cui parla Kowalczuk, sia nelle parole della folla di cui narra Verga. E c’è, ieri come adesso, la coscienza di quanto sia più facile non dover scegliere. Sempre Kowalczuk fa iniziare quel suo saggio con le parole di un romanzo di Hans Fallada:

«La prima giornata emozionante con il suo andirivieni, con la presentazione, la vestizione, l’assegnazione è finita, la reclusione è completata, e Kufalt siede solo sul letto della cella 207.

I soliti, familiari rumori serali riecheggiano ancora nella prigione: un letto sbatte sul pavimento, qualcuno fischietta nella sua cella e il suo vicino protesta con un ruggito, due persone parlano da una finestra all’altra al piano sottostante, il coperchio di un secchio tintinna, un cane da guardia ulula nel cortile.

Kufalt sta bene, Kufalt è soddisfatto. Ha una bella cella, il materiale è impeccabile, le spazzole sono come nuove […]. All’inizio non si può essere troppo impertinenti, con il tempo s’impara dove si può rischiare […]. Ma è meglio qui che fuori […]. Kufalt si è tirato la coperta fin sulle spalle, in gattabuia c’è un bel silenzio, dormirà benissimo.

È bello essere di nuovo a casa così, senza più preoccupazioni.

Quasi come quando tornavi a casa con tuo padre da tua madre.

Quasi?

Anche meglio, in realtà. Qui c’è pace e tranquillità. Qui nessuno ti parla. Qui non devi decidere nulla, non devi compiere alcuno sforzo.

È bello sentirsi così. Sono davvero a casa.

E Willi Kufalt si addormentò dolcemente, sorridendo sereno».

(H. Fallada, Wer einmal au dem Blechnapf frißt, Aufblau-Verlag, 1967, pp. 540-543, qui in I.-S. Kowalcczuk, op. cit., pp. 5-6)

Volendo essere meno rigidi, e quindi lontani dai possibili universi carcerari, si può usare uno spot, per capire come quei sentimenti, quella tranquillità del non dover scegliere siano ancora attuale. Dopotutto, ce lo insegnò Pasolini quanto una pubblicità può essere indicativa dello zeitgeist, allorché vide nella reclame di una marca di jeans la rinuncia della moralità cristiana all’avanzata del consumismo amorale. Nondimeno, in una pubblicità d’una nota azienda telefonica di pochi anni fa, un altrettanto noto volto televisivo spiegava perfettamente il senso ultimo di quest’epoca. Dopo aver elencato i tanti prodotti connessi all’offerta, il testimonial diceva: «Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?».

Ascoltando parole come queste, è difficile non pensare a quelle che il Grande Inquisitore di Dostoevskij rivolge al Cristo che ritorna sulla terra: «Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che essi [gli uomini, nda], nella loro semplicità e innata sregolatezza, non possono nemmeno concepire, una libertà che temono e paventano, giacché non c’è mai stato nulla di più insopportabile, per l’uomo e per la società umana, della libertà» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamzov, Garzanti, 2019, vol. I, pp. 350).

Non dover scegliere è davvero magnifico? Non credo. Però è comodo e può essere, in un contesto di sicurezza materiale, appagante, quello sì; è il dubbio a essere pesante, spesso difficile, a volte addirittura insostenibile per le spalle non abituate. La tranquilla certezza di non dover decidere rende invece felici i devoti di Ananke, la dea greca della necessità: così è perché così dev’essere, e a noi lasciateci in pace, rifocillati e tranquilli.

Dopotutto, lo sappiamo, la libertà è scomoda, e spesso la servitù è volontaria, come ci spiegò La Boétie (cfr. É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, 2015); se poi a questa si può unire qualche bonus e un po’ di garantito benessere, perché non sentirsene compiaciuti? Da tempo i più rivoluzionari hanno messo da parte le armi, quando hanno scoperto che nessuno voleva la rivoluzione, ma al massimo l’aumento salariale. La libertà, nel nostro tempo e nel nostro mondo, è tutt’al più la libera facoltà di accaparrarsi “la roba”, appunto, come quei rivoltosi “rusticani” di Verga a cui sopra si accennava.

E quella facoltà di scegliere, di disegnare da sé il proprio futuro, di definire contesti diversi? Ma chi la vuole! Qui ci bastano le cose che possiamo contare e contenere, e una tariffa all inclusive che le contabilizzi e le contenga tutte. Così, infinite possibilità si riducono a una sola rinuncia: quella libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?

Così camminando tutti noi da sempre, l’ultimo uomo adombrato dallo Zarathustra di Nietzsche, che «non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare» (F.W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, tomo I, Adeplhi, 1973, pag. 11), è sempre più vicino.

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