Può un popolo per anni consenziente assolversi?

«Ma, dopo tutto, cos’era questo fascismo? Questa idea che avrebbe dovuto forgiare il secolo e si è invece dissolta nel giro di ventiquattro ore? Come ha potuto il re, dopo essersi professato suo unico amico, quell’ometto contorto e pavido cui lui aveva dato un impero, farlo arrestare sull’uscio di casa? Come hanno potuto i gerarchi, nullità a cui aveva dato tutto, revocargli il mandato nemmeno fosse un amministratore di condominio? Come ha potuto il popolo, che con lui si era pienamente identificato, maledire il suo nome dopo averlo venerato per vent’anni all’alba di tutte le mattine del mondo? E perché non c’è stata alcuna reazione? Fino a ieri in Italia c’erano milioni di fascisti tesserati al Partito, centinaia di migliaia di squadristi inquadrati nei ranghi della Milizia, decine di migliaia di suoi pretoriani dei battaglioni M. Eppure nessuno si è mosso. Nessuno. È uno sproposito che va oltre le leggi della fisica, un’azione violenta senza alcuna reazione – oltre ogni logica –, una civiltà che collassa senza fare rumore, si accartoccia su di sé con un gemito sordo – oltre ogni immaginazione –, una stella implosa nel silenzio siderale dei deserti cosmici. […] Un funzionario di polizia, di scorta durante la navigazione verso Ponza, glie ne ha rivelato sadicamente alcuni dettagli: Roma, la capitale che lui ha riscosso da secoli di decadenza, è imbandierata a festa; a Milano i rivenditori hanno rifiutato l’ultima edizione de Il Popolo d’Italia, che tributava un commosso saluto al Duce, poi gli operai sono saliti sul tetto della sede e, lettera dopo lettera, hanno divelto, incontrastati, la gigantesca insegna. Ovunque si strappano i galloni dalle divise della Milizia, si gettano i distintivi di Partito nelle fogne, si prendono a bastonate le statue con l’accanimento di una incolmabile sproporzione: il legno contro il bronzo, il legno contro la pietra, contro il marmo. Da ogni piazza le urla di giubilo salgono orbitali, le manifestazioni d’odio non si contano, i rancori sbracano in gesti grotteschi. Pare che ad Ancona qualcuno si sia preso la briga di trasportare un pesantissimo busto bronzeo di Benito Mussolini in un pisciatoio pubblico. […] Lui è politicamente defunto, il suo nome è bandito, i milioni di italiani che lo hanno glorificato fino a ieri, oggi lo detestano, maledicono il giorno in cui è nato. Lo odiano i vivi, i vivi e forse persino i morti».

Così Antonio Scurati, nel suo ultimo capitolo della pentalogia sul fondatore del fascismo, racconta i pensieri che assalgono Mussolini nei suoi giorni da confinato a Ponza, nel luglio del 1943, all’indomani della caduta del regime (A. Scurati, M. La fine e il principio, Bompiani, 2025, pp. 15-17). Ed è vero che, fino al giorno prima, o poco più, il consenso era granitico o quasi. Caduto il fascismo, nel ’43 e più ancora alla fine della guerra, nell’aprile del 1945, quanti dei sostenitori si scoprirono resistenti?

«Il visibile a acclarato consenso faceva aggio su tutto e tranquillizzava le coscienze. E il consenso non era semplicemente lo spettacolo delle adunate oceaniche, era anche la spontanea autocensura del giornalismo, la sempreverde, tacitiana “servitù spontanea”, la benedizione da parte della chiesa, l’ordine ristabilito e conclamato e apprezzato: a suo modo una ‘normalità’. Insomma un regime ‘rispettabile’ dotato persino di una fronda interna, di un brillantissimo conte ambasciatore d’Italia molto apprezzato dal Foreign Office (Dino Grandi), e di un para-intellettuale come Giuseppe Bottai protettore di riviste letterarie pervase ogni tanto da qualche critico frisson. E di sindacati finalmente “serî” e costruttivamente collaborativi, anzi corrivi. E di un fiorente e accorsatissimo “Dopolavoro”. E di tante altre “cose buone”, come ancora oggi molti benpensanti ripetono» (Luciano Canfora, Fermare l’odio, Laterza, 2019, p. 12).

In quelle parole, Canfora ricordava gli aspetti che piacevano tanto ai liberali, ai vari Croce, Einaudi e allo stesso Giolitti, che non disdegnavano, al principio dell’esperienza dei fasci di combattimento, di poter dare una mano per consentire al fascismo di farsi argine contro il pericolo del partito di Gramsci. E tra questi, non ultimo il consenso che il fascismo riusciva a mobilitare nelle masse e nei ceti popolari. Perché appunto il consenso c’era, e non solo negli anni migliori del regime, come spiegò, a suo tempo, un controverso De Felice. Ci fu fin da subito, e non ricordo indignazioni popolari eccessive alle notizie del farsi di un sistema che affermandosi, nelle sorti di Matteotti e di altri, si dimostrò per quel che era. Ci fu al suo apice, quando si festeggiava in piazza l’annuncio delle leggi razziali o l’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. E ci fu perfino dopo quel luglio del ’43, quando la caduta era già tutta dispiegata ed evidente, se si pensa che, ancora nel dicembre del 1944, in molti tributarono onori e gloria al duce a Milano, in via Rovello. Tanti, quel giorno, come lo erano quelli che, pochi mesi dopo e a pochi metri da lì, in piazzale Loreto, dello stesso volevano ridurre in brandelli il corpo. E forse, erano pure gli stessi.

E consenso ci fu, per quanto più elegante, va detto, tra i colti e gli intellettuali, persino fra coloro che poi, come si è detto, si scoprirono antifascisti. Quanti furono i professori a non firmare il giuramento di fedeltà al fascismo? Quanti si protestarono indignati all’approvazione delle norme contro gli ebrei? Quanti devono esser stati pochi, se persino uno che mai recriminò verso chi faceva carriera mentre lui consumava la sua vita in prigione, come Vittorio Foa che ricordò (cfr. V. Foa, Passaggi, Einaudi, 2000, pp. 4-5) quanto «non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza»?

Alla fine, e a alla vigilia dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, mi chiedo se, e come, quel popolo — e questo che gli è erede, senza aver mai fatto i conti fino in fondo con le responsabilità e le colpe di storia — potette assolversi in pochi giorni o mesi dai due decenni precedenti e da quanto in quelli accadde.

Tempo perso, il mio? Probabilmente sì. Ma mi serve anche per ricordare che il consenso non basta, a far democrazia.

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