Certo, il cuore si spaventa a immaginare quieti assolute e profonde. Per questo a volte ci leghiamo alle cose che abbiamo, immaginando che quella percorsa fin qui, sia la sola strada possibile. E quasi sempre ci innamoriamo di un luogo o di uno spazio, solo perché sono quelli che da sempre conosciamo.
Così come, drammaticamente, ci lasciamo sedurre, arrendendoci, anche da una possibile barriera al nostro andare, da un limite per il nostro pensiero, da quella “siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
Perché è come scriveva Leopardi: abbiamo solo paura di varcarla, di comparare a queste voci vicine quei silenzi lontani, di provare a camminare da soli su sentieri che non conosciamo, e che nessuno ci assicura portino a qualcosa.
Rimaniamo, per questo, seduti dietro quel riparo che cinge il mondo di cui già sappiamo quasi tutto, al massimo concedendoci il piacere consolante delle cose che abbiamo o che possiamo avere, senza mai l’ardire di provare la dolcezza di un naufragio nell’immensità ignota.
Mollare gli ormeggi e dirigersi verso ciò che non intendiamo nemmeno come possibilità, quasi sempre, però, si può fare solamente da soli. Ed è la solitudine intellettuale necessaria a intraprendere quel viaggio ciò che spesso manca, quello che più servirebbe per dargli corso.
Cresciuti in una società di massa, dove anche i sistemi che si ergono quali alternativa, fanno perno costante e continuo sul collettivo inteso come gruppo, al massimo guidato da un capo, nemmeno esso solitario per vocazione, ma primo per ruolo, gli uomini contemporanei soffrono la paura del distacco come fosse finale, ultimativa.
Non c’è opportunità di pensarsi da soli, perché è la logica del numero a guidare le esistenze dei singoli. Quella quantitativa diviene l’unica dimensione su cui si misura il buono e il giusto e ogni altro aspetto della quotidianità.
E c’è poi il limite dell’utile, come lo chiamava Bataille, che non si vuole scavalcare, nemmeno tentarci, perché si ha paura che, appunto, ciò possa essere inutile. La tragedia è tutta qui: che rimanendo nel giardino dell’utilità conosciuta, si perdono tutti i fiori che crescono sulle praterie del superfluo.
Non il superfluo dominato dal mercato, quello che si esprime negli ori e negli averi; no, il superfluo di un sentire che non può essere contato e quotato, come il tempo che si impiega inseguendo i propri pensieri, le ore che si usano per trovare una parola, i giorni, i mesi e gli anni che s’impegnano nel seguire un’idea che, nel profondo di noi stessi, sappiamo già fin dal primo istante che non raggiungeremo. Ma che ci aiuta a camminare.