«Nulla forse illustra la generale disintegrazione della vita politica meglio di questo odio vago di tutto e di tutti, senza un oggetto definito, senza poter addossare la colpa della situazione a qualcuno […]. Esso si rivolgeva dunque in tutte le direzioni, a caso e imprevedibilmente, incapace di risparmiare qualunque cosa sotto il sole». Così rifletteva Hannah Arendt (in Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2017, p. 1021) sulle conseguenze della Prima guerra mondiale, a proposito del sentimento che sembrava pervadere chiunque, nella Germania degli anni ’20.
Oggi, che l’anglofonia tutti ci tiene con la sua dolce dittatura, li diciamo haters. Ma credo che siano mossi da sentimenti di identico spessore e simile natura. Come i bianchi poveri nel Furore di Steinbeck, cercano qualcuno contro cui puntare i loro fucili, verso cui indirizzare la propria rabbia. Se trovano chi glielo indica – e in quella società a cui guardava la Arendt sappiamo chi fu e verso quali nemici d’elezione, e come andò a finire –, quasi s’acquietano; non avranno risolto nessuno dei problemi che li assillano, però sapranno che è colpa di qualcun altro, non loro. No, non li sto condannando; sto cercando di comprendere, e di capire come fare a far sì che quel destino non sia segnato, per evitare che l’apprendista stregone di turno o il cinico calcolatore delle urne non sfrutti per sé o si lasci sopraffare dalla boria e dalla brama di volgere a suo vantaggio questa insana voglia di menare le mani che pare averci tutti presi.
E vengono in mente le parole di un altro grande intellettuale tedesco, scritte prima della Grande guerra, a proposito di quella vasta e pervasiva irritazione (chiama così proprio il capitolo in cui ne parla) che agitava i popoli d’Europa, prima che un colpo di tuono (anche questo così nel titolo del capitolo che chiude la sua grandissima e inesauribile opera, per i significati e le implicazioni che continua ad avere, sul carattere delle genti del continente e sulle dinamiche della letteratura) in forma di sparo a Sarajevo non sconvolgesse per lungo tempo l’intero continente.
Thomas Mann, La montagna incantata (ed. Corbaccio, 2011, p. 644): «Cosa aleggiava nell’aria? – Smania di risse. Irritazione con minaccia di crisi. Indicibile impazienza. Tendenza generale a battibecchi velenosi, a scoppi di collera, persino alla zuffa. Litigi accaniti, incontrollati diverbi sbottavano ogni giorno tra individui o interi gruppi, ed era significativo il fatto che i non implicati, invece di essere nauseati dallo stato dei furiosi e di interporsi, partecipavano con simpatia, e mentalmente si lasciavano prendere dal delirio. I loro occhi mandavano lampi aggressivi, le labbra si torcevano con furore. Invidiavano agli scatenati il diritto, l’appiglio di gridare. Una trascinante voglia d’imitarli torturava il corpo e l’anima; e chi non aveva la forza di rifugiarsi nella solitudine era irrimediabilmente tratto nel vortice».