In quella piazza bolognese, un monumento a quanto è stato dimenticato

«È una questione di pieni e di vuoti», scrive Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri. E continua: «C’era evidentemente un vuoto, in mezzo alla politica italiana, che improvvisamente si sta colmando […]. Quel vuoto era prima di tutto fisico, materiale. Nessuna voglia di mettersi in gioco, contendere lo spazio dell’agorà nella discussione pubblica, uscire di casa e tornare a competere […]. Il risultato numerico, inevitabilmente, era l’astensione in crescita vertiginosa a ogni elezione: una rinuncia a partecipare che anticipava il grande rifiuto generalizzato che diventerà l’anima trionfante dell’antipolitica. Perché il vuoto, com’è chiaro, era soprattutto politico. Riempito da partiti, naturalmente, e meno male: ma disertato dalle culture politiche, quelle che fanno muovere le bandiere, danno un’identità riconoscibile alle forze in campo e nobilitano gli interessi legittimi che queste forze rappresentano, in una visione generale del Paese e addirittura del mondo».

In conclusione del suo ragionamento, l’ex direttore di Repubblica spiega anche come, accanto alla naturale capacità di attrazione data dallo spontaneismo e dalla gratuità che anima i leaders del movimento delle sardine, «Il pieno della piazza di Bologna, domenica, non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato insieme, anzi prima, un tentativo di mettere in campo un pensiero alternativo a quello dominante […]: una sorta di ecologia del pensiero, la testimonianza che un’alternativa culturale è già in campo perché un’altra mentalità è possibile, con una diversa gerarchia di valori e dunque con una differente scala di priorità». In pratica, ci dice, quella piazza, oltre che epifania di un movimento, era, ed è, pure monumento alle dimenticanze della politica istituzionale, dei partiti, alla loro colpa nell’aver lasciato andare e perdersi quanto avevano di più importante: le loro culture politiche e sociali, i loro ideali e valori, le loro ideologie.

Sì, le ideologie. Rifiutate nel discorso politico (perché in quello economico e sociale sono invece vive e vegete) fino a renderne impronunciabile lo stesso nome, esse sono state un po’ tutte avversate e combattute. Parificate nel portato dalla comparazione degli errori commessi, se ne sono squalificate le proposte e rese vane le aspettative. Quello che al loro posto è arrivato, invece, è stato lo schiacciamento sull’immediato, sulla contemporaneità, sul qui ed ora senza prospettiva alcuna.

La politica, così, è diventata governo, amministrazione, gestione; i partiti, strumenti per renderla possibile in quei termini. Punto. Infatti, nel pubblico dibattito che ha sostituito il discorso, a un movimento, come quello delle sardine, che parla di cultura ed etica nella visione, nel linguaggio e nell’azione, non si chiede quali pensieri abbia e da quali idee e valori muova (cose che ha peraltro ampiamente spiegato e detto), ma semplicemente se abbia un programma esecutivo per risolvere questa o quella questione emergente, dai problemi per una fabbrica in crisi alla gestione delle chiusure nel traffico nei giorni di elevati livelli di PM10. Tutto qui; come se i democristiani avessero combattuto la narrazione alternativa dei comunisti imputando loro l’assenza di un progetto dettagliato per la riforma delle casse mutue (che probabilmente, va detto, gli sarebbe stato presentato in tempi brevi).

Nella visione di Mauro, che condivido, questo vuoto di pensiero chiaramente non nasce oggi, e non è solo al modo brutale del sovranismo da raccatto elettorale che quelle piazze rispondono. Scrive ancora l’ottimo commentatore che la condizione di «sterilità culturale» in cui i partiti, per propria rinuncia a essere altro, si sono cacciati, li ha costretti «a vivere nell’estemporaneità, nell’improvvisazione, nell’effimero e nel contingente, formulando posizioni labili, dichiarazioni reversibili, affermazioni usa e getta, che non durano oltre lo spazio dell’occasione. La conseguenza quasi inevitabile è che l’azione sostituisce l’idea, il gesto prende il posto dell’atto politico e la forza sembra diventare il surrogato di una politica debole, dando l’illusione di soppiantarla. Tutto questo ha dato forma, negli ultimi anni, a una espressione politica conseguente, come non l’avevamo mai conosciuta. Semplificata, irrigidita, ristretta e nello stesso tempo urlata, esagerata, appunto feroce. Ridotta all’osso, in declinazioni primitive e binarie, che non raccolgono la complessità dei tempi: vecchio e nuovo, noi e loro, dentro e fuori. Producendo pratiche politiche elementari nel loro massimalismo: rottamazione, esclusione, respingimento, con le forbici e la ruspa disegnate come simbolo impoverito e agguerrito del presunto cambiamento».

Insomma, ben vengano le sardine, ma che pena esserci arrivati.

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