Le parti fraintese

Capita sempre più spesso di imbattersi in commentatori e analisti, politici e governanti, anche di convinta fede democratica e con buone conoscenze economiche, intenti a spiegare che solo attraverso le riforme si potrà far ripartire la crescita, quasi che le une per l’altra fossero mezzo. Un simile fraintendimento delle parti in questione, però, o è falsa coscienza, o cattivo racconto.

Perché è ormai evidente che quelle richieste agli Stati in difficoltà, dalla Grecia alla Spagna passando per l’Italia, nulla c’entrano con la crescita economica, ancor meno se intesa quale occasione di creazione di ricchezza da distribuire. Ma soprattutto, esse non sono affatto un mezzo, ma il vero e proprio fine a cui l’establishment e l’ideologia dominante che lo informa e lo sostiene tendono.

Quando, nel maggio di due anni fa, saltò fuori il documento della JP Morgan che vedeva nell’eccessiva democraticità delle costituzioni antifasciste di alcuni Paesi europei la causa dello stallo dell’economia, in molti si stupirono e si scandalizzarono. Parecchi, invece, quei due sentimenti li finsero.

Le riforme economiche e di sistema, dalle privatizzazioni alla smantellamento del welfare, dal contenimento salariale alla diffusione del precariato, dalla limitazione della contrattazione alla riduzione dell’azione sindacale e fino allo smantellamento di quelle libertà costituzionali che nel report della banca statunitense venivano additate a limite che vanno di pari passo con il trasferimento della sovranità dai cittadini verso istituzioni di governo e la prevalenza, nei rapporti politici e di forza, del potere esecutivo sul legislativo, della governabilità sulla rappresentanza, non sono affatto una via per raggiungere un altro meta, ma sono esse stesse la menta, il fine, appunto: un nuovo ordine e un diverso modello sociale.

Un modello e un ordine per definire Stati più forti e liberi di agire, liberalizzazione dei servizi per consentire ai privati di guadagnare sulle esigenze di popolazione con servizi pubblici continuamente ridotti, alleggerimento delle procedure per favorire la l’impresa, nella concezione ideologicamente dominante che vede essa, ed essa solamente, l’unico valore e l’attore principale di tutti i processi economici, e anche di quelli sociali.

In questo scenario, le crisi non sono affatto un accidente da superare, ma un’occasione da sfruttare per imporre quelle misure e quelle organizzazioni che altrimenti sarebbe più difficile far passare. E non è affatto una deriva del capitalismo finanziario e cinico di questi anni, dato che anche liberali dal volto più umano spiegavano, in buona sostanza, che quei passaggi avversi della storia servono a far pulizia.

Scriveva infatti Luigi Einaudi (cfr. Il mio piano non è quello di Keynes, Rubettino, Soveria Mameli, 2012, p. 214), con riferimento alla grande recessione, che nella crisi “si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quali esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori incompetenti, o avventati o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Non l’euforia della carta moneta occorre, ma il pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana Chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù”.

Questa è l’economia fondata sul libero mercato, null’altro che ciò. Per fugare ogni dubbio su quali siano i suoi veri intenti e i suoi unici beneficiari, pure al cospetto di crisi e recessioni, considerate chi, durante l’ultimo periodo di difficoltà, ha visto migliorare la propria situazione e quanti, invece, al contrario, han dovuto fare i conti con un peggioramento. Non credete a quello che scrivo, giudicate voi stessi.

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