Il diritto alla ricerca di un avvenire altrove

«A non molta distanza da qui, sulle coste di Calabria, si è verificato un evento tragico. I profughi afgani hanno fatto tornare anzitutto in mente quanto il nostro Paese ha fatto nel momento in cui i talebani occupavano Kabul per portare in Italia non soltanto i nostri militari in missione lì, ma tutti i cittadini afghani che avevano collaborato con la nostra missione. Non ne abbiamo lasciato nessuno, li abbiamo tutti accolti. Ecco, questo ci fa tornare alla mente le immagini televisive della grande folla all’aeroporto di Kabul che imploravano un passaggio in aereo per recarsi altrove. Ci fa quindi comprendere il perché intere famiglie, persone che non vedono futuro, cercano di lasciare, con sofferenza — come sempre avviene — la propria terra per cercare un avvenire altrove, per avere possibilità di un futuro altrove».

Così il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, parlando a braccio all’Università di Potenza, lo scorso lunedì 6 marzo. Parole perfette. Per definire i fatti di Cutro, certo. Ma in generale, per parlare di tutto quello che accade da sempre nella storia dell’umanità: le persone, si muovono. Ed è muovendosi, camminando, riempiendo il mondo, che fanno la propria storia, la storia di tutti. È nelle parole della Genesi, con quel divino «riempite la terra»; lo è ancor di più, ed è di ciò che parla il Presidente, quando a spingere via da dove si è venuti alla luce sono condizioni inaccettabili e cruente. E sì, sanno della pericolosità dei viaggi, ma conoscono anche il resto, quello che hanno vissuto e vivono dove sono nati e cresciuti, che chi commenta le loro scelte spesso ignora. Racconta nella sua storia di emigrante Nasenet Alme Wildmikael ad Alexis Okeowo, per il New Yorker del 16 gennaio di quest’anno: «I knew that it was difficult to go from Sudan to Libya, especially if you are a woman […]. I knew that people were dying in the sea to reach Europe. I knew everything. But I made the decision». Perché? Per quell’avvenire altrove di cui parlava Mattarella, per quel diritto a poterci sperare che nessuna legge può sopprimere, per quella necessità di vivere, perché «quando sei nato non puoi più nasconderti».

Piccoli uomini assordati dalla paura di perdere quello che immaginano esser loro, parlano di cose che non conoscono, e spiegano ad altri, che soffrono pene enormi per la sola colpa d’esser venuti al mondo in un luogo e non in un altro, cosa dovrebbero fare e come. Più d’ogni parola sbagliata, sul dramma di Cutro e sui mille altri che si son succeduti, si succedono e succederanno, a farmi male è l’usualità con cui sono accolti, la rassegnazione distaccata di chi li commenta quali eventi normali, figli del caso o del fato, della sorte dei malcapitati, quasi ignorando che quel che accade è spesso il frutto del bisogno che alcuni hanno in virtù della garanzia al superfluo a cui altri non hanno voluto, e non vogliono, rinunciare.

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