«Che ne sarà degli Stati nazionali nell’Europa unita? Gli Stati-nazione hanno contribuito alla costruzione sovranazionale con i sacrifici, non poco dolorosi per la convergenza delle monete e di bilanci. Quel che c’è di Europa è opera degli Stati nazionali contro il particolarismo degli interessi costituiti. È possibile che d’ora innanzi emergano processi nuovi. Per alcuni problemi gli Stati nazionali continueranno a lavorare per una autorità più capace di difendere i loro interessi dinamici, per altre materie gli Stati-nazione risulteranno un utile strumento di interessi che sarebbero compromessi da una autorità superiore. I pescatori francesi, gli allevatori italiani, i sindacati tedeschi, i banchieri della City di Londra potrebbero mobilitare i loro Stati nazionali, attraverso le elezioni, per opporsi alla legge superiore. È possibile un conflitto fra un neo corporativismo degli Stati nazionali e una linea sovranazionale. Se i privilegi cetuali e castali, e insieme con essi anche le tradizioni culturali, trovassero negli Stati-nazione il loro veicolo il conflitto sociale diverrebbe duro» (V. Foa, Passaggi, Einaudi, 2000, pp. 136-137; il paragrafo è datato 1998).
Ho ripescato nei miei ricordi, prima, e nelle pagine delle sue memorie, poi, questo brano di Vittorio Foa, quando ho letto alcuni stralci del discorso della Merkel al Bundestag, a pochi giorni dall’assunzione da parte della Germania della presidenza di turno dell’Unione europea. Ha parlato di orgoglio, gratitudine per un progetto che ha ancora dell’incredibile, e soprattutto della «promessa democratica di uguaglianza» che quel disegno rappresenta, che «non è semplicemente un’eredità storica regalata che possediamo ma qualcosa che dobbiamo formare, gestire e migliorare tutti insieme», per dare forma e forza a una «Europa resistente», nell’epoca storica in cui l’Ue è chiamata ad affrontare «la più grande sfida della sua storia». Ha parlato di patrimonio ereditato dal lavoro dei padri, di sfide attuali e scenari futuri, la Mutti d’Europa; ha parlato da leader, probabilmente l’unico esistente oggi, dal Baltico all’Egeo.
E non si è nascosta le difficoltà e le cose ancora da fare, quando ha ricordato come siano «bastate poche settimane di stallo dell’economia per rimettere in discussione tutte le nostre conquiste. Il diritto alla libertà degli europei, che davamo per scontato, è stato ristretto. Un prezzo molto alto che ha pesato su chi ha preso le decisioni, me compresa», né le sfide tutte aperte davanti, a partire dalla Brexit, «che certo noi non abbiamo desiderato», e che «comporta che ora siamo guidati con ancora più forza dalla certezza che solo come comunità possiamo continuare a fare vivere i nostri valori e affermarli in tutto il mondo».
Angela Merkel non ha dimenticato le critiche a una certa debolezza avuta nel difendere un progetto che «soffre perché noi europeisti per troppo tempo abbiamo considerato ovvia la nostra Unione e troppo raramente abbiamo detto di cosa siamo orgogliosi. E perché abbiamo permesso ai nostri avversari di parlare dell’Europa invece di costruirla, accettando passivamente le loro idee», e, senza ingenuità, ha chiarito come la risposta economica alla crisi che stiamo vivendo deve avere un forte respiro politico, perché «le forze anti-democratiche e i movimenti autoritari aspettano la crisi economica per abusarne politicamente» e «alimentare le paure sociali diffondendo insicurezza. Per questo dobbiamo impegnarci per lo sviluppo sostenibile di tutte le regioni dell’Europa. Per avere uno strumento politico contro i populisti».
Ascolto ancora una volta quelle parole, pur con tutte le difficoltà che ho con quella lingua, e mi viene voglia di rispondere a quanti temono a ogni sua dichiarazione o proposta l’instaurarsi di un’egemonia germanica o addirittura il formarsi di un’Europa a guida tedesca con una parola che arriva da un altro pilastro, il più antico e nobile, di quest’edificio culturale che il continente su cui viviamo, e nel senso proprio dell’originario classico: magari.