La grande invenzione

Myung-bo arrossì. «Lo capisco. Davvero, amico mio. Tuttavia, con la tua intelligenza e la tua istruzione sicuramente capirai che con questo contributo ti sei guadagnato un posto nella Storia. Non è così?».

«Ah, la Storia! Ah ah!». Sung-soo fece una risata vuota, sbuffando volute di fumo. «D’accordo, Myung-bo, parliamo della Storia, allora. Ricordi anche tu la storia di Koguryo? Per settecento anni, a cominciare dal I secolo, quel bellicoso regno dei nostri antenati governò non solo sull’intera parte settentrionale della penisola di Corea, ma su fino al territorio del Primotskij, Vladivostok, e alla Manciuria. Poi, dopo il suo declino, Balhae dominò per altri trecento anni in quegli stessi territori. Ora, ciononostante, quelle terre appartengono alla Russia e alla Cina, e chi vi abita? Russi e cinesi. E che ne è stato dei coreani che hanno vissuto lì per mille anni? Sono stati spazzati via, o si sono spostati a sud, oppure hanno contratto matrimoni misti con russi e cinesi. Ma i pochi coreani autentici che rimangono, i discendenti di Koguryo, piangono forse la perdita del loro Paese d’origine? No, non provano nessuna nostalgia né patriottismo per la penisola coreana. Negli ultimi mille anni, la loro identità è stata completamente annacquata.

«Il concetto di nazione è un mero costrutto. Serve per sostenere la nostra realtà, ci serve ai fini del governo eccetera, ma non è né ovvio né naturale, e diventa ancor più privo di senso se lo consideri all’interno del contesto storico. Lungo tutta la storia dell’umanità, le nazioni sono state distrutte, assorbite in altre, sono rinate o sono state dimenticate, e questo non fa nessuna differenza per il benessere dei posteri. Che si tratti di Koguryo, dell’impero romano o dell’antica Persia, non cambia niente. Noi siamo stati annessi al Giappone nove anni fa, e questo è un fatto. Se non cambia niente, tra mille anni non ci sarà una ‘Corea’ o un ‘popolo coreano’. Ma allora alla gente non importerà un fico secco che il loro Paese, un tempo, mille anni prima, era indipendente».

Juhea Kim, “Come tigri nella neve”, Editrice Nord, 2022, traduzione di Emanuela Damiani, pag. 114

Le parole che avete letto sopra sono tratte da un romanzo, e i due protagonisti del dialogo si trovano nella Corea occupata dai giapponesi, sul finire del secondo decennio del Novecento. Wilson ha già tenuto il proprio discorso al Congresso americano sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, che in Asia avrà diversi estimatori, seriamente convinti, come uno dei due protagonisti dice all’altro, di potersi rivolgere all’America per far valere quel diritto, certi di ascolto (e poi, spesso delusi. Come ricorda Eckart Conze, nel suo 1919. La grande illusione – Rizzoli, 2019, pag. 204: «Rappresentativa di questo sviluppo è la storia del già citato Nguyen Ai Quoc – “Nguyen il patriota” –, che nel giugno del 1919, si racconta, tentò di consegnare a Wilson una petizione intitolata Le richieste del popolo di Annam. Secondo alcuni resoconti, Nguyen aveva persino preso in prestito un frac per l’occasione. Ma il suo tentativo non ebbe successo: non ci fu alcun incontro tra lui e il presidente americano, che forse non ricevette mai la petizione del futuro leader vietnamita. Deluso da Wilson, Nguyen si sarebbe poi rivolto a Marx, Lenin e al bolscevismo. “È stato il patriottismo e non il comunismo a farmi credere in Lenin” avrebbe scritto qualche tempo dopo, quando già aveva preso il nome di Ho Chi Minh»). Di nazione parlano anche nel dialogo citato. Ebbene, io la penso come Sung-soo: «Il concetto di nazione è un mero costrutto. Serve per sostenere la nostra realtà, ci serve ai fini del governo eccetera, ma non è né ovvio né naturale, e diventa ancor più privo di senso se lo consideri all’interno del contesto storico».

E lo so anch’io che oggi, un po’ come razione alla globalizzazione, molto perché alcune parti politiche, reazionarie anch’esse, su quei sentimenti costruiscono capitali di consenso e posizioni istituzionali, il mito della nazione, con le derive dei nazionalismi, vive una fase di grande spolvero. Eppure, nondimeno lo ritengo, cosa che appunto sono i miti, inventato per giustificare situazioni e rapporti di potere. Per «sostenere la nostra realtà», come si dice in quello scambio di battute nel romanzo della Kim.

Non diverse, se ci pensate, sono le sortite sulle ragioni etniche da parte di alcuni politici e intellettuali (absit iniura verbis) odierni e passati. Cosa sono queste etnie, se non delle invenzioni del momento, per il momento e nel momento – o poco più – in cui vengono pronunciate? Dove sono finite quelle distinzioni che i nostri prodi cognati avrebbero giurato di difendere e distinguere, se fossero vissuti qualche secolo fa? Dove i Latini, i Capenati, gli Enotri, i Sabini, i Piceni? E ancora i Goti, gli Alamanni, gli Avari, i Longobardi, i Normanni, gli Svevi, i Saraceni? E nel mondo intero, quanti altri con la stessa importanza e identica sorte?

Andati nell’unico concetto che persiste alle etichette che, di volta in volta, gli si tenta di incollare addosso: l’essere umano.

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