Restiamo umani, per favore e davvero

Il 17 marzo del 2020, per la prima volta nella sua storia, il santuario di Lourdes chiuse le porte ai fedeli. La motivazione di quella scelta, com’è facile capire, fu legata alle esigenze di contenimento della pandemia da Covid-19. Di quella decisione, la sintesi perfetta l’ho trovata in una vignetta (peraltro di un amico, e questo mi piace non poco). Sul suo Urlo Grafico, in quel giorno di quasi due anni fa, Fabrizio Piumatto disegnava la figura della statua della Vergine del santuario pirenaico con appeso al collo il cartello multilingue «Fermé – Chiuso – Closed – Cerrado».

Sul suo Caffè di venerdì scorso, Gramellini racconta la storia di una donna sassarese, al quinto mese di gravidanza, rimandata indietro dal Pronto Soccorso del locale ospedale perché sprovvista dell’esito del tampone negativo (che, data l’urgenza dei motivi che l’avevano spinta a ricorrere alle cure mediche, non si era premurata di fare), con l’invito a ritornare dopo il test. Il decorso non è stato felice, ma chiarisco subito, come fa pure Gramellini, che lo stesso esito triste, dati soprattutto i tempi fra i due eventi, non è collegato con quanto successo in ospedale. E aggiungo, anche in ciò unendomi al giudizio della firma del Corriere, che qualsiasi critica ai sanitari nello svolgimento del loro lavoro, in un periodo di pressione come questo, sarebbe ingenerosa. «Però», scrive nel suo corsivo Gramellini a proposito della vicenda accaduta in terra sarda, «questa storia racconta cosa siamo diventati: l’emergenza perenne ci sta mangiando la testa e il cuore. Sono due anni che la paura del contagio domina ogni nostro pensiero, cancellando tutto il resto, e tutto il resto si chiama vita».

E si chiama vita anche quella contenuta nei suoi aspetti apparentemente più lontani dalla dimensione terrena, come possono, appunto, essere le manifestazioni religiose (e che nascono da bisogni e sentimenti umani, troppo umani). Ecco perché leggere le parole sul giornale di venerdì m’ha rimandato al ricordo della vignetta del mio amico. O alle pagine di un breve saggio recente di Bernard-Henri Lévy: «Lo spettacolo di un sommo pontefice, erede del “Non abbiate paura” di Giovanni Paolo II e abituato in prima persona all’esercizio eminentemente cattolico del bacio ai malati febbricitanti, eczematosi o lebbrosi delle favelas di Buenos Aires, che si distanzia dal popolo cristiano, comunicando solo via Internet, e ordina lo svuotamento delle acquasantiere e fa la sua Va Crucis, sul sagrato della basilica, in una piazza San Pietro deserta. Cancellata, l’immagine ebraica del Messia in attesa, alle porte di Roma, in mezzo agli scrofolosi. Dimenticato, il bacio di Gesù al lebbroso che, da Flaubert a Mauriac, ha ispirato tante belle pagine. Nel dimenticatoio Violaine, “la giovane ragazza pura” di Claudel; se egli scrivesse oggi L’annuncio a Maria, se osasse santificare questa luminosa eroina, che bacia di proposito un lebbroso e rinasce da questo bacio, passerebbe per irresponsabile, per un criminale che va contro la società, per un cattivo cittadino» (B.-H. Lévy, Il virus che rende folli, ed. La nave di Teseo, 2020, trad. it. A.M. Lorusso, pag. 76). Per non parlare del patrono nazionale di questo Paese, quel San Francesco d’Assisi che proprio nell’abbraccio col malato contagioso, con il lebbroso, scopre Cristo e la sua vocazione.

Chiameremmo ancora santo, chi oggi invitasse con l’esempio, ad abbracciare i malati?

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.