Riva è l’ultimo paese che s’incontra prima di giungere a Chieri, venendo dall’uscita autostradale di Villanova. Era il segnale che si stava arrivando a casa dei nonni, prima, degli zii, poi. Una zona che per me ha sempre significato tanto, dove, come detto, ci han vissuto i miei nonni, dove ci vivono zii e cugini, ci ha vissuto mia mamma per dieci anni, mio fratello per otto, dove ci sono pezzi non piccoli della mia famiglia. I nomi dei luoghi mi sono familiari da sempre: Cambiano, Santena, quella di Cavour, Pessione, che di Chieri è frazione ed è il posto della Martini & Rossi, Andezeno, Arignano e su fino a Castelnuovo, che è già Asti ed il luogo di nascita di San Giovanni Bosco, che ora porta nel nome. E Riva, che è presso Chieri, nei fatti e nel toponimo, e dove c’era l’Aspera, come si chiamava la fabbrica che, con un altro nome, oggi chiude, nata negli anni Stettanta, e dove mio nonno materno prima, e un mio cugino da parte di padre, poi, hanno lavorato.
La storia della Embraco, quindi, l’ho sentita come una questione di casa. E mi lascia l’amaro in bocca e una forte tristezza il vedere come è andata a finire. Ma quella storia e il comportamento della società del gruppo Whirlpool in questo caso sono anche una cartina su cui leggere quello che da tempo è la globalizzazione a trazione delle multinazionali; un affare dove gli interessi dei ricchi e potenti vengono sempre e comunque prima di tutto il resto. Senza infingimenti ideologici e votati all’unico credo del fare sempre e comunque più soldi possibili, le aziende possono fare e disfare a loro piacimento: delocalizzare sfruttando costi di lavoro più bassi e una fiscalità più competitiva e potendo al contempo contare su un mercato comune per vendere le loro produzioni, oppure chiedere dazi, come la stessa Whirlpool ha fatto negli Usa, per proteggersi dalla concorrenza delle sudcoreane Samsung e Lg. Noi tutti, lavoratori, subiamo, con l’illusione di vivere in un mondo perfetto quando, tolti i panni del mestiere di ognuno e indossati quelli del consumatore totale, possiamo risparmiare qualcosa comprando beni e servizi prodotti e forniti in quei modi. A poco servono le incazzature feroci nelle parole dei ministri: è il mercato aperto, bellezza. Quello che gli stessi che ora fingono di fare la voce grossa hanno voluto è difendono. Un sistema economico-territoriale è aperto, come gli stessi lo vogliono, se c’è piena mobilità di merci e fattori produttivi. E questi, a quel punto, si muovono.
Certo, all’interno dell’Unione europea possono farlo pure le persone; ma non è così semplice trasferirsi per andare a lavorare in Slovacchia. Per giunta, andando incontro a condizioni contrattuali e salariali peggiorative. Quelli della Embraco sono «gentaglia», come a Calenda stava per sfuggire quando ha malcelato lo sfogo, perché spostano la sede produttiva per risparmiare qualche euro di tasse e contributi? Potrebbe essere; ma allora cosa sono quelli di Fca che per motivi non diversi spostano la sede legale in Olanda ed elevano domicilio fiscale a Londra? Perché nessuno tono duro e diretto in quel caso?
Ma soprattutto, voi che difendete i trattati di libero scambio sempre e comunque, il Ceta, il Ttip, il prossimo che farete e cercherete di spiegarci come il futuro inevitabile che arriva e s’invera, voi che invitate gli investitori a mettere i soldi dove il costo del lavoro costa meno (che è precisamente quello che sta facendo la Embraco), perché non fate i conti con quello che noi viviamo e provate a dire una, una sola, parola di verità? Nel mondo, comandano i ricchi. Se loro vogliono, voi gli date i mercati aperti. Se a loro stanno stretti, voi glieli restringete, con i dazi sulle merci dei concorrenti. Tanto, qui, tra i cafoni e gli ultimi, che sia così lo si sa già.
Ecco perché in sempre meno credono ai vostri racconti e si spendono per le vostre idee.