Una “ditta” è solo quel che dà da vivere

“Le nostre scelte e le nostre azioni sono dettate dal senso di responsabilità e dalla lealtà verso la ditta”. Tante volte abbiamo sentito negli ultimi giorni espressioni come questa. Troppe, in verità. La cosa triste, o almeno tale lo è per me, è che una simile ostinazione condotta addirittura a dispetto dei fatti e della loro qualità, sia venuta da persone che avevo imparato ad apprezzare. Ma il problema è tutto lì, in quella definizione: ditta.

Cos’è una ditta? Non è certo qualcosa per cui vivere, a meno che non se ne sia i padroni e all’interno di una visione idealistica e d’un concetti di capitalismo romantico, che forse non c’è mai stato. Al massimo, e tutt’al più, essa è qualcosa che da vivere. E come si può usare quella definizione per un partito, per un qualcosa a cui si dovrebbe appartenere per comune condivisione degli obiettivi e dei metodi per raggiungerli? Un po’ difficile, non trovate? A meno che anch’esso non sia ciò che dà da vivere.

È pessima come osservazione, lo so. Però, pure spingendola al di là del dato materiale di sopravvivenza, rimane il fatto dell’inspiegabilità di quel comportamento, se non inserito nel complesso di una visione lavoristica della politica e della partecipazione alle sue forme e alle diverse organizzazioni. Si sta lì perché lo si fa per lavoro, si è parlamentari perché quella è la propria professione, e come in tutte le professioni e i lavori, si fa ciò che il superiore di turno chiede e vuole. E se ciò è contrario a quanto si vorrebbe fare, non è un problema: il mestiere è mestiere, poche chiacchiere e diamoci da fare per fare quel che si deve fare.

A questo, però, per aggravio di dolore, va anche aggiunta la natura della formazione avuta da molti di quelli che vedono nel partito la propria “ditta”. Quasi tutti vengono dal Pci, e tanti nella temperie culturale di quel partito-chiesa sono cresciuti: si sta col segretario, perché esso è il segretario. Non si può discutere, non si possono avversare le sue decisioni né discordare profondamente da esse fino al punto di metterle in discussione, e coloro che chiedono quel “diritto al dissenso” già invocato da Ingrao durante l’XI Congresso del Partito comunista italiano, nel lontano 1966, sono ancora guardati con sospetto, portatori di un’autonomia che può divenire, ai loro occhi, pericolosa slealtà.

Poi, dopo, magari trascorsi trent’anni, sono pure pronti a riconoscere l’errore, se nel caso gli avvenimenti si dimostrassero in tutta la loro palese evidenza, come fece Napolitano nel 1986 sui “fatti d’Ungheria” del ’56, affermando che la ragione, all’epoca, stava dalla parte di quelli come Antonio Giolitti o Giuseppe Di Vittorio, ma anche Pietro Nenni e il Psi del tempo, che vennero accusati di appoggiare una rivolta imperialista, secondo la tesi di chi, dinnanzi alla violenza dei carrarmati sovietici, altro non trovò da dire e fare se non tacere e bere “un bicchiere di vino in più”.

I lealisti alla ditta nuotano in quest’acqua qua; sono cresciuti così, e così sono diventati ciò che sono. Rifuggono la solitudine intellettuale perché, per loro, metterebbe a rischio tutto quello in cui credono, e pertanto, non avendola mai praticata, gli fa male, perché solitudine, appunto, e perché sconosciuta, come darebbe dolore la luce ai prigionieri nella caverna immaginati da Platone.

Persone a cui culturalmente si è voluto bene, le si scopre vittime delle loro peculiarità. Come coloro che aspettano la pioggia per non piangere da soli di cui cantava De André, immalinconisce il guardarli spegnersi fra le gocce di quel che da sempre hanno atteso.

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2 risposte a Una “ditta” è solo quel che dà da vivere

  1. Giuseppe scrive:

    La “Ditta” non mi pare un’immagine molto appropriata. C’è sempre un padrone e dei subalterni. Oggi partiti-ditta sono tutti quelli col leader che comanda, Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini. E’ questo cui tende Bersani ? Se non lo è, è un’immagine sbagliata.
    Però egli ha inventato un soggetto astratto cui una persona per bene, leale , di parola, deve prestare fede , riconoscerne sempre l’autorità, non criticare oltre un certo limite ecc.. Insomma un bel paravento per non decidere, tracheggiare e soprattutto cui agganciare la figura che di sè i mass media hanno tratteggiato, quella del politico serio. O no ?

  2. giuseppe scrive:

    Caro Rocco, sottoscrivo al 100% il tuo bell’articolo che oggi mi sono riletto. Ma tu scrivi “Rifuggono la solitudine intellettuale perché, per loro, metterebbe a rischio tutto quello in cui credono “. Ma è proprio vero che sarebbe tutto quello in cui credono che sarebbe messo a rischio? C’è qualcosa in cui costoro credono veramente ? CREDERE E’ UNA PAROLA GROSSA. A me pare inappropriata in questo contesto. In realtà si tratta di gente senza passione . La collocazione che si sono scelta risponde a quella accettabilità di un certo sentire comune che considera positivamente la critica solo se essa è moderata e non supera i limiti della “fedeltà” , della “serietà”, del “bon ton” . E’ una posizione che ti fa apparire vivace intellettualmente , ma anche e soprattutto di buon senso, che non privilegia i propri personalismi. Caro Rocco, piu’ che di analisi politica dovremmo interessarci di modelli culturali e psicologia delle masse. Cordialmente. (=)

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