Dire che la disoccupazione è colpa del governo è come la bestemmia che accusa il consesso dei ministri per la pioggia. Ma se è vero questo, allora non sarebbe merito dell’esecutivo e dei provvedimenti che adotta anche l’eventuale ripresa del numero degli occupati. Eppure, non appena i dati di qualche istituto o agenzia mostrano ed evidenziano numeri scritti nel nero di una positività poco più che strumentalmente rilevabile, i governanti si profondono in rabdomantiche dichiarazioni positive o aruspicine letture di crescite.
Quella che ci consegna l’Istat con i suoi ultimi report è una pagina sulla quale ormai si è pure tentati di tacere. La disoccupazione cresce dello 0,2% su base mensile e dell’1,2 annuale, giungendo a toccare quota 13,4%, per un totale di senza lavoro che sfiora i tre milioni e mezzo, cinquantamila di questi hanno perso il posto solamente negli ultimi trenta giorni del mese di novembre. Il dato riferito ai giovani è drammatico: 43,9%, in crescita dello 0,6 rispetto al mese precedente, ben oltre cinque punti percentuali in più di quando i legislatori che oggi spiegano come risolveranno la questione si insediarono nelle loro funzioni, nel marzo del 2013.
Il Jobs Act è l’unica risposta che chi fa le leggi e i decreti sta immaginando per uscire da questa spirale. Cioè, si continua a camminare lungo il sentiero che indica la soluzione al problema solamente in chiave giuslavoristica ed esclusivamente declinandola sulle prospettive di una maggiora libertà per l’imprenditore. In pratica, per maggioranza e governo, dall’impasse si esce unicamente elevando l’impresa, e il suo interesse, a valore primo e principale dell’economia.
Infatti, dicendo che l’unico modo per far ripartire l’occupazione è dare a chi imprende più libertà nel gestire i rapporti con i dipendenti, si afferma che è l’iniziativa imprenditoriale il solo centro delle dinamiche economiche e delle relazioni industriali. Così facendo, però, il lavoro, e con esso chi materialmente lo svolge, diventa una variabile fra le altre, come può esserlo il costo dell’energia o la dotazione della rete infrastrutturale, rendendo irreversibile l’alienazione che è proprio la perdita delle caratteristiche umane, e quindi di incomprimibile alterità rispetto a tutto il resto, nell’esecuzione delle proprie mansioni.
Malgrado ciò, il vangelo è questo. E da trent’anni non è più messo in dubbio nemmeno dalla cosiddetta sinistra di governo. L’economia e l’occupazione, intesa solo come epifenomeno economicistico, ripartono solo se si libera l’impresa e l’imprenditore. Di conseguenza, le rivendicazioni, e i diritti, non dimentichiamolo, dei lavoratori sono freni, lacci e limiti a quell’azione altrimenti felicemente magnifica.
Questa che viene venduta come una verità ipostatizzata è in realtà solamente una visione ideologica e di parte; della parte dei più forti, ovviamente. Per esempio, mentre qui la disoccupazione supera, come ormai fa rilevazione dopo rilevazione, tutti i record da quando ci sono le serie statistiche, in Germania il numero dei senza lavoro cala, e si attesta su valori inferiori alla metà di quelli registrati in Italia. Però, come spiega l’Ocse, ciò non è affatto dovuto a una questione di mancanza di flessibilità o eccesso di tutele. L’indice di protezione dei lavoratori italiani, infatti, è pari, secondo i dati dell’organizzazione internazionale parigina, a un coefficiente di 2,51, più basso di quello rilevato per i loro colleghi tedeschi (2,87), ma pure olandesi (2,82) e svedesi (2,61), tutti Paesi con valori di disoccupazioni significativamente più bassi del nostro.
Una serie di circostanze che spingerebbe a rivedere i motivi reali di una debolezza occupazionale che non si può pensare di superare in discesa, con contratti sempre più precari e meno retribuiti. A meno che quello della crisi non sia solo l’alibi per realizzare un disegno restauratore sotto nemmeno tanto mentite spoglie, e usare la miseria da assenza di lavoro come esercito di riserva per piegare le resistenze di quanti ancora si ostinano a rivendicare il diritto al pane, ma anche alle rose.