Oggi non scriverò nulla. Voglio però leggere con voi alcune pagine di un libro che ho tanto amato e che, su questo spazio, mi è già capitato di citare. Si tratta del Tratto del ribelle, di Ernst Jünger, di cui, di seguito, riporto un lungo estratto (pp. 37-39, dell’edizione Adelphi del 1990, nella bella traduzione di F. Bovoli). Credo che la voglia che mi ha spinto a rileggere e condividerle qui abbia a che fare con la stagione che stiamo vivendo, e anche un po’ col conformismo che, persino in questa e nel tempo strano che ci sta toccando in sorte, non pare volerci abbandonare, e continua a caratterizzare il nostro modo di agire e di rapportarci con gli altri. E se può apparire in contrasto con quanto spesso sostengo, a me sembra che il conflitto sia solo superficiale, in quanto quasi in nulla, un atteggiamento o l’altro, differiscono davvero nel profondo, dato che entrambi puntano al dominio sul proprio simile. Dopo tutto, «è male fermarsi, difficile contentarsi di un solo modo di vedere, privarsi della contraddizione, che è forse la più sottile di tutte le forze dello spirito» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Bompiani, 2000, p. 258). Ma ho già scritto troppo, meglio lasciar parlare il vecchio Ernst.
«La concorrenza, come dice il suo nome, è simile a una gara di corsa in cui il premio spetta ai più abili. Quando essa viene a mancare, c’è il rischio di vivere di rendita a carico dello Stato, mentre la gara tra Stati continua, la concorrenza continua nella politica estera. In questa breccia si inserisce il Terrore. Sappiamo che a provocarlo sono altre circostanze: ma qui ci troviamo di fronte a uno dei motivi che concorrono a perpetuarlo. E così ora sarà la paura a imprimere la spinta che prima nasceva dalla corsa. Il livello della gara dipendeva dalla pressione. Ora dipende dal vuoto. Là è il vincente a imporre il suo ritmo, qui i più disgraziati».
«Di conseguenza, nel secondo caso, lo Stato si vede costretto a sottoporre costantemente una parte dei cittadini a trattamenti atroci. La vita è diventata grigia ma sembrerà più tollerabile se a un passo da noi scorgiamo la tenebra, il nero più assoluto. Qui, e non in campo economico, covano i pericoli delle grandi pianificazioni».
«La scelta delle fasce di popolazione da perseguitare è sempre arbitraria; ma comunque si tratterà di minoranze, di “diversi”, vuoi per natura voi per artificio. Va da sé che chiunque si distingua per doti ereditarie da un lato e per talento dall’altro non si sottrae a questo rischio. La stessa atmosfera si comunica al trattamento dei vinti in guerra: accusati indiscriminatamente di colpevolezza, essi sono affamati nei campi di prigionia, costretti al lavoro forzato, sottoposti allo sterminio in vasti territori, mentre, per coloro che sfuggono alla morte, la deportazione è sempre in agguato».
«In questa situazione, è comprensibile che l’uomo preferisca caricarsi dei fardelli più gravosi piuttosto che essere annoverato tra i “diversi”. L’automatismo sembra sbriciolare come per gioco quel che rimane della libera volontà, e la persecuzione è ovunque, fitta e ubiqua come un elemento. Ad alcuni privilegiati si apre forse la via della fuga che di solito riserva una sorte peggiore. La resistenza sembra dare vigore ai potenti, offre loro l’occasione che aspettavano per intervenire. Di fronte a ciò rimane un’ultima speranza: che il processo si esaurisca da sé come un vulcano che lancia i suoi ultimi spruzzi. Nel frattempo chi si sente in tal modo assediato deve preoccuparsi di due cose soltanto: fare il proprio dovere e non discostarsi dalla norma. Gli effetti di ciò si estenderanno alle zone di sicurezza, dove gli uomini vengono colti da un panico apocalittico».