Il rancore degli impoveriti, la voglia di riscatto dei poveri; dimensioni a confronto

L’altra sera, dopo tanto che mi ero ripromesso di farlo, ho visto Parasite, il film di Bong Joon-ho vincitore assoluto agli Oscar 2020, con un solido e convincente Song Kang-ho e una sorprendente, per me, e bella, oggettivamente, Park So-Dam. M’interessa da sempre il tema trattato dalla pellicola, come m’interessano da tempo le cose che accadono fra la baia di Busan e il 38° parallelo; quindi, l’ho guardato con attenzione e piacere, dato che è anche un bel film, ovviamente. Due cose, sopra le altre, mi hanno colpito e sono quelle che poi muovono a questa piccola riflessione.

La prima: la mamma della famiglia povera, commentando l’affermazione del marito sull’essere gentile della padrona di casa nonostante ricca, argomenta sul quanto sia gentile proprio perché ricca, nel senso che una vita senza pieghe e pensieri affannati renderebbe più buoni, e viceversa. Vengono in mente tante cose lette su questo, dalla Libertà di Verga alla Malora di Fenoglio. Ma soprattutto, fa capolino in quelle parole un certo sentire collettivo proprio di alcune determinate fasce di popolazione. Guardando il film, mi è tornata infatti in mente una pagina di un recente saggio di Carlo Bastasin. Scrivendo della situazione statunitense attuale, (C. Bastasin, Viaggio al termine dell’Occidente, Luiss University Press, 2019, pag. 18) nota come quella nazione, da alcuni anni, sia  «in preda a un’epidemia da oppiacei senza precedenti, concentrata nei luoghi dove i vecchi lavori vengono spazzati via, e che uccide più persone dell’Aids e dell’eroina. I più colpiti sono i giovani bianchi non benestanti, i cui indici di stress e depressione sono molto più alti di quelli dei coetanei neri o ispanici. Nelle comunità dove le etnie di minoranza sono numerose, anche se un tempo erano zone di razzismo o segregazione, anche se tuttora sono povere, c’è più felicità e ottimismo». Fa riflettere: si registra più tristezza e pessimismo e si avverte pure più rancore fra gli impoveriti, che rabbia e disperazione tra i “da sempre poveri”.

Vengono in mente altre letture. La collera dei bianchi del Midwest in affanno, ben raccontata da J. D. Vance (Elegia Americana, Garzanti, 2017), o quella che portò i tarantini già di sinistra a scoprirsi sostenitori dell’uomo forte Cito, spiegata bene dal troppo presto scomparso Alessandro Leogrande (Dalle macerie. Cronache dal fronte meridionale, Feltrinelli editore, 2018). E in contrasto, quelle sulla fatalistica rassegnazione di un popolo avvezzo alla frugalità dalla perenne necessità, come quello a cui appartengo, quei cafoni di Lucania per secoli abituati a far conto sul poco che c’è nella coscienza che non è dato per rimanere in eterno, che affiora elegantemente nelle pagine di Carlo Levi o Leonardo Sinisgalli, con amorevole, e dolorosa, partecipazione in quelle di Scotellaro, ma pure, con più rigore scientifico, nelle indagini etnografiche dei vari De Martino e Bronzini, e persino, per certi versi, nelle inchieste sociologiche e negli “studi di comunità” dei vari Friedmann, Peck e Banfield.  

Proprio questo parallelo mi porta a parlare della seconda cosa che mi ha spinto a scrivere queste poche righe: sia la famiglia povera che la famiglia ricca, poggiano il riscatto o il riconoscimento (a seconda dei casi) sociale sull’istruzione e la cultura, tanto che la storia inizia con la ricerca di un precettore per i ragazzini ricchi e finisce con il sogno del giovane povero di risalita nella scala (metafora per immagini forse un po’ troppo abusata nel film) delle posizioni occupate, non passando dal diventare icona del baseball o idolo del K-pop, ma attraverso lo studio, l’accesso all’università, il conseguimenti di una laurea. I confronti con il nostro oggi non sono possibili, se non nella loro spietatezza. E sarà in parte anche per quell’approccio comune e condiviso, se le rilevazioni internazionali sulle competenze e le conoscenze assegnano agli studenti coreani mediamente punteggi più alti dei parigrado italiani.

Un paragone è però possibile, anche se tutto e solamente al passato. Nella terra e nel tempo dei miei avi di cui accennavo, i figli di contadini e braccianti analfabeti arrivarono a conseguire, e in percentuali significative, se non di massa, livelli d’istruzione superiore e universitaria. A distanza di una sola generazione, questo non era un fenomeno registrato con molta frequenza, tanto da spiegare alcune di quelle indagini di cui sopra si è detto. Ma la spinta, la molla, era in quell’idea che il riscatto (come il riconoscimento, appunto) sociale potesse, e dovesse, inevitabilmente passare attraverso l’istruzione e la cultura.

Oggi, beh, per i molti è tutta un’altra storia.  

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