Da Pericle a Erdoğan; la democrazia del Grande Inquisitore

Erdoğan il riformista (visto che succede a usare a sproposito i termini?) ha vinto il suo referendum costituzionale: 51 a 49, tanto è bastato per fare della Turchia una repubblica presidenziale con un ampliamento enorme dei poteri del capo dello Stato a scapito di quelli del Parlamento. Azzerandosi con l’entrata in vigore del nuovo testo il primo mandato di Erdoğan, egli potrà ricandidarsi ed essere eletto fino al 2029, addirittura 2034 in caso di fine anticipata di uno dei mandati successivi, disegnando uno scenario di grandi poteri concentrati quasi a vita nelle sue mani. Così andrà la democrazia sul Bosforo per i prossimi anni, molto sinistramente simile, visti i precedenti sul trattamento riservato dal novello sultano ai suoi oppositori, all’immagine parossistica evocata da Carl Schmitt sui pericoli del dominio delle maggioranze: «Chi possiede il 51% potrà rendere illegale, in modo legale, il restante 49%. Egli potrà legalmente chiudere dietro di sé la porta della legalità, attraverso cui è entrato, e trattare come un delinquente comune l’avversario politico, che forse bussa contro la porta chiusa con gli stivali».

Già, perché quello che abbiamo visto andare in scena in Turchia è la piena attuazione della democrazia intesa come potere della maggioranza; chi vince, prende tutto. Una situazione che oggi va molto di moda, basti pensare che il primo a congratularsi con Erdoğan è stato Trump, probabilmente pure un po’ invidioso di quel potere. Ma a dirla tutta, non è una deriva esclusivamente attuale. Dai tempi di Pericle, il rischio che un demagogo potesse fondare la sua forza proprio su quel popolo che poi avrebbe dominato è sempre stato presente. Inoltre, chi dice che ci sia inganno o raggiro in quel risultato? Il voto nelle principali città, Istanbul, Ankara, Smirne, dove il controllo degli uomini del partito di governo si presume più opprimente ed efficace che nella sperduta (e in fondo anarchica, come sempre sono le aree rurali) campagna anatolica, ha visto vincere il “no”, quasi smentendo le paure di un consenso integralmente imposto.

Certo, rimangono i dubbi degli osservatori Ocse e la sproporzione delle forze in campo, un leader che parla, quasi fosse fermo ai fatti di Lepanto, di «vittoria sulle nazioni crociate», il ruolo di quel Paese e i suoi rapporti con l’Europa – sulla cui ipocrisia ci sarebbe molto da dire è bene fa chi, come il Times, segnala che la maggior preoccupazione del Continente è quella che i turchi si sfilino dagli accordi sulla gestione dei flussi migratori ché, se è un dittatore, è a lui che abbiamo affidato la tutela dei nostri valori civili –,  le preoccupazioni per lo scenario mediorientale, il patto atlantico e il suo potente esercito, la questione del voto dei cittadini residenti all’estero (che prima o poi dovrà essere affrontata, visto che quasi tutti facciamo decidere i destini di un Paese a chi non lo vive ma neghiamo la possibilità di farlo a chi vi abita con tutta la sua famiglia), eccetera, eccetera, eccetera. Ma come sapere che non sia proprio quello ciò che voglia quel popolo? Come sostenere che, una volta accettatane la regola, si possa eccepire il risultato del metodo?

Dopotutto, non c’è nulla di nuovo. «Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà! […] Tu promettevi loro il pane celeste, ma, lo ripeto ancora, può esso, agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa ed eternamente abietta, paragonarsi a quello terreno? E se migliaia e diecine di migliaia di esseri Ti seguiranno in nome del pane celeste, che sarà dei milioni e dei miliardi di esseri che non avranno la forza di posporre il pane terreno a quello celeste? O forse Ti sono care soltanto le diecine di migliaia di uomini grandi e forti, mentre i restanti milioni, numerosi come la sabbia del mare, di esseri deboli, che però Ti amano, non devono servire che da materiale per i grandi e per i forti? No, a noi sono cari anche i deboli. […] Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il più grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal principio dei secoli. […] Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura. Ma dispone della libertà degli uomini solo chi ne acqueta la coscienza. Col pane. Ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è più indiscutibile del pane».

Oggi, alle parole del Grande Inquisitore, gli uomini rispondono col voto. Appunto.

Questa voce è stata pubblicata in filosofia - articoli, libertà di espressione, politica, società e contrassegnata con , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento