Realtà gufa! Ovvero, l’effetto del Jobs Act

Commentare i dati dell’occupazione è sempre un brutto lavoro quando non sono entusiasmanti. Rimangono però quelli che sono, e nasconderli non aiuta di certo. Come le cifre del report sulle assunzioni nel primo trimestre del 2016 comunicate ieri dall’Inps. In sintesi, il calo degli incentivi ha comportato, da gennaio a marzo, un rallentamento delle assunzioni, segnando un 77% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Di contro, i voucher nello stesso trimestre hanno avuto un incremento del 45% nel confronto con i primi tre mesi del 2015, disegnando, così, uno scenario del mondo del lavoro più precario di quello di dodici mesi fa.

Volendo semplificare con una metafora, quell’aumento dell’occupazione stabile che veniva venduto come il risultato delle riforme strutturali del Jobs Act era solo l’effetto effimero del doping degli sgravi contributivi. Sto dicendo che 50 mila occupati sono un dato trascurabile? Quando mai, sono felice per ognuno di quei contratti. Ma se riducendo gli incentivi sono calate le assunzioni, quando quelli finiranno queste continueranno? E non è precisamente quanto sostiene lo stesso Renzi, che ormai non dice più che i dati dell’andamento occupazionale sono frutto della sua riforma del lavoro e spiega che «la crescita prosegue, ma siccome gli incentivi sono stati ridotti continua a un ritmo meno forte, meno veloce»?

Stando al ragionamento del premier, al rallentare degli sgravi fiscali, rallentano le assunzioni. E gli incentivi, prima o poi, si fermeranno. Non servono l’approccio giuslavorista o un qualche metadone fiscale a tener su una crescita occupazionale strutturata e duratura; ci vorrebbero interventi seri e diretti nell’economia reale. Inoltre, se leggessimo le veline governative passate per notizie, dovremmo credere che ci siano, e non pochi, anche i fondi per fare quegli interventi, per dar denaro vero alla parte viva del sistema economico. Ma appunto, son veline. Nella realtà, non abbiamo 14 miliardi di euro da usare, al massimo dobbiamo fare tagli per 10 invece che per 24. Che è meglio, ovvio, ma è pur sempre austerity.

Una buona stella, devo ammetterlo, i governanti in questo Paese ce l’hanno, e curioso caso del destino è proprio quella disillusione diffusa nelle sue genti, che essi stessi, ingrati critici, chiamano sfiducia o, peggio, disfattismo. Se fossimo un popolo di sinceri sostenitori dei governi che ci scegliamo, saremmo poi conseguentemente portati a credere alle loro parole. E quindi, dato che da tempo chi è al potere ci dice che tutto va per il meglio, è la volta buona, l’Italia riparte, dovremmo alzarci in piedi e chiedere, ciascuno, la propria parte di quel benessere che riempie copiosamente lo storytelling dei corifei salmodiato forte dai tanti coreuti.

Ma per fortuna di chi canta, dicevo, nessuno gli crede.

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