«Perché a scuola si sta caldi»

Sul New Yorker del 5 ottobre scorso, c’era un articolo molto bello e interessante di Alec MacGillis sugli studenti lasciati indietro dalla didattica a distanza. Il pezzo partiva dalla storia di Shemar, dodicenne di East Baltimore, per poi allargarsi in un’analisi più generale del contesto, riassunta, in sintesi chiarissima, nella didascalia della foto all’inizio: «Society’s attention to kids like Shemar has always been spotty, but they had at least been visible. With remote learning, they have become invisible—safe from COVID-19, perhaps, but adrift and alone in dark rooms».

Il sottotitolo dell’articolo di MacGillis è, tutto sommato, generoso: «The desire to protect children may put their long-term well-being at stake». Generoso non perché non sia vero che quanto si stia facendo, con la chiusura delle scuole quale forma e misura preventiva e immediata, potrebbe mettere in gioco il benessere dei più giovani a lungo termine, ma perché non sempre, quei provvedimenti di sospensione delle lezioni, nascono dal desiderio di proteggere i bambini. Anzi; è invece proprio a loro che si chiede il primo sacrificio, per mettere in sicurezza il resto della società. A tutti loro, per la mancanza di relazioni e scambio che la scuola non può non essere e a cui difficilmente si sopperisce con l’esercizio della didattica a distanza, e ai più deboli fra questi in particolare, quelli meno seguiti, quelli che, come Shemar, abitano a East Baltimore, in Barriera, a Quarto Oggiaro, San Basilio, Scampia, lo Zen, e in tantissimi altri posti minori, meno noti ma non per questo esenti da famiglie costrette a vivere il disagio della sopravvivenza già in tempi “normali”, senza dover per forza arrivare all’eccezionalità della stagione che stiamo attraversando.

Non sono cresciuto nella periferia di una grande città, ma nel Sud profondo dei piccoli paesi d’Appennino. Eppure, ricordo un giorno la maestra chiederci di completare, a turno, alla lavagna la frase: «Mi piace venire a scuola perché…». Un mio amichetto, quando toccò a lui, scrisse quasi fosse la più scontata delle evidenze: «a scuola si sta caldi». Non vi devo spiegare il senso materiale, non sentimentale, di quella frase; basti ricordare, ai distratti, che sono cresciuto in un posto con all’epoca ancora i container (non una metafora, proprio quelli in ferro, adattati alla bisogna) in giro per abitazione e che ha visto i termosifoni come usuale sistema di riscaldamento per le case solo quando io ero già grande da potermelo ricordare.

Come quella didascalia: forse li teniamo al sicuro dal contagio lasciandoli a casa, ma stiamo condannando molti, troppi ragazzi a una lunga deriva in stanze buie e da soli. E di nuovo saranno i più deboli e svantaggiati a pagare per primi e di più, gli Shemar di tutto il mondo che a scuola trovano quello che la loro casa non saprà, potrà o vorrà mai dare. Persino il tepore di un riscaldamento decente.

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