Tanto, quanto costa chiudere una scuola?

«Scuola, è dietrofront: “Se c’è un positivo quarantena per tutti”», titolava ieri l’edizione online di Repubblica. E con un tono cadenzato quasi a ricordare i bollettini telegrafati d’un tempo, l’articolo di Michele Bocci spiegava nelle prime battute: «Stop al protocollo sulla scuola che prevede di non mettere in quarantena l’intera classe quando c’è un solo caso e quindi ritorno alla Dad. L’aumento dei contagi, cresciuti del 25% nell’ultima settimana, e i timori legati alla variante Omicron suggeriscono cautela nelle classi e così ministero alla Salute e Regioni decidono di bloccare una novità introdotta appena poche settimane fa. Ieri sera una circolare ha bloccato le indicazioni sulla gestione dei casi a scuola». In serata, poi, la contro-retromarcia, nel senso che il Governo pare vorrebbe mantenere la regola per cui, con un solo positivo per classe, non scatterà automaticamente la didattica a distanza. Ora, io non so quale decisione sia giusta o meno (anche se, a giudicare dalla repentinità con cui vengono assunte e rinnegate, nemmeno chi è titolato a prenderle dà l’impressione di poter rassicurare a riguardo), però, non so come dire, ho l’impressione che quella della chiusura delle scuole stia diventando una reazione immediata, motivata più dall’idea di dare a intendere o credere di star facendo qualcosa che in virtù degli esiti effettivi della scelta presa. Senza parlare dei costi, ovvio. Andiamo con ordine.

Finito il primo lockdown generalizzato, nel maggio del 2020, mentre tutto era riaperto, le scuole rimasero chiuse. Era per la loro riorganizzazione, si disse; va bene. Alla ripresa autunnale, molti territori iniziarono dopo, perché i contagi risalivano a causa, si spiegò, delle discoteche aperte (che poi queste le avessero aperte gli stessi che tenevano chiuse quelle, si evitò di precisarlo). A un certo punto riaprirono, a singhiozzo, con fermi periodici, Dad a settimane alterne, eccetera, eccetera, eccetera. Oggi siamo al punto in cui siamo, sintetizzato dalla confusione a cui rimandano le due notizie di ieri che citavo poco sopra, dopo aver vaccinato gli insegnanti per primi e tanti, tantissimi alunni, almeno fra quelli sopra i dodici anni di età. Giusto? Sbagliato? Ripeto, non ho strumenti per dirlo. Però chiedo: avete mai visto un supermercato chiudere per un caso di positività fra i lavoratori? E una fabbrica? Una banca? O nessuno lì si è mai infettato, oppure la diversità di decisione ha una differente natura (e no, non vale come motivazione il fatto che gli studenti si “ammassino” più e più frequentemente dei bancari o delle cassiere, perché vi sono mansioni e luoghi di lavoro, fra quelli mai chiusi, dove la locuzione «a stretto contatto di gomito» non è affatto una metafora). E credo, come accennavo poco sopra, che tale diversità sia dovuta a un’errata, parziale e sinceramente miope valutazione dei costi fatta nelle varie fasi del processo decisionale.

In sintesi, si ha la sensazione che la scuola venga chiusa con maggiore facilità perché se ne stimi di meno l’importanza. «Tanto», pare essere il ragionamento, «chi ha voglia di studiare, i libri li apre pure da casa, collegato attraverso un pc con gli insegnanti». Appunto, chi ha voglia. Chi ha i libri a casa e un pc disponibile. Chi ha una casa adeguata e un ambiente famigliare favorevole. Ma gli altri? Pazienza, evidentemente. Che questa sottovalutazione si legga a destra, dove al massimo si protesta perché le famiglie, a scuole chiuse, non hanno un posto dove lasciare i figli per andare al lavoro, perché è a questo che riducono la scuola, è nell’ordine delle cose che possono accadere, se le voci maggioritarie in rappresentanza di quella parte politica sono quelle che abbiamo qui e ora. Che arrivi da sinistra, però, mi stupisce e mi amareggia: non cogliere quanto siano e siano stati discriminanti e disegualitari i lunghi mesi di scuole chiuse e didattica a distanza è davvero disarmante e mortificante, rispetto alla stima e alle speranze che nelle forze politiche progressiste si possono riporre, se non altro relativamente ai loro attuali protagonisti più in vista.

La stessa sottovalutazione, poi, mi sembra sostenga alcune risposte tipiche a vari percorsi di cambiamento del sistema scolastico che si potrebbero attuare, a partire dal prolungamento delle aperture al pomeriggio o in alcuni mesi estivi per effettuare e far svolgere ai ragazzi, in questo tempo-scuola incrementato, attività ed esperienze che per molti di loro altrimenti sarebbero impossibili e negate. Anche qui, la reazione appare inspiegabilmente chiusa, supportata da una malintesa sindacalizzazione del corpo insegnante e che, e fa male dirlo, suona più come una rivendicazione corporativa che non quale piattaforma sindacale.

E in queste considerazioni a ribasso della scuola e delle sue funzioni, delle sue potenzialità e delle proprie risorse, navigano, meglio, sguazzano, come si fa quando l’acqua è poca, politicanti e amministratori di vario orientamento e cultura, da ministri pronti a serrare gli usci degli istituti al primo battito di omicron, ai sindaci con l’ordinanza già scritta al solo palesarsi del simbolino della neve sull’app dello smartphone, figuriamoci all’incremento potenziale dei contagi nella regione limitrofa, ai presidenti che si vogliono governatori dalla faccia feroce (e il maligno ammiccamento elettoralmente interessato agli operatori del settore), incuranti del fatto che le loro restrizioni alla frequenza di aule, laboratori e biblioteche incidano in maniera fortemente negativa sul futuro della popolazione di cui sarebbero chiamati a curare gli interessi.

Ma sì, va; in fondo, quanto costa chiudere una scuola?

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