Ora e sempre. Sì, ma cosa?

“L’articolo 34 dice: ‘i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi’. E se non hanno mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo, il più importante e impegnativo […], che dice così: ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’. […] Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo, ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’, corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare, e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica. Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo”.

Sono parole di Piero Calamandrei, pronunciate in un discorso sulla Costituzione tenuto agli studenti universitari di Milano nel gennaio del 1955. La Carta fondante della nostra Repubblica, per lui era un progetto da attuare, “un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere”. Ma soprattutto, era l’idea di società nata e forgiatasi nella temperie della Resistenza: “Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. […] No, non è una carta morta, è un testamento, un testamento di centomila morti”. Un testamento di migliaia di morti. Ma noi lo rispettiamo?

Nella società della competizione che poggia sul falso mito della meritocrazia, noi rispettiamo quel testamento? Nel mandare al macero pezzi interi di quella Carta, noi rispettiamo quel testamento? Nel dimenticare che senza uguaglianza, libertà, e quindi democrazia, è parola vuota di significato, noi rispettiamo quel testamento? E badate che non siamo affatto obbligati a farlo: “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future”. Così si legge già nella Costituzione francese del 1793. Basta dirlo; e rinunciare alla pantomima di difenderne valori, princìpi e fondamenti.

Se questa generazione non è interessata a difendere la Costituzione nata dalla Resistenza e le sue indicazioni, che la cambi. Sapendo cos’è quella e sapendo a quanto si sta rinunciando. La società che si disegnava allora era una società in cui l’uguaglianza diventava fondamento e obiettivo; in quella a cui si pensa oggi, essa rappresenta un limite e un danno, perché si crede che solo la competizione fra i non-uguali generi crescita e benessere.

In quella, la democrazia era una questione di sostanza e di reali possibilità di partecipare alla vita della società; la visione attuale considera tale tema solo uno strumento per scegliere, contandosi, chi sarà a decidere.

Lì si pensava alla rappresentanza, qui alla governabilità, tanto che lo stesso istituto della rappresentatività viene smontato nel riscrivere il dettato costituzionale. L’art. 67 della Costituzione in vigore recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Il novellato dai moderni ri-costituenti dice: “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”. Quel “rappresenta” in quel dispositivo non c’è più e, sebbene venga recuperato e, per l’intera Nazione, lasciato ai soli deputati e ristretto ai territori per i nuovi senatori, con esso, viene da supporre che vada via, fra riduzioni e parcellizzazioni, l’intero impianto rappresentativo del nostro sistema democratico.

Nella Carta scritta da chi aveva lottato per la libertà e sofferto la dittatura, il tema del controllo del potere era centrale; nell’idea di quanti oggi si apprestano a cambiarla e affiancarle un sistema elettorale fortemente maggioritario, eliminando uno dei due rami del Parlamento, il Governo diventa il dominus ab solutus della scena politica, e quei controlli solo un impedimento al suo diritto e alle sue prerogative conferitegli dalla maggioranza, anche se essa fosse solo la più numerosa delle minoranze, divenuta prevalente nelle istituzioni per effetto di un premio elettorale.

Si può cambiare, certo, ma sapendo cosa si cambia e come si vuole farlo. Soprattutto, da dove viene quel che stiamo cambiando e dove si potrebbe arrivare con i nostri cambiamenti. Perché spesso, se non sempre, sono le scelte effettuate nei tempi leggeri a determinare le difficoltà nelle stagioni gravi.

Forse sono preoccupazioni inutili, non lo escludo. E magari aveva ragione Carlo Levi, quando, all’alba della stagione libera che stiamo ancora vivendo, scriveva sulla Nazione del popolo: “la lezione del fascismo non è passata invano. Il popolo non è più un gregge, in attesa, terrorizzato o adorante, dei cani e dei pastori. Egli sa che la democrazia non è uno schema formale né un metodo teorico, ma l’unità differenziata di infinite, viventi autonomie. Per questa democrazia, che è la sua stessa reale esistenza, egli è pronto a combattere”. Eppure, il rischio che siano passati troppi anni e quell’insegnamento drammatico sia stato dimenticato è alto, e non so se possiamo permetterci il lusso di provare a correrlo.

Oggi è il settantesimo della liberazione dal nazifascismo, e in molte piazze e in tanti contesti, sarà ricordata quell’epigrafe “ad ignominia” di Kesselring dettata proprio da Calamandrei, e ripetuto quel suo “ora e sempre”.

Ora e sempre, sì, ma cosa?

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