Solo un’ipotesi

Ma da dove viene questa voglia di ribellarsi a delle limitazioni che sono motivate, nella parola e nelle cose, da esigenze sanitarie e di contenimento di un’epidemia? I consigli del medico non sempre sono seguiti, si sa; ma questo può accadere nei fatti e, al massimo, solo in quelli. Di solito, invece, anche quanti non seguono alla lettera le prescrizioni che vengono loro date non ne avversano le ragioni e la bontà. Qui, invece, più che la semplice superficialità nel seguire le indicazioni degli esperti, emergenze con sempre maggiore frequenza la contestazione del motivo per cui sono state definite. E non solo nelle usuali piccole nicchie di complottisti, no-qualcosa e falsi ribelli per finto sapere. Azzardo un’ipotesi, nelle righe che seguono e con la premessa che sia tutta ancora da verificare.

Io pure non sopporto la mascherina, ma (con tutti i controsensi e le informazioni cambiate nel corso della pandemia) non ne contesto l’utilità dell’uso in sé. Anche a me l’eccessivo allarmismo spaventa, per l’ansia che genera e le forme in cui degenera, ma è chiaro che la sottovalutazione o la negazione della malattia sono decisamente più preoccupanti e pericolose. Però, difronte a chi non accetta quelle imposizioni e mette in dubbio addirittura la veridicità dei dati sull’epidemia, non basta la stigmatizzazione dell’irriducibilità dei comportamenti individuali o la banalizzazione della contestazione per manifesta ignoranza scientifica. Credo, invece, che in quei casi giochi un ruolo non sottovalutabile il contrasto tra le posizioni materiali e personali di chi ne contesta la necessità e di chi spiega le regole. Per dirla diversamente, è una questione, a parere di quegli occhi, di credibilità del sistema.

Provo a spiegarmi meglio, per quanto, come premettevo, questa sia solo un’ipotesi. Prendete un ipotetico contestatore. Dopo mesi di lockdown duro, è chiaramente provato, come tutti noi. Ma supponete che questi abbia anche perso qualcosa in solido, in quei giorni, oltre alla limitazione della libertà individuale che tutti abbiamo subito, e continui a perderla per le regole e le restrizioni vigenti, perché piccolo esercente, medio imprenditore o lavoratore di uno dei settori chiusi senza possibilità di deroga o dei comparti che tuttora soffrono (pensiamo solo ai bar e ristoranti colpiti dalla mancanza di quei clienti che erano quegli stessi impiegati degli uffici e che da mesi sono in smart-working). Alla tv, sente l’esperto dire che deve continuare a limitarsi nelle sue libertà e, automaticamente, pensa a quanto pure materialmente potrebbe perdere ancora. Guarda l’esperto: è un medico, ovvio, un uomo di scienza che ne sa più di lui, sicuramente. Ma in questi mesi, il reddito di quello scienziato non è calato, il suo sì.

Non aiuta, nel possibile contenimento del formarsi dei suoi retropensieri, la coscienza dei guadagni registrati dall’industria farmaceutica e sanitaria, né, e fa male dirlo, le troppe connessioni non sempre lineari che non di rado ci sono state e ci sono fra la scienza, la medicina e l’economia a queste collegata.

Certo, mi direte, queste valutazioni potrebbero valere per me come per quell’ipotetico negazionista, eppure, in me non generano tali suggestioni; è pur vero, però, che io non ho visto contrarsi il mio reddito. Ripeto ancora che questa è un’ipotesi, da verificare e da porre al vaglio dell’esperienza, usata da me qui solo quale momento di riflessione da condividere con chi voglia commentare. Leggevo da qualche parte, stranamente e senza citare fonti e dati, come i negazionisti siano tutti a destra, e ogni qualvolta ho provato a parlare con qualche amico di sinistra della necessità di indagare e capire pure le ragioni di quella negazione, mi è stato risposto che, in una qualche forma e in un determinato modo, cedevo a quel tipo di reazione. Eppure, è proprio dalla parte progressista che dovrebbe venire la tensione a cercare di capire, materialmente, come si determinino alcune costruzioni ideologiche e morali.

«La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. […] Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza».

Erano Marx ed Engels, nell’Ideologia tedesca (Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 13), sempre che a quanti si dichiarano di sinistra dicano ancora qualcosa, ovviamente.

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