Un referendum è divisivo, per sua intrinseca natura

All’imbarco del volo delle 14,55 da Londra a Milano, mercoledì la British Airways offriva il Daily Telegraph e il Times. Leggendo un po’ meglio l’inglese di come lo parlo, li ho presi entrambi. Confesso che, a prima vista, sfogliandoli, l’impressione che se ne ricava dalla scelta delle notizie non depone proprio a favore della stampa britannica: come dire, saranno pure liberi e indipendenti, ma l’idea di scarsa qualità del complesso è una questione di pelle, prim’ancora che di contenuto.

Sia come sia, complice anche la ristrettezza dello spazio dei sedili, più consona al formato tabloid che non al vecchio  broadsheet, ho provato a immergermi nella lettura del Times, ripiegando i larghi fogli del Telegraph nella tasca della seduta di fronte. Mi capita raramente, ma non avendo altro da fare, ho scorso anche le lettere. E ne ho trovata una che mi ha attirato, di Malcolm Rifkind, più volte segretario per i conservatori nei governi Thatcher e Major. L’osservazione che, tra gli altri ragionamenti condivisibili o meno, lì faceva è che mi ha particolarmente colpito è questa: «Most Scots, whether unionist or nationalist, know that the last independence referendum bitterly divided many families and communities. They do not wish to go through that again». In sintesi, partendo dal dato che vede il 61% degli scozzesi intervistati contrari a un nuovo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito, nonostante la maggioranza del popolo di Scozia si sia espresso per rimanere nell’Ue e quindi contro il destino comune britannico che ora li attende, Rifkind attribuiva questa propensione apparentemente contraddittoria al fatto che, nel precedente, su quel tema molte famiglie e comunità si sono aspramente divise, e ora non avrebbero alcuna intenzione di ripercorrere la stessa esperienza conflittuale. Perché in fondo un referendum questo è: scegliere se stare di qua o di là. E su alcuni argomenti, quella scelta può determinare fratture profonde e lasciare cicatrici importanti.

Non so se gli scozzesi, alla fine, vorranno o meno fare un nuovo referendum, ma quanto scriveva Rifkind non lo ritengo sbagliato. Quello che infatti ho sempre rimproverato a chi voleva riformare la Costituzione a colpi di maggioranza invocando il risultato della consultazione popolare a sancire la bontà delle sue scelte era proprio questo: su una materia che dovrebbe unire, costituire, appunto, una nazione, non si può cercare la forzatura del voto in più. E sebbene gli intenti degli improbabili riformisti siano saltati, nondimeno il danno arrecato è ampio (per quanto temperato dal fatto che, sconfitta l’ipotesi di riscrittura di un terzo della Carta, rimane in vigore quella che c’era, largamente più condivisa nella sua promulgazione e nelle successive puntuali modifiche).

Vale per la Brexit un discorso non dissimile. Come potrebbe valere per qualsiasi altra votazione diretta intesa come un “di qua” o “di là”, senza possibilità di ricomposizione. Intendiamoci: io credo che la politica debba essere fatta di posizioni di partenza incentrate sul «sì, sì, no, no», se mi passate l’immagine evangelica, rispetto alle questioni, ma col presupposto implicito della mediazione. Per questo sono proporzionalista e parlamentarista. Il referendum, al contrario, è intrinsecamente divisivo, perché traspone su una scheda l’impossibilità a mediare. Cosa che può avere senso rispetto a un argomento immediato, ma che ne ha meno, non volendo dire per nulla, su un tema che del compromesso dovrebbe essere il risultato.

Ovvio, da ultimo degli elettori, se mi si pone davanti un testo chiedendomi «prendere o lasciare», faccio la mia valutazione e decido per quello che ritengo il minore dei mali. Ma so che c’è chi, novello Laocoonte, teme, quando non odia, l’offerente a prescindere da quel che reca, e così può rigettare tutto senza curarsi di capire. Oppure lo ama, e allora, sempre senza curarsi degli effetti reali, lo accoglie. E l’errore non è dell’elettore, quandanche ragioni per categorie emotive; è nell’offerta. Se la democrazia rappresentativa ricorre alla scelta diretta con leggerezza e nel disperato tentativo di risolvere o superare i propri limiti, i risultati non potranno che non essere quelli: dividere, separare, scomporre.

Tutto il contrario di quanto la politica in democrazia dovrebbe essere. A meno di non arrendersi a considerare quel sistema la continuazione delle leggi del più forte, che può essere il più numeroso, con altri mezzi, e immaginare che il voto serva solo a decidere il vincitore e i perdenti, non cosa rappresenti quella proposta e chi in essa si veda considerato e pertanto parte di un processo generale di composizione della società.

Ma lo so, per quanto ostinati, i miei sono discorsi lenti e in direzione contraria ai tempi.

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