Silvia Romano è tornata a casa. È una bella notizia. Dovremmo esser contenti per lei e per la sua famiglia e basta. Invece, in questo nostro Paese triste che si racconta allegro, non è così. Non è mai così. Anche in questo caso, persino di fronte alla liberazione di una ragazza di 25 anni rapita per essere andata ad aiutare chi stava peggio di lei e tenuta prigioniera da criminali terroristi per quasi due anni, siamo riusciti a esprimere il peggio di noi, con commenti e accuse che superano di molto il limiti della decenza, pure in una nazione, la nostra, abituata al male. Perché?
Non so di preciso per quale motivo proprio non riusciamo a essere felici per la felicità di altri, del nostro prossimo. Eppure, in tanti, quasi tutti, si dicono cristiani; dovrebbero, semplicemente e con convinzione, sentire quell’afflato. Non è così e, ripeto, non ne capisco le ragioni. Ma c’è una spiegazione del fenomeno che proprio non accetto: quella che vuole i rancorosi tali perché, e solamente perché, sofferenti nel sistema economico-sociale dato (cosa di cui in parte parlo nel post dell’altro ieri, che cito per non ripetermi). E anche qui, non è così. E non tanto perché è troppo semplice l’estremizzazione del concetto materialistico che vuole tutte le coscienze frutto esclusivamente del relativo «essere sociale», ma proprio perché quest’ultimo, l’essere sociale, non è così pessimo da determinare in quel modo la coscienza di chi vi rientra. Insomma, se non tutti, tanti di quelli che riversano odio dove e come possono contro una cooperante rapita, il medico di una Ong, un sacerdote che ricordi, continuamente, come il Cristo insegnasse l’accoglienza, a vestire gli infreddoliti e a nutrire gli affamati, non stanno materialmente male. Hanno magari una bella casa, un’auto nuova, un lavoro che dà, per loro e per le loro famiglie, di che vivere dignitosamente, quando non nell’agio, però, al cospetto dell’elemosina data al senzatetto, s’inalberano e diventano spietati.
Per qualunque ragione si manifestino, sono davvero stancanti le miserie che ci tocca commentare ogni maledetta giornata. Non riusciamo a star bene, come popolo, e nemmeno di questo capisco il perché. O forse lo so, e non voglio dirmelo. Perché ammettere che stiamo bene solo possiamo esserlo come individui e non anche come comunità, perché, nella triste visuale che abbiamo, le due cose debbono per forza essere in contrasto fra loro, è un po’ dire che le peggiori linee tracciate da quel Banfield a cui nel mio articolo citato s’accennava, nelle sue descrizioni, non valevano solo per una piccola enclave in un tempo perduto, ma sono l’immagine del Paese in un arco più lungo.
Dopotutto, è lo stesso Paese che ha un debito pubblico mostruoso e un patrimonio familiare medio (in rapporto al reddito per le stesse famiglie disponibile) fra i più alti al mondo.