Per un paio di decenni, la sinistra ha avuto il “problema”, il limite della superiorità morale. Un problema vero, per cui dirigenti e militanti, semplici elettori o importanti intellettuali di quella parte politica si ritenevano “migliori” degli altri, anche del popolo. E sbagliavano. Oggi, per contrappasso, cercano in tutti i modi di non contraddire il popolo, pure quando dice o fa palesi corbellerie. E sbagliano.
L’imbarazzo di alcuni esponenti della sinistra nel commentare i fatti di Gorino mi ha riportato alla mente la colossale allucinazione che condusse, nell’estate del 1983, la rivista dell’intellighenzia italiana di allora, Alfabeta, a commentare le scritte «Forza Etna» apparse sui cavalcavia delle autostrade venete, come ricorda Paolo Morando nel suo ’80 L’inizio della barbarie, in un modo e con un’ingenuità velata da piaggeria e paternalismo nei confronti di quel “popolino” di cui nemmeno parlavano la lingua (e infatti, per quello, non capivano cosa intendesse dire) che lascia basiti e spiega molte cose sul perché, un Paese che ha avuto e ha per élite intellettuale gente capace di simili analisi e riflessioni, si trovi nello stato in cui è.
Si leggeva nella rubrica Indice della comunicazione del numero di luglio/agosto della rivista quell’anno: «Il primo vulcanologo che si ricordi fu Empedocle, vissuto nel V secolo a.C. Ammaliato dai suoi studi per l’Etna, nel 435, a cinquantacinque anni, si tuffò nel cratere principale per meglio attendere alle sue ricerche. Le popolazioni locali, del resto, non hanno mai considerato l’Etna come cattivo, anzi è sempre stato una presenza protettiva, nonostante l’attività ininterrotta. Sembra che l’atmosfera stessa sia generata dai vulcani e così gli oceani. Possibile che qualche villetta abusiva riesca a scuotere la secolare convinzione che lega il Bene al vulcano Etna? Improbabile. Non è azzardato affermare che la maggior parte dei telespettatori tifasse Etna quella notte. Tifavano e tifano Etna quelli che non amano la gratuità dell’intervento umano sulla natura, quelli che non sono disposti a modificare posizioni consolidate nel sapere di millenni per compiacere l’ultimo venuto, e anche coloro che hanno istintivamente avvertito come lì, sul vulcano, si stesse compiendo una violazione. In questo senso va inteso il “Forza Etna” apparso sui muri d’Italia, ed equivocato da Guttuso che l’ha ridotto a mera concione Nord-Sud. È la forza purificatrice della natura che si è giunti ad apprezzare in quell’incitamento, contrapposta alle malefatte dei potentati».
Capite? Non c’era razzismo, solo un’insopprimibile afflato ambientalista venato da una profonda sensibilità per un’urbanistica più a misura d’uomo, peraltro generatosi nelle terre che della villetta e dei capannoni hanno fatto peculiarità paesaggistica. Guttuso, per fortuna del suo stile, non invitò quegli autori a lasciarsi ammaliare dallo spettacolo delle eruzioni nel modo e sull’esempio del loro amato Empedocle. E ovviamente, adesso non siamo a quel livello di sesquipedale vacuità d’analisi, con i commentatori si affannano a ricercare, con improbabile lena marxista sui giornali dei padroni, nell’essere sociale di quelle popolazioni il senso delle coscienze esplose sulle barricate contro dodici donne e otto bambini.
Stiamo al vero: c’è una parte di popolazione è arrabbiata, contro il nulla e alla ricerca di un nemico. Come le masse di Steinbeck, vogliono un obiettivo per il loro fucile carico di paura e rancore. Ma appunto questo è il tema: chi ha caricato quell’arma? Da dove trae origine l’umore di quanti la impugnano? Cosa riempie quelle cartucce? La risposta è nota, e scritta pure da quegli analisti: l’impoverimento del ceto medio, la sensazione di insicurezza generata dalla precarietà di reddito e lavoro, le ripercussioni sul singolo di una globalizzazione senza limiti né regole.
Bene, ma allora permettetemi di chiedervi, signori intellettuali che scrivete sui giornali e parlate nei media più importanti e prestigiosi: voi, mentre tutto questo accadeva, dove diavolo eravate? Perché della globalizzazione avete cantato le lodi mentre altri contavano le ferite (sì, quelle di Genova comprese), della flessibilità scrivevate meraviglia mentre noi vi leggevamo il senso ineludibile del precariato, e l’impoverimento era il fine a cui una politica economica basata sulla disuguaglianza tendeva mentre da qualche parte c’era chi veniva messo in croce solo perché pensava a un altro mondo possibile, non necessariamente capitalista.
E c’era una forza che lottava per l’uguaglianza, mentre voi, dicendovene suoi alleati, cianciavate di “merito”. Essa garantiva, per una strana e forse ricercata eterogenesi dei fini, la tenuta del sistema del quale criticava gli esiti, e per questo, magari, s’è condannata all’impossibilità di determinare conseguenze all’altezza delle premesse. Però voi non l’avete più sostenuta, e ora la vedo dura cercare di risolvere quei problemi che denunciate puntualmente, ma che altrettanto puntuali son lì a sollevare gli stessi istinti che durante l’evo in cui l’economia, che vi garantiva la facoltà di poterla riverire senza metterne in discussione gli assetti vi pagava un benessere fittizio, ha cavalcato dirigendoli nei suoi cicli di produzione, scambio e consumo.